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Autore: AdhoMu    25/02/2019    8 recensioni
["Principenny" Clearwater / Charlie Weasley (et Percy Weasley)]
"Weasley.
Patronimico riferito ad antichissima famiglia magica inglese, appartenente al rinomato gruppo delle Sacre Ventotto. I suoi membri sono tradizionalmente affiliati alla Casa di Grifondoro e presentano un biotipo ben preciso, costituito da capelli rossi, pelle chiara e lentigginosa ed occhi di colore variabile fra il celeste e il nocciola."
Ah: e sono anche maledettamente numerosi, aggiungerei io.
E pure fascinosi, accidenti a loro.

Dodici caselle. Dodici draghi.
Riusciranno Penny e Charlie a recuperarli tutti prima della Battaglia Finale?
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Antonin Dolohov, Charlie Weasley, Filius Vitious, Penelope Clearwater, Percy Weasley
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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11. Água da minha sede
(Epilogo)

 
Eu preciso do seu amor
Paixão forte me domina
E agora que começou
Não sei mais como termina
 
Água da minha sede
Bebo da sua fonte
Sou peixe na sua rede
Por do sol no seu horizonte
 
Antonìn Dolohov venne rinchiuso nell’ala di massima sicurezza di Azkaban, condannato a scontare un bell’ergastolo. Secondo voci insistenti, comunque, l’ex-Mangiamorte non manifestò mai alcun tipo di reazione alla cattura e alla reclusione, ma mantenne sempre un comportamento distaccato e incurante che, nelle loro dichiarazioni, i membri del Wizengamot definirono “apatico ai limiti dell’autismo”. Fu scartabellando negli atti del processo (che spulciai febbrilmente nell’intento di vederci chiaro ed esorcizzare i miei demoni) che, qualche tempo dopo, mi imbattei nuovamente in un nominativo che richiamò immediatamente la mia attenzione: il nome della donna il cui ricordo, agendo nell’inconscio alterato di Dolovoh, mi aveva salvato la vita.
Rodina Hlavačkova era stata una coraggiosa strega cecoslovacca originaria, come lo stesso Dolohov, della città di Praga; amica d’infanzia dell’ex-Mangiamorte e da lui amata per tutta la vita, era spirata alla fine degli anni ottanta mentre lui scontava la sua prima reclusione ad Azkaban, tradita dai babbani che lei tentava di far fuggire dal regime sovietico. La presa d’atto della sua morte, avvenuta dopo la fuga in massa da Azkaban del 1995, aveva scaraventato Dolohov nel baratro dell’oscurità più assoluta, neutralizzando qualsiasi possibilità di redenzione da parte sua ed incatenandolo indissolubilmente e inesorabilmente ai cupi propositi del suo Signore.
Il ricordo di quella donna giusta, impavida e determinata, però, non si era mai dissolto del tutto e così probabilmente, nel momento in cui Dolohov aveva ecceduto nel tentativo di manipolare la mia volontà, la sua presenza mai svanita aveva agito come un vero e proprio flusso di coscienza, debellandolo dall’interno.
Fu con grande stupore ed immensa gratitudine che appresi questi fatti cosicché, poco tempo dopo, decisi di fare un salto a Praga per recare omaggio alle spoglie della mia inconsapevole salvatrice. Con un po’ di fatica mi riuscì di rintracciarla, e intensa fu l’emozione che provai quando, finalmente, raggiunsi il suo tumulo immerso nella pace del cimitero di Vyšehrad per depositarvi un mazzo di ortensie azzurre.
A distanza di tanti anni ancora oggi, tutte le volte che ne ho l’occasione, faccio una capatina da quelle parti per farle visita.
 
Il Mondo Magico tornò alla normalità; una normalità screziata da troppi se e troppi ma, forse, ma che tutti quanti si intestardirono a volersi tenere stretta, con le unghie e coi denti.
I “nostri” draghi furono affidati alle cure Hagrid, che li vezzeggiò fino allo spasmo con una certa gelosia da parte di Norberta; poi, grazie alla rete di contatti intessuti da Sturgis Podmore, i responsabili delle diverse Riserve convergettero ad Hogwarts per recuperare i rispettivi esemplari e ricondurli in patria.
Separarsi da loro fu, al tempo stesso, motivo di sollievo e di tristezza perché se, da una parte, ero felice di sapere che sarebbero tornati a casa, dall’altra sapevo anche che mi sarebbero mancati tantissimo. Senza contare che, sul piano simbolico, la loro partenza rappresentava la conclusione definitiva della grande avventura cui, con tutto ciò che ne era conseguito, avevo preso parte nei mesi precedenti.
Ad ognuno di loro augurai ogni bene, soffermandomi a carezzare con affetto i loro musi coriacei mentre loro, piuttosto commossi, si lasciavano sfuggire sbuffi di fumo denso dalle frogie.
In quelle occasioni non ebbi modo di incontrarmi con Charlie ma venni a sapere che, com’era giusto che fosse, si trovava ancora in Inghilterra, nel Devon, a casa dei suoi genitori.
 
