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Autore: Rota    15/03/2019    2 recensioni
[Hypnosis Mic]
Si volta a guardalo di scatto, come se all’improvviso lo avesse colto il fugacissimo pensiero che, per un qualche oscuro motivo, Jiro non sia nel medesimo punto dove lo ha lasciato ben mezzo minuto prima. Per fortuna, Jyuto può calmare i propri nervi: il ragazzo è ancora addossato al sedile del passeggero, al suo fianco, con la faccia schiacciata contro il finestrino dell’auto e i capelli sporchi tutti appiccicati al profilo del viso. Le palpebre ben serrate sugli occhi e la bocca un poco dischiusa, che lascia fuoriuscire un respiro stanco, ma regolare e leggero. Le lacrime sono seccate sulla pelle delle guance, e non hanno lasciato segni.
L’ex poliziotto può quindi tornare a guardare avanti, serrando la presa sul volante tra le proprie dita.

[Jyuto Iruma x Jiro Yamada]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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*Titolo: Escape
*Fandom: Hypnosis Mic
*Personaggi: Jyuto Iruma, Jiro Yamada
*Prompt: In fuga
*Parole: 9628
*Note: Un’altra AU un po’ distopica un po’ così, stavolta senza zombie di mezzo. Volevo provare a fare qualcosa che non prevedesse soltanto sesso, ecco. Buona lettura (L)
 





 
 
 
Si volta a guardalo di scatto, come se all’improvviso lo avesse colto il fugacissimo pensiero che, per un qualche oscuro motivo, Jiro non sia nel medesimo punto dove lo ha lasciato ben mezzo minuto prima. Per fortuna, Jyuto può calmare i propri nervi: il ragazzo è ancora addossato al sedile del passeggero, al suo fianco, con la faccia schiacciata contro il finestrino dell’auto e i capelli sporchi tutti appiccicati al profilo del viso. Le palpebre ben serrate sugli occhi e la bocca un poco dischiusa, che lascia fuoriuscire un respiro stanco, ma regolare e leggero. Le lacrime sono seccate sulla pelle delle guance, e non hanno lasciato segni.
L’ex poliziotto può quindi tornare a guardare avanti, serrando la presa sul volante tra le proprie dita. La strada è così dritta che sembra sempre uguale, crea un senso di estraneazione a tratti intollerabile, a tratti invece rassicurante, come se il tempo fosse infinito e non scorresse mai. Forse è anche colpa del fatto che non ha fatto ancora una pausa dalla sera precedente, ha bevuto solo pochi sorsi d’acqua e l’adrenalina che scorreva rapida nel suo corpo fino a qualche ora prima è completamente scemata, lasciando invece posto a una stanchezza prolungata, stiracchiata in ogni lembo dei suoi muscoli.
Tuttavia non è ancora tempo di fermarsi, la Città è ancora troppo vicina alle loro spalle e il rischio di venire raggiunti da uno dei loro mezzi è più che reale. O almeno, questo è quello che gli suggerisce una parte del suo cervello, quella che non gli dice che se sgozzasse il ragazzo e ne bevesse il sangue potrebbe finalmente dissetarsi come vorrebbe.
Scuote la testa, riprendendo il controllo. Il deserto ha un brutto effetto su di lui, come su un qualsiasi altro essere umano.
La ruota della macchina scura si solleva passando veloce su un sasso un poco più grande degli altri, e tutto l’abitacolo ha come un sussulto. Balla la bottiglia dell’acqua nel portaoggetti, scontrando il tappo di plastica con l’interno del cruscotto; balla anche l’orsacchiotto di pezza, piccolo piccolo, appeso per una catenina sottile di metallo allo specchietto retrovisore, all’altezza della sua fronte¸ ballano e scivolano altri oggetti senza ormai più nessuna utilità, rendendo la sensazione della precarietà su cui tutto quello sta scivolando a grande velocità. Jyuto stacca gli occhi dalla lancetta della benzina e lo guarda qualche istante fugace, nel ricordo di un periodo passato da non troppo e che sembra tuttavia lontanissimo. Riesce persino a rilassarsi per quel momento, e a non trovare noiosa quella ciocca di capelli che, appiattita dall’incuria, gli punge con insistenza l’angolo dell’occhio sinistro, dietro gli occhiali rotti.
