Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: Kelloggs Snowflakes    05/03/2019    1 recensioni
La clinica Whiterman si trovava alla periferia di Traverse Town, abbastanza vicina al mare da poterne immaginare lo sciabordio e abbastanza lontana da farne sentire la mancanza, pungente come un ago sotto un materasso troppo sottile.In realtà tutto in quella clinica, dove l'attività meno deprimente era vagare per i corridoi vuoti, era troppo sottile- sottili i muri delle loro camere, sottili i vetri delle finestre che nessuno apriva per sentire il vento sul viso, sottili le voci del personale, dei terapisti che ad intervalli periodici sottoponevano tutti alla solita serie di domande, venate di indifferenza e di un certo sadismo- sottile e viscido anche quello.Erano liberi di entrare e uscire dalle loro stanze, se ritenuti abbastanza stabili e degni di fiducia. Animali in una gabbia che non si capiva bene se fosse lì per proteggerli dal mondo, o per proteggere il mondo da loro.
{Elsanna}{Slow Burn}{Tematiche delicate}
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri, FemSlash | Personaggi: Anna, Elsa, Hans
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lego House

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ב׳חמלגו

 

[Non alzava mai la voce. Sapeva odiare benissimo con gli occhi.]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[They say it's what you make

I say it's up to fate

It's woven in my soul

I need to let you go

Your eyes they shine so bright

I wanna save that light

I can't escape this now

Unless you show me how]

 

 

 

Si nascondeva sempre in soggiorno, in quel minuscolo spazio tra il mobile e il muro.

Il mobile in questione era un enorme armadio trasparente pieno di vecchie fotografie, bicchieri e piatti particolari per gli ospiti, bambole di porcellana e statuette di vetro. Era stretto, tremendamente stretto, e ogni volta che riempiva i polmoni per prendere aria sentiva una lieve pressione alla pancia.

Però cercava di non curarsene e sporgeva un poco il volto, scrutando con estrema attenzione la soglia della porta; non appena sentiva scattare la serratura, si accucciava ulteriormente e si sforzava in ogni modo di rendere impercettibili i propri respiri pesanti.

Udiva poi il rumore dei sacchetti di carta venire appoggiati velocemente sul tavolo della cucina e una voce galleggiare nella casa.

"Elsa?"

Lei si metteva una mano sulla bocca e nascondeva un lieve sorriso soddisfatto.

Profumo di biscotti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La clinica Whiterman si trovava alla periferia di Traverse Town, abbastanza vicina al mare da poterne immaginare lo sciabordio e abbastanza lontana da farne sentire la mancanza, pungente come un ago sotto un materasso troppo sottile.
In realtà tutto in quella clinica, dove l'attività meno deprimente era vagare per i corridoi vuoti, era troppo sottile- sottili i muri delle loro camere, arredate col minimo essenziale, sottili i vetri delle finestre che nessuno apriva per sentire il vento sul viso, sottili le voci del personale, dei terapisti che ad intervalli periodici sottoponevano tutti alla solita serie di domande, venate di indifferenza e di un certo sadismo- sottile e viscido anche quello.
Erano liberi di entrare e uscire dalle loro stanze, se ritenuti abbastanza stabili e degni di fiducia. Animali in una gabbia che non si capiva bene se fosse lì per proteggerli dal mondo, o per proteggere il mondo da loro.
Non potevano proteggerli da se stessi, però: erano chiusi in gabbia con nemici che richiedevano la loro presenza. Naturalmente, ciò significava che anche i nemici erano chiusi in gabbia con loro.

 

La clinica Whiterman annoverava un numero relativamente alto di pazienti, tutti rinchiusi nelle scatole di cartone delle loro sofferenze personali: traumi passati, ferite aperte, comportamenti distruttivi, fobie e psicosi di ogni genere, non così tragici da suggerire misure di contenimento propriamente psichiatriche. Allo stesso tempo, però, nessuno sembrava felice di avere uno di loro vicino, o di vederlo in giro: ecco perché si trovavano tutti lì, nella stessa posizione dell'edificio; non troppo lontani da suscitare sensi di colpa, ma neanche troppo vicini, vicini davvero, così che non costituissero un peso quotidiano.
Il giovedì era il giorno degli incontri famigliari. Si svolgevano il pomeriggio, nella sala mense della clinica; ma alcuni non ricevevano visite così spesso e in quelle ore rimanevano nelle proprie camere.
Tutti, tranne lei.
Elsa Lachance.
La ragazza di Twilight Town.