Durante i primi tempi, bisognosa di riflettere con calma e riordinare le idee, feci ritorno a casa del professor Vitious, che mi rimise a disposizione la sua varipopinta stanza degli ospiti.
- Rimani pure per tutto il tempo che vuoi, Penny cara – mi disse lui, facendomi però capire che, forse, sarebbe stato anche il caso di riallacciare i ponti con la mia famiglia.
Fu esattamente ciò che feci, man mano che l’estate avanzava; dapprima piano piano e poi con una frequentazione via via più assidua una volta constatato che, alla luce di tutto ciò che era accaduto dallo scoppio della Guerra in poi, il loro atteggiamento nei miei confronti sembrava davvero mutato.
Il primo incontro, dopo tanti mesi di lontananza, fu un po’ imbarazzante; in quell’occasione, però, potei contare sulla presenza di Percy, che si offrì di accompagnarmi da loro. E così, grazie alla sua parlantina (non la smetteva di tessere le mie lodi, con mamma e papà che lo ascoltavano ammirati), il ghiaccio venne rotto molto più facilmente di quanto non pensassi e le cose cominciarono presto a fluire con la massima naturalezza.
Quindi, dopo più di un anno di assenza da casa, finii col trascorrere le ultime due settimane di agosto alloggiata nella mia vecchia stanza, intrattenendomi benevolmente con i miei genitori e con le anziane prozie che, tutti i pomeriggi, ci raggiungevano in giardino per bere il tè, in un gruppeto vociante al quale, spesso e volentieri, si aggregava anche Percy stesso.
Fu un bel periodo, di serenità e di unione, durante il quale ricominciammo praticamente da zero e, fra piccoli errori e significativi successi, imparammo a convivere con i nostri rispettivi caratteri senza recriminare in continuazione sulle reciproche pecche.
Poi alla fine dell’estate, con l’inizio del nuovo anno accademico, mi trasferii nuovamente a Cambridge per riprendere gli studi.
 
Durante tutti quei mesi, Percy fu una presenza assidua nella mia vita.
Premuroso e sollecito, si comportava nei miei confronti in maniera ineccepibile, portando avanti un corteggiamento degno di un galantuomo d’altri tempi.
Io, sapendo quanto delicato fosse il periodo che lui e la sua famiglia stavano affrontando, cercavo di fare tutto ciò che era in mio potere per fargli capire che poteva contare su di me, standogli vicino e facendogli compagnia ma, al tempo stesso, scoraggiando delicatamente i suoi impacciati tentativi di riallacciare il fidanzamento.
Andammo avanti così per utta l’estate, con lui che mi riempiva di amene galanterie ed io che svicolavo sul discorso; poi, quando mi trasferii a Cambidge, lui continuò a farmi visita con un’insistenza che, man mano che si rendeva conto che la situazione era ben lungi dallo sbloccarsi, si faceva via via più tenace e serrata.
- Ma poverino – mi diceva Audrey Golightly, la mia nuova coinquilina, una giovane studentessa del corso superiore di Arti Magidrammatiche. Percy le faceva tenerezza, e non mancò più di una volta di sottolinearlo. – È così carino, poi.
- Percy lo sa che ci sarò sempre, per lui – rispondevo stancamente io, tirandomi su gli occhiali da lettura che mi scivolavano sul naso. – Ma non in quel senso. Non più.
Tale consapevolezza, per lui, fu difficile da digerire.
Non che non lo avesse già capito, ci mancherebbe: Percy era sempre stato un individuo dall’intelligenza superiore alla media. Ma dal capire al comprendere il passo è lungo e così, purtroppo per lui, ad un certo punto fu necessario fermarsi un attimo per mettere i puntini sulle “i”.
Era autunno inoltrato; era sera.
Percy era venuto a trovarmi quel sabato; avevamo fatto una passeggiata nel campus ammantato di foglie dai colori caldi e vivaci e ci eravamo fermati a prendere una burrobirra fumante al chioschetto fuori dall’università.
Poi, incalzato dall’aria frizzante e umida che calava su Cambridge sul far della sera, lui mi aveva accompagnata a casa prima di ripartire per fare ritorno alla Tana. L’appartamento era vuoto: in quel finesettimana Audrey era via, ospite dei genitori in quel di Brighton.
E mentre mi affaccendavo nel cucinotto per riempire d’acqua il bollitore, Percy mi si era avvicinato da dietro e mi aveva posato le belle mani eleganti sulle spalle, andando ad aderire col corpo alla mia schiena.
Io ero rimasta ferma, priva di reazione tanto più che, poco dopo, lui si era chinato e aveva sussurrato al mio orecchio:
- Sogno spesso di vederti così, sai? – mi aveva detto, alitandomi soavemente sul collo e facendomi venire la pelle d’oca. - In quella che potrebbe essere la nostra casa...
E senza attendere la mia risposta mi aveva spinta delicatamente, facendomi ruotare verso di lui, per poi chinarsi verso di me e rubarmi un bacio che Audrey avrebbe definito “da stella del cinema”.
Io protestai debolmente, ma mentirei se dicessi che lo scacciai subito.
Non so spiegare che cosa diavolo mi prese lì per lì: forse l’impeto del momento, forse la solitudine amara che mi attanagliava il cuore, forse la veemenza contagiosa dei suoi desideri, forse il sollievo di ritrovarmi sulla lingua un sapore rassicurante e familiare. Sta di fatto che non lo allontanai subito, come invece avrei dovuto fare: al contrario lo baciai anch’io, a lungo e con trasporto.
Solo dopo qualche minuto, quando, stretta fra il bordo del lavello e il corpo sottile e fremente di Percy, sentii le sue dita da pianista infilarsi piano sotto la mia camicetta per sfiorarmi la pelle, realizzai che la cosa non s’aveva da fare: giammai, per nessuna ragione al mondo.
E così, con un immenso sforzo di volontà, mi staccai dalle sue labbra e gli afferrai i polsi, facendo forza per tenerglieli fermi.
Lui mi guardò per un attimo, stringendo le labbra ancora rosse per l’attrito con le mie.
- Dovevo immaginarlo – commentò, in un soffio un po’ mesto.
- Ti chiedo scusa, Percy – gli dissi io, senza lasciarlo andare. – Perdonami, ti prego.
- Non ti devi scusare di nulla, Penny – replicò lui, sforzandosi di sorridere. – Era la mia ultima carta. Ci ho provato a mio rischio e pericolo, ma in fondo sapevo.
- Ascoltami, Percy – mi affrettai a chiarire – tu lo sai che, se tu lo vorrai, io ci sarò sempre per te, vero? Tutte le volte che avrai bisogno di aiuto e sostegno, tutte le volte che ti vorrai sfogare, tutte le volte che avrai bisogno di parlare con qualcuno o anche solo di un paio di orecchie da infarcire di elucubrazioni. Sempre.
- Lo so.
- Ecco: l’unica cosa che non posso...
- Io penso – mi interruppe lui, liberando una mano dalla mia stretta per alzarla e carezzarmi dolcemente il viso – che, definitivamente, tu sia diventata una persona diversa da quella che conoscevo. Una donna eccezionalmente ammirevole, ma del tutto inadatta alla vita domestica.
Lo fissai sbattendo le palpebre.
- Ma cosa...
- Oh, sì – mi disse lui, prima di uscire dalla cucina, afferrare il cappotto e dirigersi verso la porta. - Ma sai che ti dico? Mi sembri molto più Penny ora di quanto tu non lo fossi prima. Non chiedermi il perché, ma qualcosa mi dice che è così.
 