Jiro borbotta qualcosa nel sonno, si sistema meglio contro il proprio sedile e quindi torna immobile, silenzioso. Se non avesse la felpa sporca di sangue raffermo, sembrerebbe una scena tipica delle loro serate assieme.
Invece c’è il deserto fuori da quella macchina, lungo una quantità assurda di chilometri. E loro hanno poca benzina, ancor meno acqua e pochi proiettili nella canna della pistola.
La paura torna a scorrere nel sangue di Jyuto: la punta della sua scarpa preme appena sull’acceleratore, in modo da sfruttare meglio quelle gocce di carburante che fanno girare il motore. Passano di traverso una nuvola alta, in cielo, che riesce a nascondere per pochi secondi i raggi cocenti del sole.
 
 
Si sveglia quando tutto il veicolo è ormai fuori carreggiata, a lottare con i sassi aguzzi e i detriti duri abbandonati in modo incurante. Sbattono in continuazione contro il parabrezza, qualcuno si alza persino e rotola sul cofano, poi sul vetro e quindi via, vola lontano; sente le ruote tremolare, tutto vibrare, il corpo sbattuto a destra e a sinistra. Sterza di lato e riesce a riportare l’auto sulla strada, proseguendo quindi in linea dritta.
È già la seconda volta che capita – la terza, se considera che la prima è uscito di strada soltanto per metà, riuscendo a riprendere il controllo molto più velocemente. Il continuo e graduale calo di attenzione, e quell’improvvisa perdita di coscienza lo preoccupano sul serio, ma non riesce a gestirlo come vorrebbe. Ne ha timore, eppure la sua mente non viene retta da nessuna scarica di eccitazione, nessun senso del pericolo che lo faccia rimanere sveglio.
Volta lo sguardo verso Jiro, ancora una volta: è sempre addormentato contro il finestrino, pare che nulla riesca a turbarlo. Se lo svegliasse in quel momento, dovrebbe affrontare una lotta ardua almeno tanto quanto rimanere sveglio in quelle condizioni.
Quindi rallenta gradualmente, cercando di non sprecare neanche in minima parte ciò che ha nel serbatoio, e alla fine si ferma in mezzo alla carreggiata, senza neanche far ruotare il volante. Rimane immobile a fissare il vuoto inamovibile davanti a sé, e alla sua vista scorrono le immagini in movimento del paesaggio, quasi la sensazione della fuga gli si sia ormai appiccicata addosso.
Si addossa al proprio sedile piano, e per la prima volta dopo ore e ore, stacca le mani coperte da guanti duri di sangue secco dal volante. Apre e chiude le dita, ritrovando la sensibilità ignorata. Non fa in tempo neanche ad allungarsi a prendere la bottiglietta dell’acqua, per berne almeno un altro piccolo sorso, che le palpebre gli si chiudono da sole e la sua testa va a sbattere contro la portiera di metallo, quasi di schianto. Scappa un rantolo assieme all’ultimo respiro pesante, prima del sonno e della totale incoscienza.
Fa sogni strani, accaldati. Un mare di roccia e di sabbia rossa, il sole che cuoce cadaveri e ne rivela le ossa bianchissime, e nel male del nulla gli avvoltoi planano sopra di loro e hanno gli occhi di Ramuda Amemura, anche lo stesso ghigno beffardo e la pistola fumante tra le mani.
Gli sfugge tra le dita Jiro, e tutto diventa un mare di sangue.
Si sveglia di soprassalto e come prima cosa sente vento secco e caldo contro il fianco. Quando con orrore alza lo sguardo al sedile del passeggero, vede la portiera aperta e nessuno presente. Una nuova scarica di terribile adrenalina lo investe, cascando dal suo cervello e attivando ogni singolo muscolo del suo corpo.