 

Quando le donne di Twilight Town si guardavano allo specchio, pensavano al volto di Elsa Lachance. Quando gli uomini di Twilight Town guardavano il loro amore, pensavano al volto di Elsa Lachance. I capelli, gli zigomi, la pelle d'avorio, le labbra rosee di Elsa Lachance.
Ma più di tutto- che lei ridesse, o rimanesse in silenzio, o riflettesse, o urlasse o semplicemente esistesse, come se stesse aspettando qualcosa che non sarebbe arrivato mai- gli occhi di Elsa Lachance. Gli occhi di Elsa Lachance non lasciavano dormire la notte. Trafiggevano la mente, il corpo, l'anima. Portavano un uragano su qualsiasi pensiero; e lei non alzava mai la voce. Sapeva odiare benissimo con gli occhi. 'Un giorno Dio disegnò gli occhi di Elsa Lachance, e quello fu il giorno in cui Dio ebbe per la prima volta l'idea dell'amore' dicevano. Nessuno sarebbe mai stato in grado di ritrarli, quegli occhi. Erano nell'anima di chiunque ne avesse incrociato il tremolio furente e disperato.

 

Quel giovedì, gli occhi di Elsa Lachance erano concentrati sulla scrivania in legno di noce davanti a lei, nell'ufficio del dottor Coltrane. Erano le otto di mattina, ma in quel posto il tempo era una cosa inesistente. Fece dondolare la sedia su un lato, puntando il piede a terra, chiudendo gli occhi per sentire il suono del metallo sul marmo lustro del pavimento bianco. Bianco, come i muri intonacati di fresco, come gli infissi delle finestre, le scrivanie, il camice dell'uomo di fronte a lei, che la guardava attraverso i suoi occhiali quadrati. Anche i suoi capelli erano bianchi, ed Elsa si chiese se non fosse quel posto a renderli tutti una massa incolore, se anche a lei non sarebbe toccata la stessa sorte. Fece un mezzo sorriso, freddo.

« Allora, eccoci qui» l'uomo le fece un cenno col capo, apredo una cartella siglata col suo nome, uccidendo sul nascere qualunque speranza che quell'incontro fosse più che meramente burocratico, asettico, più di una semplice compilazione di moduli. Le lettere che identificavano la sua persona le fluttuarono davanti agli occhi, prive di qualsiasi significato. L'uomo la osservò, una penna nera in mano e lo sguardo di chi non stava aspettando nulla di straordinariamente inusuale. I loro incontri si svolgevano secondo una dinamica testata ed efficace: lui le faceva delle domande sul suo passato, sui suoi pensieri, lei forniva risposte monosillabiche, la prescrizione rimaneva invariata. Andava avanti così da anni, con l'unica differenza che nel corso dell'ultimo il loro rapporto si era fatto più intimo: Elsa era stata spedita alla clinica in modo permanente, e lui la incontrava nel suo ufficio ogni due giorni, alla stessa ora.

Miglioramenti: nessuno.
Stanchezza: molta.
Rischio di stracciare la laurea in psicologia: ancora relativamente basso.

Elsa continuò a dondolarsi sulla sedia, attendendo una domanda che non tardò ad arrivare.
« Dunque, Elsa. Come ti senti oggi?» l'uomo incrociò le mani sul dossier aperto, gli occhiali abbassati sul naso.
Lei gli fece un sorriso debole, smettendo di dondolare. Tirò piano l'elastico che aveva al polso.
« Non lo so, dottore.»
Non lo so. Mi dispiace, non lo so. Non possiamo cambiare le domande, così magari questa volta vinco qualcosa?
« Potresti spiegare questo tuo 'non sapere'? Non sai cosa provi, o non sai classificare ciò che provi? Forse non provi emozioni abbastanza forti da rientrare in qualche categoria?»
Fanculo. In che categoria lo inserirebbe, questo?
Piegò il collo per fissare il soffitto. Altro bianco. Quasi le venne da ridere.
« Non sono in grado di trasmetterlo a parole, dottore. Non so cosa sia; ma come ho già detto, riesco a gestirlo piuttosto bene.»
Non abbassò lo sguardo, ma sentì un sospiro stanco. Lo immaginò massaggiarsi gli occhi, o le tempie, in un vano tentativo di resistere alla tentazione di farla fuori lì, sulla sua scrivania, e liberarsi una volta per tutte di lei. Come biasimarlo. Un altro sospiro, e la voce dello psicologo le giunse alle orecchie lieve, stanca, quasi sofferente.
« Elsa, seguo il tuo caso da tre anni, e ti trovi in questa struttura da un anno e cinque mesi. Il dottor Dvorak ti ha trasferita al mio ufficio dopo ben dodici sedute di totale silenzio.»
Pausa.
Lei abbassò gli occhi sul volto dell'uomo, che intanto si era tolto gli occhiali e li faceva dondolare lungo l'asta, stretti tra pollice ed indice. La fronte era corrugata, le labbra serrate. La studiava con un'espressione indecifrabile, un misto di malcelata spossatezza e poco professionale umanità.
« Hai iniziato a parlare, questo è un bene. Ma continui a non partecipare alle attività di gruppo, ad isolarti nello studio. Non ci sono stati miglioramenti, Elsa. E temo che dovrai assolutamente impegnarti, se vuoi uscire da qui.»