Non era trascorso neppure un mese da quel colloquio chiarificatore che, in un tardo pomeriggio di novembre, una scampanellata vigorosa ruppe la quiete del crepuscolo domenicale.
Io stavo studiando per un esame importante che avrei dovuto sostenere da lì a qualche giorno; cosicché, attraverso lo strato spesso della porta chiusa, mi giunse la voce di Audrey che mi urlava:
- Vado io!...
Qualche minuto dopo, la sentii bussare delicatamente alla mia porta. Mi alzai incespicando, anchilosata dalle troppe ore trascorse china sui libri. Dopo essermi stiracchiata con indolenza, girai la maniglia per aprirle.
- Che c’è? – le chiesi, stropicciandomi gli occhi annebbiati dallo studio.
- Hai visite – mi rispose lei con un sorrisetto ammirato. – E fra parentesi: com’è che tutti ‘sti fighi fanno visita proprio a te, Pen? Svelami il tuo segreto, abbi pietà.
Non mi ci volle molto per capire il perché di quelle parole. In piedi nel minuscolo atrio del nostro appartamento condiviso, infilato in un maglione rosso rubino con una C sul davanti e toppe di velluto sui gomiti e intento a guardarsi intorno in modo leggermente nervoso, c’era qualcuno la cui vista fece mancare un paio di battiti al mio povero cuore.
Charlie.
Erano mesi che non lo vedevo, eppure ebbi l’impressione di averlo appena lasciato: mi ci volle un solo sguardo per capire con quanta tenacia il mio cuore lo stesse aspettando.
Dovetti fare ricorso a tutto il mio autocontrollo per impedire a me stessa di corrergli incontro e buttargli le braccia al collo; non sapevo come mai si trovasse lì: volevo evitare di fare boiate.
- C-ciao, Ch-Charlie – gli dissi allora, balbettando in modo indegno. – C-che bello vederti.
- Ciao Penny.
- Ciao – ripetei io, senza sapere bene come andare avanti.
Lui mi sorrise, forse divertito nel riconoscere in me l’esitazione che lui stesso provava.
- E... ehm. Posso entrare?
- Oh, ma certo – mi affrettai a rispondere io, un po’ confusa. – Scusa. Mi vuoi... ehm... dare la sciarpa?... – lo invitai, mentre lui srotolava dal collo la lunga sciarpa di lana con i colori del Grifondoro. – Vieni, ti faccio un caffé.
Una voce vellutata si inserì nel discorso.
- Che disdetta, Penny – cinguettò Audrey, spuntata fuori da chissà dove. – La cucina è off-limits: è appena saltata una tubatura... E ah! Ho preso possesso del salotto: fra poco arrivano le ragazze per provare la nuova coreografia.
- Vuoi che dia un’occhiata ai tubi? – domandò Charlie, premuroso come sempre. Io dovetti chiudere gli occhi e respirare un paio di volte per scacciare l’immagine di un Charlie-magidraulico infilato sotto il lavello, senza maglietta e dotato di chiave inglese.
- Ma no, figurati – rispose lei, scuotendo il capo e allontanandosi per il corridoio. – Ho già citofonato a Mr. Rollins, il portiere. Sarà su in un attimo.
- Oh, benissimo.
Un silenzio imbarazzante calò su di noi. Erano così tante le cose che avrei voluti dirgli, eppure non sapevo proprio da dove cominciare. Fu Charlie a rompere lo stallo, prendendo il coraggio a due mani.
- Senti, Penny... ti posso parlare?
- Oh, sì. Ma certo.
Gli feci segno di seguirmi fino alla mia stanza; una volta dentro chiusi la porta e, dopo averla sgomberata in tutta fretta con un colpo di bacchetta, gli indicai una poltroncina celeste su cui sedersi.
- Accomodati.
Lui mi ignorò e andò a sedersi sul bordo del letto.
Lo vidi che si mordicchiava l’interno della guancia, indeciso; poi, dopo qualche attimo di silenzio, finalmente parlò.
- Domani io e Konsti faremo ritorno in Romania.
- Oh.
- Sì... e ho pensato, ecco, che magari tu avresti voluto salutarlo, sai.
Gli sorrisi timidamente.
- Oh, grazie Charlie. Grazie per il pensiero.
- Di nulla.
Altro silenzio.
- Mi tratterrò in Romania giusto il tempo di sbrigare le pratiche di trasferimento – continuò lui, mentre io mi lisciavo piano piano le pieghe della gonna, ascoltandolo assorta.
- Ah, ma davvero? – gli domandai, incuriosita. – Dove ti trasferisci?
- Qui vicino, in Galles – rispose lui, giocherellando con la nappina di uno dei cuscini posati sul mio letto.
- Mi sembra giusto – scherzai io, tentando di mantenere un tono allegro. – Per compensare il mio fallimento con il Verde Gallese...
Lui si lasciò sfuggire una risatina nervosa.
- Eh sì – annuì, tirandosi indietro i riccioli rossi che, come di consueto, gli ricadevano sugli occhi. – E poi, sai... ho pensato che dovrei stare un po’ più vicino ai miei vecchi, ora che... che...
- Cambiare un po’ aria ti farà bene – divagai io, avvertendo un macigno che mi si depositava sul cuore. – E poi, certamente, per loro...
Charlie strisciò verso di me.
- Penny.
- Dimmi.
- È complicato.
- Lo so.
- Molto complicato.
- Lo so.
Sbuffò affannosamente e mi venne vicino, accostando lentamente il viso al mio. Io chiusi gli occhi, respirando piano; le mani mi tremolavano quando le tesi per accarezzargli il viso. E la sua pelle era calda sotto i miei polpastrelli, leggermente ruvida laddove cresceva un accenno di barba; i suoi riccioli ramati mi si insinuarono fra le dita, soffici come piumino di fenice.
Il suo caratteristico aroma di soave legno bruciato mi pervase le narici, facendomi fremere.
- E se ti dicessi – mormorò Charlie con la voce che gli tremava appena, la fronte premuta sulla mia – che il mio desiderio più grande sarebbe poterti chiedere di venire con me?
- Ti risponderei che il mio desiderio più grande sarebbe dirti di sì – gli dissi, strofinando lentamente il naso contro il suo. – E poi ti direi anche che capisco perfettamente il motivo che ti impedisce di farlo.
Lui si staccò da me quel tanto che bastava per guardarmi negli occhi.
- Lui... lui non è pronto, Penny – sbuffò, mordendosi il labbro. – È venuto da me, mi ha detto che fra voi è davvero finita; mi ha detto che ha capito, che l’ha capito, che tu... che tu mi... mi...
- Charlie – lo interruppi io, col cuore che mi martellava nel petto – non c’è bisogno di...
- Ma se io... non lo posso fare, Penny, capisci? – la sua voce era intrisa di combattuta amarezza. – Quando lui se n’è andato, hanno tanto sofferto. E poi Fred... – non riuscì ad aggiungere altro; lo sentii che tirava su col naso, prima di bisbigliare: – Ed ora lui è tornato, ed è una cosa così importante...
- Lo so, Charlie – mormorai, sbuffando fuori l’aria. – Non sono solo i tuoi genitori ad averne bisogno. Tutti voi dovete...
- Quando era piccolo, sai – proseguì lui, a voce bassissima – io lo proteggevo sempre, perché mi sembrava così indifeso!... E poi, crescendo, si è fatto le ossa; è uno che sa il fatto suo, ma ora, in questo momento io so che lui non...
- Lo so, Charlie – ripetei, sentendomi pizzicare gli occhi e stringendogli le braccia intorno al collo con quanta più forza avevo. – Lo so. E so anche, nonostante tu forse preferirai non parlarne, che ci sono altri lutti che devi affrontare, prima di...
Lo sentii che si irrigidiva in modo impercettibile, in una muta richiesta di chiarimenti.
- Ninfadora Tonks – mormorai, ringraziando Priscilla di non doverlo guardare negli occhi mentre pronunciavo quelle parole. – Devi superare anche...
Charlie si tirò indietro di scatto, divincolandosi dalla mia stretta.
- Dora? – mi disse, la voce alterata – Ma come... no, Penny, no!
Mi afferrò il polso, stringendo forte le dita intorno al braccialetto di cuoio che mi aveva regalato e che io non avevo mai tolto. Il polsino che, come mi aveva fatto notare Percy, un vero domatore di draghi donerebbe soltanto ad una persona speciale.
- È a te – sbraitò, in tono forse un po’ troppo alto – a te che ho regalato questo, a te! A te e a nessun’altra, né a Dora, né a chicchesia! – Mi accorsi che i suoi begli occhi castani erano pieni di lacrime di frustrazione e amarezza. – A te!... Sai... sai che cosa significa, questo?
Non gli lasciai il tempo di proseguire.
Non volevo ascoltare una parola di più, perché troppo forte era il dolore intrinseco in quella dichiarazione urlata con la voce intrisa di affanno.
Mi slanciai in avanti e lo baciai, infervorata e col cuore a pezzi, stringendomi a lui con tutte le mie forze, schiacciandogli le mani sul viso e mordendogli le labbra in un impeto disperato. Fu con una foga furiosa che ci strappammo vicendevolmente gli abiti di dosso, aggrovigliandoci l’uno all’altra con veemenza angosciosa e amandoci con il fuorore cieco di chi sa che, troppo presto, dovrà dirsi addio. Charlie si spinse in me con un’impetuosità ai limiti della follia, ed io lo morsi e lo graffiai, come a volermi impregnare a fondo della sua essenza; e il godimento che raggiungemmo insieme, travolgente e doloroso, ci lasciò inermi e spossati, distesi uno di fronte all’altra, ancora uniti ma già inesorabilmente lontani, a stringerci l’uno all’altra come a volerci fondere in un unico essere per non essere costretti a separarci, respirando la stessa aria e mescolando il sudore alle lacrime, i sospiri ai singhiozzi.
Fu una lunga notte. Lunga e troppo, troppo breve.
Il giorno dopo, Charlie se ne andò.
Io rimasi.
Rimasi fino alla fine di gennaio: poi, partii a mia volta.
 