Si catapulta fuori dalla macchina e guarda verso l’orizzonte. La sua fortuna è che Jiro non è andato troppo lontano, sembra incespicare tra le rocce e le carcasse abbandonate di automobili e oggetti strani. Jyuto corre come non ha mai corso, senza neanche sentire la cravatta nera che gli sbatte contro il petto magro, catturando tutto il calore del sole. Ha lasciato la giacca sul sedile posteriore, assieme alla felpa e ad altre cose di lui, ma non ha neanche la testa per rimpiangere di non aver preso qualcosa con sé per ripararsi.
Rallenta solo quando è vicino a lui, perché non vuole arrivargli addosso e spaventarlo – troppo tardi: appena Jiro lo percepisce, sfugge alla sua mano si china di lato, cambiando direzione. Jyuto cerca di acchiapparlo un’altra volta, accompagnando i propri gesti con un richiamo quasi soffice.
-Yamada…
Lo chiama sottovoce, come se dovesse svegliarlo da un sogno.
Jiro non sa se sta sognando oppure no, sa benissimo però che non vuole farsi prendere. Deve tornare indietro.
Alla terza volta, l’ex poliziotto è più deciso, e riesce a prenderlo per il braccio. Jiro si ribella ancora, si volta a guardarlo con un’espressione furiosa, fatta di capelli e uno sguardo assassino rivolto a lui, proprio a lui. Tenta di camminare di nuovo, di liberarsi della presa di Jyuto, che accusando la stanchezza resiste alla sua ribellione con fatica e determinazione. Jiro sfugge, viene ripreso; non sfugge più.
Il ragazzo si volta totalmente verso di lui e fa sul momento una cosa che Jyuto non si aspetta. Gli tira un pugno in pieno viso e lo fa barcollare all’indietro, ma invece di approfittarne per scappare, insiste a colpirlo con cattiveria e ferocia. Sulla schiena, sui fianchi, ancora sulla testa, finché l’uomo non risponde all’attacco e con un pugno molto ben mirato lo fa cadere a terra.
Jiro rantola, sputa sangue quando Jyuto gli da un calcio in pancia, non si sa bene se per vendetta o per farlo tornare calmo. Mai, mai però lo guarda con odio, aspetta che smetta di tossire e lo recupera dalla polvere di sabbia, per rialzarlo.
Jiro lo insulta per tutto il tragitto fino alla macchina, e lo insulta ancora quando lo costringe a sedersi al proprio posto e gli chiude la porta in faccia. Lo insulta da dietro il vetro, lo insulta ancora mentre si siede al posto del guidatore e accende la macchina; continua a farlo finché la gola non gli si secca quasi completamente, a diversi chilometri di distanza, e ormai il sole è calato sul secondo giorno.
I confini della Città sono ben lontani, ma non per questo la loro macchina si arresta.
 
 
Un poco si sorprende quando, nel bel mezzo della notte, lui parla di nuovo.
-Voglio scendere.
Dev’essere stanco, perché la sua voce è per lo più un gracchiare strano, il grattare ostinato e doloroso di una volontà sopita a metà. Quel che ne ricava Jyuto è preoccupazione, però.
Senza pensarci neanche un secondo, recupera la bottiglietta dell’acqua e gliela porge.
-Bevi un po’.
Non ricorda in effetti l’ultima volta che glielo ha visto fare – forse, il giorno prima, forse neppure: in quei momenti, nessuno si sarebbe mai posto il problema del domani e nessuno si sarebbe preoccupato di recuperare abbastanza acqua per attraversare il deserto. Jiro lo guarda di striscio, più interessato a quello che tiene in mano, e sembra quasi sul punto di rifiutare in malo modo la sua offerta, quando ecco che scivola sul proprio sedile e si china verso la sua mano, recuperando dalle sue dita quella dannata bottiglietta.
Non chiede nulla, non dice nulla, ne prende due sorsi e la richiude, mettendola al suo posto.
-Sa di piscio.
Jyuto non riesce a trattenere una risata rauca.