Seguo il tuo caso.

Trasferita al mio ufficio.

Dodici sedute.

Uscire da qui.

Uscire. Da. Qui.

Sentì un groviglio di rabbia e risentimento mangiarle le interiora, e strinse le dita attorno al pugno sinistro, passandole sulle nocche tese. Sentiva l'affossarsi della pelle tra una falange e l'altra, le ossa appena sotto le dita, come incisioni definite da colpi precisi. Chiuse gli occhi, cercando di assimilare il tutto, e quando li riaprì non v'era traccia del vibrare di congetture che l'aveva assalita pochi istanti prima. Sorrise, di un sorriso che non si estendeva agli occhi.
«Ho capito.»
Lo so che c'è qualcosa di sbagliato in me. Per una volta, potrebbe dirmi cosa diavolo è?
Continuarono la solita procedura, bianca, senza sbavature. Fuori, il cielo si faceva debolmente azzurro.

 

Il migliore amico di Elsa alla clinica Whiterman si chiamava Eugene Fitzherbert. Definirlo migliore amico era forse uno sforzo di terminologia: l'attività che svolgevano più frequentemente insieme era l'occultamento dei farmaci e del cibo che avrebbero dovuto assumere in dosi giornaliere, attività spesso completata senza lo spreco di un monosillabo, iniziata e conclusa attraverso meri cenni del capo. In realtà, però, ad Elsa piaceva Eugene: era l'unico, in quel covo di pazzi squilibrati, a sapere; semplicemente perché si trovava in quel luogo per il suo stesso motivo. Insieme, pesavano meno di un individuo medio della loro età.
Elsa Lachance aveva ventun anni, aveva finito il secondo anno di università studiando in una clinica. Odiava l'estate.
Non mangiava una fetta di pizza, il suo piatto preferito, da sei anni.
Non mangiava alcunché oltre le cinquanta calorie, da che ricordasse.
Elsa Lachance aveva ventun anni, aveva finito l'anno accademico, e non sapeva dove fosse diretta la sua vita.
In quel preciso istante, si convinse che fosse diretta allo strangolamento del suo migliore amico, che stava prendendo a pugni la porta della sua camera da cinque minuti, e non sembrava voler desistere nonostante fosse stato magistralmente ignorato. Lei sospirò, innervosita, chiudendo il piccolo volume che stava leggendo e abbandonandolo sul letto sfatto. Aprì la porta di scatto, lasciando Eugene con la mano a mezz'aria, chiusa a pugno.
Qualche centimetro più alto di lei, i capelli castani disordinati, proprio come i suoi, occhi grandi e quel mezzo sorriso ironico stampato sul volto che era la cosa che forse più lo caratterizzava.
Lo fissò scocciata.
«Che cazzo vuoi
«Buongiorno anche a te» borbottò l'altro, dopo qualche secondo di silenzio. «Bella maglia.»
«L'hai già vista un miliardo di volte.» osservò Elsa, sollevando istintivamente il sopracciglio destro. «Aspetta, ho capito: ti serve un favore, o vuoi ancora le mie sigarette.»
Ufficialmente nessuno alla clinica Whiterman aveva il permesso di fare uso di tabacco o alcol, ma in reatà importava solo che chi si trovava lì non si distruggesse in modi non socialmente accettabili, come la depressione o la chiusura psicologica. Un nevrotico assuefatto a fumo e alcolici faceva una figura migliore rispetto ad un nevrotico e basta, d'altronde.
Eugene si infilò nello spazio tra Elsa e lo stipite della porta, entrando nella piccola stanza e cadendo sul letto con un tonfo. Le molle cigolarono.
«In realtà no, porto notizie dal personale medico: chi non riceve visite famigliari deve presentarsi alle attività di gruppo al primo piano, e mi sono offerto di avvisarti.» La osservò sprezzante, probabilmente in attesa di qualche commento inviperito.
Elsa si limitò a richiudere la porta con un gesto secco, sospirando. L'uomo col camice che aveva visto quella mattina si doveva riferire a quello, quando le aveva menzionato le attività collettive.
Razza di manipolatore bugiardo.
Si chiuse in bagno, togliendo la canottiera che aveva indossato negli ultimi giorni e sostituendola con una maglietta grigia, anonima come ogni cosa contenuta tra quelle mura. Compresa lei. Quando tornò nella stanza, trovò Eugene seduto alla scrivania sotto la finestra, intento a fissare il rettangolo di cielo che magnanimamente veniva loro concesso- un buco tra le sbarre per ricordare a un canarino che il vento e le nuvole esistevano ancora, ma lui non ne aveva diritto. Non più.
« Allora, vuoi muoverti o devo buttarti fuori a calci?»
« Fanculo, Elsa.»
« Alzati.»