Rio de Janeiro era... spettacolare.
Raramente, molto raramente si gode di um panorama urbano così superbo: fidatevi, perché ve lo dice una che, nella vita, di luoghi incantevoli ne ha conosciuti tanti.
Mi trovavo in città da un paio di mesi, impegnatissima nella stesura della mia tesi sul linguaggio dialettale dei Bico-de-Papagaio Carioca (anche detti i Bicos, i simpatici draghi che abitano le montagne alle spalle della città) quando, inaspettatamente, ricevetti un gufo da parte di Audrey. La quale, fra una notizia e un pettegolezzo, mi raccontava di avere incontrato per caso Percy a Diagon Alley e di essersi fermata a bere un caffè insieme a lui.
“Io spero vivamente che la cosa non ti dia fastidio, Penelope” mi scriveva la mia educatissima amica “Per questo motivo ho preferito interpellarti per chiederti se, un giorno di questi, posso invitarlo alla prima del nostro ultimo spettacolo”.
La notizia, complice il caldo sole tropicale che quel mattino filtrava dalla mia finestra semiaperta, mi fece sorridere. Afferrati immediatamente piuma e calamaio, le risposi di getto in un’unica frase:
“Buttati a pesce e non lasciartelo scappare”.
L’invito, probabilmente, ebbe buon esito.
Cosicché non ci volle molto prima che un nuovo gufo, questa volta bardato con gli inconfondibili colori dei Servizi Postali Gallesi, approdasse sul mio davanzale.
La missiva era scarna, redatta con una grafia puntuta e ordinata che riconobbi all’istante e che mi fece seccare la saliva.
“Ho bisogno di parlarti” c’era scritto semplicemente. E sotto, una firma sulla quale il mio sguardo si posò con la tenera intensità di una carezza:
“Charlie”.
 
Andai a prenderlo al Terminal Passaporte Intercontinentali tre giorni dopo; giorni trascorsi in preda ad un’ansia febbrile, che tentai di esorcizzare buttandomi anima e corpo nel mio lavoro in Riserva e che mi procurò una serie di divertiti inviti a darmi una calmata da parte dei miei flemmatici colleghi.
Il sole batteva più forte che mai quel giorno, facendo brillare come rame colato i riccioli di un Charlie mezzo intontito dalla lunga trasferta; quando lo individuai nel mezzo della folla mi fermai un istante a guardarlo, riempiendomi le pupille della sua bella figura che, quasi tutte le notti da quando ci eravamo salutati a novembre, mi faceva visita in sogno.
Eppure, il fatto di trovarmelo finalmente davanti in carne ossa e vederlo indirizzarmi quel suo sorriso così bianco e affettuoso mi inibì.
Avrei voluto correre da lui e saltargli al collo, baciarlo davanti a tutti (tanto i brasiliani mica si formalizzano); mi limitai, invece, a raggiungerlo con calma, e altrettanto con calma a salutarlo e a chiedergli come fosse andato il viaggio. Poi poco dopo, incurante del caldo soffocante cui non era abituato, cominciai a trascinarlo in giro senza pietà.
Lo feci trottare per tutta la città, senza soste: Pan di Zucchero, Corcovado, i quattro chilometri di lungomare di Copacabana, Flamengo, Confeitaria Colombo e chi più ne ha più ne metta. Oppresso dal calore e dall’umidità, Charlie sudava. Lo vidi che cercava di mantenere un tono, senza lamentarsi mai ma sbuffando ogni tre secondi per la canicola che ci faceva arrostire ad ogni passo, mentre io parlavo a raffica del più e del meno, intervallando banalissime considerazioni sul tempo a descrizioni pseudoscientifiche sui Bicos, il tutto condito da interiezioni tipicamente carioca che, nonostante la stanchezza, lo facevano ridere a crepapelle.
Lo ingozzai di pastéis de nata e di feijoada, lo trascinai al famoso samba della Pietra del Sale dove ballammo fino all'alba, gli presentai un paio di anziani babalorixás afrobrasiliani che praticavano le magie del candomblé, lo feci salire e scendere una decina di volte dalle irte e coloratissime scalinate dell’antico quartiere di Santa Teresa, gli mostrai le chiese barocche foderate d’oro zecchino e lo portai addirittura a vedere una partita di calcio al Maracanã (“Guarda: fanno magie coi piedi, quei babbani!”).
Insomma: a voler dire le cose come stavano, facevo di tutto per evitare di entrare in argomento.
E sarei probabilmente andata avanti così per tutta la durata del suo soggiorno se non che, all’alba del secondo giorno, stremato, al mio ennesimo “Oggi potremmo vedere...”, Charlie mi stoppò:
- Ehm... Penny.
- Oh – risposi io, voltandomi verso di lui. – Dimmi.
- Non è che oggi potremmo fare qualcosa di più... tranquillo? Tipo... che so, andare al mare?
- In spiaggia?!
Oh, Priscilla Santa.
- Se ti va, ovviamente.
- Oh, e va bene.
Quando arrivammo, armati di ombrellone e sedie a sdraio, la striscia di sabbia bianca e fine come farina era ancora poco popolata.
- Occhio al sole, eh, Charles – lo misi in guardia io. – Qua picchia sul serio, mica come in Cornovaglia.
- Ho notato – ribattè lui, mettendosi prudentemente a sedere all’ombra.
Mi appisolai quasi subito, come sempre mi accade quando le onde mi cantano la ninna nanna. Non so per certo quanto tempo dormicchiai; fui svegliata dalle voci di alcune ragazze che, nel frattempo, si erano posizionate lì accanto.
- Nossa, que pedaço de máu caminho – stava dicendo una, facendo ridacchiare tutte le altre.
- Mas que ruivo gostoso – rincarò l’altra, mentre il mio cervello mi scongiurava: “non guardare”. – Por um desses, eu faria loucuras.
Boccheggiai fra me e me, aprendo gli occhi rassegnata. Sapevo cosa avrei visto, e difatti eccolo là, in tutto il suo splendore.
Attraente, Morgana vacca.
In modo intollerabile.
Charlie, in piedi sul bagnasciuga con indosso un paio di mutandoni da bagno rossi come la perdizione, chiacchierava a gesti con un venditore di ghiaccioli, col sole che gli faceva risplendere i riccioli in fiamma viva e gli accarezzava il corpo statuario. Non c’era da stupirsi che le ragazze lo avessero notato, accidenti a lui.
Quando si accorse che lo stavo guardando mi sorrise, facendomi cenno di raggiungerlo in mare; io però non ebbi la forza di muovere un muscolo, cosicché mi limitai ad urlargli:
- Il sole, Weasley!
 