Aveva tentato di fare deviazioni nel percorso che portava al primo piano, ma avevano incrociato personale della struttura ad ogni angolo, rendendo vana ogni speranza di defilarsi per fumare un pacchetto di sigarette in santa pace. Si era ritrovata in una stanza ampia, con grandi vetrate luminose che davano sul giardino della clinica, un cerchio di sedie già pronto ad intrappolarli in qualche stupido giro di domande e confessioni strappalacrime. Una donna in camice- bianco, come aspettarsi altrimenti- se ne stava seduta su una poltrona, fuori dal cerchio, e salutava tutti calorosamente al loro ingresso. Quando Elsa varcò la soglia, seguita da Eugene, la donna le sorrise bonariamente. Aveva forme morbide, abbondanti, e sembrava occupare lo spazio come se fosse suo di diritto; senza l'ombra di una preoccupazione sui lineamenti distesi in un saluto gentile. Seduta tra Eugene e una ragazza dai capelli neri come la pece, Elsa si concesse l'ennesimo sospiro, sentendo il groviglio palpitante di risentimento e livore crescere nelle viscere. Si passò una mano tra i capelli, legati nella solita treccia disordinata, e si concentrò sulle piastrelle del pavimento, inziando a contarle.

Uno, due, tre- odiava le attività di gruppo, le odiava. Perché costringere dei soggetti marci dentro a raccontarsi le loro vite, quando a nessuno fregava un accidenti?

Quattro, cinque, sei, sette- a nessuno fregava niente di niente. A nessuno fregava un cazzo. E allora perché fingevano di essere bravi bambini con un problema di dipendenza da zucchero?

Otto, nove, dieci, undici- lei voleva starsene nella sua fottuta stanza, a studiare, a fare qualsiasi cazzo di cosa che non fosse quella. 'Ciao, compatitemi, raccontatemi la vostra vita di merda, facciamo a gara a chi è andata peggio.'

Dodici, tredici- e poi lo sapevano tutti che da lì non sarebbero usciti. Quello dei dottori era solo un esperimento, qualcosa da cui ricavare soddisfazione professionale. Loro non erano soggetti da recuperare. Erano buone referenze per la carriera.

Quattordici, quindici- sentì un sapore metallico in bocca, doveva essersi tagliata le labbra mordendole. Voleva andarsene. Voleva spegnersi, staccare la spina, staccare tutto. Voleva il bianco. Che quel bianco onnipresente le entrasse dentro, che cancellasse tutto.

Sedici.

Elsa non potè contare oltre, quel giorno: arrivata alla sedicesima piastrella, quella scheggiata in alto a sinistra, trovò la successiva coperta da un paio di scarpe da ginnastica nere, e sentì il silenzio calare nella stanza. L'attività di gruppo era iniziata, con le dovute spiegazioni preliminari. Mentre la donna in camice affermava che quel gruppo ristretto era stato formato in base alle loro esperienze personali, lei lasciò vagare lo sguardo per la sala. Dei manifesti decorati a mano erano appesi alle pareti, insieme a qualche bandiera in stoffa. Le parve di riconoscere quella israeliana, tra le altre. Proprio sotto la bandiera, sul lato opposto del cerchio di sedie, era seduta la ragazza che aveva interrotto il suo conto delle piastrelle. Elsa inclinò la testa, mantenendo una posa composta, continuando ad osservare l'ambiente mentre a turno i presenti si passavano la parola. Non erano obbligati a partecipare parlando, aveva detto la donna in camice bianco, ma lo 'consigliava vivamente'. Elsa non seguiva mai nessun consiglio. Non seguiva mai nulla, nemmeno il filo dei propri pensieri. Eugene prese la parola, fissandosi le unghie con noncuranza.

«Mi chiamo Flynn, Flynn Rider.»