Un gambero.
Eh sì che lo avevo avvertito. Ma niente.
Charlie doveva per forza impararlo a sue spese: il sole dei Tropici è più implacabile delle fiamme di un drago, soprattutto sei sei un individuo di pelle chiara abituato alle latitudini nordiche. Quella sera, le mura di casa mia echeggiarono degli sbuffi di dolore del povero Rosso Inglese brutalmente ustionato.
- Sono un incosciente – continuava a lagnarsi Charlie, cercando invano un sollievo al bruciore intenso che gli faceva ardere l’epidermide scottata. – Un perfetto cretino.
- Un rimedio ci sarebbe – suggerii alla fine io, titubante, dopo aver soppesato all’infinito i pro e i contro.
- Oh, te ne prego – mi scongiurò lui, afferrando con gratitudine il tubetto di Magigel di Aloe che gli tendevo.
- Lo danno in dotazione alla Riserva in caso di... incidenti – gli spiegai – dovrebbe funzionare anche con le ustioni solari.
- Benedetti siano i Pozionisti – grugnì lui, affranto.
Con la coda dell’occhio, vidi che si strappava via la maglia e che cominciava a spalmarsi. Io mi misi a fissare ostinatamente il panorama fuori dalla finestra, sforzandomi disperatamente di non guardarlo; dopo pochi minuti, tuttavia, lo sentii che mi chiamava.
- Ehm... Penny? – mi apostrofò, un po’ esitante. – Non è che riusciresti a... ehm, la schiena, per... per favore?
Oh. Priscilla. Saggia.
- Uhm – biascicai, accaldata. – O-Okay. Vie... vieni qua.
Sedetti sul divano accanto a lui, girandomi nella sua direzione mentre lui, a sua volta, ruotava su se stesso per darmi le spalle. Mi riempii le mani di gel, presi coraggio e cominciai a spalmargli la schiena.
La sua pelle era calda, più del solito; morbida e liscia al tatto, costellata di lentiggini e piccole cicatrici che osservai con attenzione mentre, rese fluide dal gel rifrescente, le mie mani scivolavano su di lui, percorrendo le sue spalle ampie, la schiena tonica e poi più giù, fino ai fianchi snelli da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. E ben presto, senza che io fossi in grado di impedirlo, il mio tocco si trasformò: da semplice incrematura ad inequivocabile carezza. Vidi che i suoi muscoli si contraevano e che la sua pelle reagiva, rispondendo al passaggio delle mie dita, finché un sospiro profondo gli sfuggì dalla labbra, facendomi mozzare il respiro.
Imbarazzata, scattai i piedi.
- Ho... ho finito – gli dissi, cercando di allontanarmi.
Charlie fu più veloce.
- No – mi corresse, afferrandomi i polsi per impedirmi di sgattaiolare via. – Non hai finito un bel niente.
- Oh. Oh! – deglutii io, evitando accuratamente di guardarlo. – D-dove h-hai bisogno c-che...
- Qui.
Charlie mi prese le mani e se le portò al petto. Quando i miei palmi toccarono la sua pelle, ebbi l’impressione di ardere a fuoco lento. Lentamente, mantenendo il mento basso e tremando al ritmo dei battiti del suo cuore che mi sentivo pulsare sotto le dita, lo cosparsi di gel di aloe, gli occhi fissi sul tatuaggio della Furia Buia che spiccava sulla sua pelle arrossata dal sole.
- E qui.
Charlie guidò le mie mani verso il basso, facendo scivolare i miei polpastrelli sul suo addome sodo come il marmo e rovente come lava, il cui contatto mi provocò un mugolio basso ed un’ondata di calore alle viscere. Mossi le mani tentando debolmente di scostarmi; lui però non mi lasciò andare e, con la voce deliziosamente arrochita, mi disse ancora:
- E qui.
Mi sollevò le mani per portarsele sul viso che io, incantata dal suo sguardo affettuoso e un po’ liquido, carezzai con dolcezza, giocherellando delicatamente con i suoi riccioli ribelli, mentre lui mi intrappolava in un abbraccio robusto come una morsa.
- Ho sete, Penny – mi disse allora Charlie, in un soffio. – Tanta, tanta sete, e da troppo tempo, ormai. E, credimi, l’unica acqua in grado di placare quel fuoco che mi consuma fin da bambino è l’acqua pura di una e una sola sorgente. La tua, Principenny Clearwater.
Furono lacrime di felicità, questa volta, quelle che si mescolarono al sudore dei nostri corpi incollati, e risate di gioia quelle che intervallarono i nostri sospiri affannosi mentre, fatti scivolare via i pochi panni che avevamo indosso, riscoprivamo la pienezza del percorrerci l’un l’altra per intero, rintuzzandoci a vicenda, sproloquiando di bramosia e piacere ed infine tornando ad essere un tutt’uno; proprio come quando, tanti mesi prima, ci eravamo rifugiati per la prima volta nella nostra specialissima Isola Deserta.
 
Un chiarimento definitivo si rese assolutamente necessario dopo qualche ora, alle prime luci dell’alba.
Charlie non era affatto uno sciocco: al contrario, era intelligente e sensibile e, oltretutto, mi conosceva abbastanza bene da avere capito che gatta ci covava.
E così ad un certo punto, mentre ancora mi teneva stretta contro il suo fianco tiepido, si schiarì la voce e mi domandò:
- Perché non volevi parlarne?
Io mi irrigidii.
- Non è che non volessi... – cominciai, prendendola alla larga.
- Vai dritta al sodo, Penny – mi redarguì lui, allungandomi un buffetto ruvido.
- Oh. E va bene.
Mi tirai su a sedere e lo guardai in faccia, riordinando le idee. Poi, tratto un respiro profondo, mi decisi a parlare.
- Ho spesso sognato questo momento – esordii, con la voce che mi tremava leggermente. – Il momento in cui i tempi fossero stati maturi per permetterti di... di vedermi senza ferire nessuno.
Charlie annuì col capo, facendomi cenno di proseguire.
- Ultimamente però (e qui mi riferisco agli ultimi mesi, ma sospetto che le radici di questa mia presa di coscienza siano più remote, forse risalenti al periodo in cui ti ho conosciuto) ho realizzato una cosa. Una cosa che, tra l’altro, mi ha fatto notare anche Percy e sulla quale ho avuto modo di riflettere molto.
- Che cosa ti ha detto Percy?
- Mi ha detto che mi aveva scoperta del tutto inadatta alla vita domestica. Ecco, io credo che, in senso lato, intendesse dire che ero inadatta ad un tipo di vita, diciamo così, tradizionale: con marito, casa, figli e cose del genere.
Feci una piccola pausa, indecisa se continuare o meno. Perché oramai, volente o nolente, ero finalmente giunta al nocciolo della questione.
- In quell’occasione, però  -  bofonchiai infine - Percy mi confessò anche di riconoscermi “píù Penny” di quanto non lo fossi mai stata in precedenza.
- Il che significa...
Mi morsi le labbra, senza smettere di guardarlo.
- Significa che per circa vent’anni, a costo di reprimere la mia vera personalità, sono stata fermamente convinta di essere destinata alla classica vita da strega borghese mentre invece ora, dopo aver avuto modo di assaggiare la libertà, sono sicura di desiderare per me ben altro futuro!
Charlie mi guardava a bocca aperta.
Io tacqui immediatamente, temendo che la mia dichiarazione così sfacciatamente emancipatoria lo avesse contrariato. Dopo una decina di secondi, però, vidi che le sue labbra si piegavano in un sorriso di pura allegria, mentre una risata vorticosa gli solleticava la gola.
Io lo fissai, rossa in viso e un po’ confusa.
- Oh, Penny – mi disse, prendendomi le mani per trascinarmi di nuovo al suo fianco e stringermi forte. – Tu sei come me. Come me.
- Come... come te?
- Uno spirito libero imprigionato in un involucro di carne, ecco cosa sei. E così non lo si diventa: lo si nasce. Ed io non potrei desiderare... senti – mi disse tirandosi su sui gomiti e facendomi girare di scatto per permettermi di guardarlo negli occhi. – Io, per te, mi ci sarei anche impelagato in una vita tradizionale. Ma se anche tu mi stai dicendo che...
- Non c’è bisogno di aggiungere nulla – lo zittii io, travolgendolo con un abbraccio che gli fece perdere l’equilibrio, mandandolo nuovamente a cadere lungo e disteso.
E davvero, non ci fu il minimo bisogno di aggiungere altro.
 