La donna col camice controllò l'elenco, probabilmente constatando che non esisteva nessun Flynn Rider tra i pazienti della struttura. Aprì la bocca per obiettare qualcosa, probabilmente per chiedere spiegazioni. Eugene la precedette.
«Lo so. Non c'è il mio nome. Ma io sono Flynn Rider.»
«...può darsi che abbiano sbagliato nome sull'elenco, caro?» Eugene trattenne a stento un gemito di frustrazione, che Elsa percepì solo perché era accanto a lui.
«No, c'è il mio nome di battesimo. Ma non sono io. Io sono Flynn Rider. La prego, mi creda.»

La donna col camice non tradiva cattive intenzioni, ma non era disposta a sorvolare sulla questione. Forse stava cercando di capire quale fosse il disturbo del ragazzo seduto nella stanza, o forse semplicemente era come tutti gli altri ed Eugene per lei era soltanto un altro punto su un foglio stampato. Elsa si preparò al peggio, chiudendo gli occhi, trattenendo il respiro. Ma non servì.

«Io ti credo.»
Una voce. Calda, squillante.
A parlare era stata la ragazza sotto la bandiera israeliana. Elsa la guardò, quella volta per davvero.
Aveva gli occhi grandi, limpidi, di un blu profondo e calmo, i capelli rossi legati in una coda di cavallo disordinata, che ne lasciava sfuggire un po' ai lati della fronte. Stava seduta coi gomiti sulle ginocchia, le mani sotto il mento, e sorrideva a Flynn Rider con il sorriso di chi non aveva domande da fare, o risposte da esigere.
La donna col camice sembrò improvvisamente disinteressata alla questione, e tornò ad incoraggiare le interazioni. La ragazza che credeva a Eugene non parlò più fino alla fine dell'incontro, limitandosi a sorridere nella loro direzione ogni qualvolta incontrasse lo sguardo di Elsa.

La cosa le faceva saltare i nervi. Non sapeva spiegarsi il perché, ma si disse che non aveva voglia di 'interagire' con nessuno, non voleva nessuno tra i piedi, e già fare i conti con Flynn ed Eugene metteva a dura prova le sue capacità di socializzazione. Quando fecero un ultimo giro per presentarsi, Elsa attribuì un nome a quel volto.
Anna. Anna Beauvoir.

 

Finito l'incontro, Elsa tornò velocemente nella sua stanza, salutando Eugene e Flynn. Si accese una sigaretta, gettando il pacchetto sulla scrivania, e abbandonandosi alla del suo libro preferito: l'unica cosa che conservasse del tempo prima della clinica Whiterman.
Il cielo si faceva sempre più scuro, e per la prima volta dalla settimana precedente si concesse il pensiero che aveva il potere di congelarle il respiro.

Non era venuto, neanche quella volta.

Hans non era venuto. Non lo vedeva da due settimane, e non ne sapeva il motivo.

Non sarebbe più venuto.

Cercò di soffocare l'ultimo pensiero, le mani tra i capelli e gli occhi chiusi, mordendosi le labbra fino a sentirle lacerarsi. I gomiti, appoggiati alla scrivania, mandavano fitte di dolore lungo le braccia e fino ai polsi. Sentiva la pelle schiacchiata tra le ossa e il legno.

Non sarebbe più venuto, e allora davvero di lei non sarebbe rimasto che un frammento di bianco.





 









Note

Torno a postare dopo anni di inattività, se non per qualche sporadica one shot.
Questa storia ha avuto un parto travagliatissimo, molto lungo e scostante, qualcosa come due anni e mezzo, quasi tre.
Nella mia testa contorta dovrebbe dipanarsi come una slow burn dalla classica trope enemies to lovers, anche se non si tratta propriamente di essere nemiche per Elsa e Anna, quanto di essere due colossali teste di legno, una pseudo amicizia che poi, lentamente, potrebbe diventare un "non ho più così tanta voglia di strangolarti". C'è molto da snodare, tra queste due. Moltissimo.
Cercherò di aggiornarla costantemente, e se siete arrivati fino a qui e state leggendo queste note vi rivolgo un'accorata richiesta: se una storia vi interessa, se la trovate decente, degna di essere seguita o almeno spulciata di tanto in tanto, lasciatele una recensione. Questo sito è stato costruito sul potere della condivisione, del dialogo tra chi scrive e chi legge. Io, nel mio piccolo, vi chiedo di farmi sapere se questo piccolo assaggio della realtà in cui si trovano Elsa e Anna vi è piaciuto, e se volete saperne di più. Se lo farete, vi ringrazio con tutto il cuore; in caso contrario, grazie mille per aver letto e [forse?] alla prossima!

Treat people with kindness

-Hil

   
 
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