E così è stata, da allora, la nostra vita.
Charlie in Galles, io in giro per il mondo a studiare il linguaggio dei draghi esotici; argomento nel quale, modestia a parte, comincio a riscuotere un certo riconoscimento da parte delle più eminenti istituzioni accademiche del globo.
La Riserva dei Verdi Gallesi è il mio posatoio: ogni volta che torno in patria mi trasferisco làaggiù per periodi di tempo più o meno lunghi, giusto il tempo di ricaricare le batterie in compagnia del mio spavaldo Rosso Inglese e poi volare di nuovo via, verso nuovi orizzonti.
Charlie, a sua volta, mi raggiunge spesso laddove mi trovo ed insieme ci divertiamo ad esplorare luoghi sempre nuovi e sempre diversi in compagnia dei rettili sputafuoco più strani che esistono; e ritrovarsi è sempre una grande, anzi no, un’immensa gioia.
Nei periodi più o meno brevi che ci vedono separati viviamo al massimo le nostre quotidianità, godendoci il più possibile tutto ciò che la nostra singolare ed esuberante gioia di vivere ci regala. E se, qualche volta, la nostalgia si fa viva e ci punge con insistenza, i nostri braccialetti di cuoio sono lì sui nostri polsi, a ricordarci che, l’uno per l’altra, ci siamo sempre, e che i nostri cuori si appartengono.
Cosicché, alla fine, di presentazioni ufficiali alle rispettive famiglie non ce ne furono e, a quanto sembrerebbe, non ce ne saranno; da qualche anno, però, a Natale ho cominciato a ricevere dei pacchi (non troppo misteriosi), contenenti splendidi maglioni di morbida lana celeste con una piccola corona gialla ricamata sul davanti.
Il che per me, a conti fatti, significa molto più di qualsiasi pranzo di fidanzamento con tanto di tartine, confetti e orchestra romantica
 
Post-Scriptum:
La citazione a inizio capitolo è tratta dalla canzone Água da minha sede di Zeca Pagodinho e potrebbe essere tradotta all’incirca così: Ho bisogno del tuo amore/ Una passione forte mi soggioga/ Ed ora che è cominciata/ Non so più come finisce/ Acqua della mia sete/ Mi disseto alla tua fonte/ Son pesce nella tua rete/ Tramonto nel tuo orizzonte.
Golightly è il cognome di Holly Golightly, la protagonista di Colazione da Tiffany, film reso immortale dalla recitazione della bellissima Audrey Hepburn.
Bene!
Mi rendo conto di averla tirata un po’ per le lunghe con questo epilogo, ma c’erano tante questioni da sistemare e non me la sentivo di spezzarle in due parti. Spero che la soluzione finale sia stata di vostro gusto e che la storia, nel suo complesso, vi sia piaciuta.
Come sempre, ringrazio tantissimo chi ha avuto la pazienza di seguire, con un ringraziamento speciale a tutti gli amici che hanno speso un po’del loro tempo per farmi sapere che cosa ne pensavano.
Grazie di cuore e a presto!
AdhoMu, febbraio 2019
   
 
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