-Qui dentro ha fatto caldo tutto il giorno, pensavi che fosse rimasta fresca?
Ma il ragazzo non gli risponde, alle prese con nuove sensazioni. La testa gli duole meno di prima, il suo corpo sembra gradire interamente di quello che ha appena ingurgitato.
Torna a fissare l’esterno, con insistenza. Il buio della notte è totale, nel deserto, riesce a nascondere persino la luna; l’unica cosa illuminata è la strada davanti ai fari, mangiata metro dopo metro dalle ruote di gomma sempre più consumate. Jiro può vedere a malapena il proprio riflesso, su quel vetro, e nulla più.
Parla ancora, appena più deciso.
-Voglio scendere.
Questa volta Jyuto decide di rispondere direttamente alla sua richiesta con una provocazione.
-E io voglio una doccia.
Il ragazzo quindi si accende, si volta a guardarlo con quei suoi occhi dal colore diverso, lo sguardo infiammato da una rabbia che non accenna davvero a spegnersi – l’ex poliziotto lo zittisce in maniera più decisa, e questa censura di blocca dentro tutta la rabbia e la frustrazione.
-I miei fratelli-
-Sono lontani da qui, al di là del deserto.
Jiro sa che è vero ciò che l’altro dice, eppure non riesce a frenarsi, non riesce a calmarsi. Il pensiero irrazionale che è lontano da loro, che lo è troppo, gli muove le mani. È insopportabile il fatto che non si trovi al proprio fianco né Saburo né Ichiro.
Cerca di aprire la portiera, tirando la serratura, ma per quanto ci provi non succede nulla. Ancora più arrabbiato, torna a guardare l’uomo, e gli sbraita contro.
-L’hai bloccata?
Jyuto asserisce, neanche una briciola di vergogna in corpo.
-Prevedendo che tu potessi fare cazzate.
Lo guarda gonfiarsi, diventare rosso gradualmente. Di contro, sente l’irritazione montargli nel petto e fargli girare la testa – anche lui non beve da troppo tempo, e non sente quasi più le dita delle proprie mani. È facile quindi lasciar fluire la rabbia e la stanchezza in un unico rimprovero, come se quello che ha davanti fosse a tutti gli effetti un bambino troppo piccolo per comprendere la gravità della situazione.
-Hai intenzione di urlare ancora? Non potrai bere altra acqua per un bel po’.
Jiro rimane zitto per qualche istante, poi si china verso di lui con occhi che sembrano quasi spiritati e inizia a urlare.
-Voglio scendere!
Batte le mani contro il cruscotto scuro, ripetutamente, furiosamente. Batte i piedi sul tappetino di plastica consumato, con un’energia straordinaria trovata chissà dove.
-Fammi scendere!
Ma benché urli e strepiti, benché l’isteria lo prenda per lunghi minuti, Jyuto non risponde e non arresta la macchina, continuando il tragitto nel buio. Lo lascia sfogare finché ne ha necessità, come ha fatto quel pomeriggio mentre trovava insulti ben fantasiosi.
Quella volta però Jiro si stanca più in fretta, anche perché le sue mani cominciano a fargli male abbastanza presto.
Cambia allora strategia, e quesito.
-Dove stiamo andando?
Volge lo sguardo al finestrino, come se potesse notare qualcosa nella notte. Al di là del nero, ci sono solo sassi e rottami, lo sanno benissimo entrambi: un mare di desolazione che isola i pochi insediamenti umani ancora intatti e funzionanti. Questa è la Terra dopo quello che è accaduto un centinaio di anni prima.
Jyuto continua a fissare sempre davanti a sé, fa scricchiolare i guanti sporchi appena e muove i polsi, sentendo i muscoli dolore al movimento. Risponde con la lingua secca.
-Lontano dalla Città.
Il ragazzo si volta a guardarlo stupefatto, ormai espressione stessa dell’incredulità.
-Che cazzo di risposta è questa? Dimmi dove stiamo andando!
Le sopracciglia dell’ex poliziotto si aggrottano e la sua voce si fa un poco più rauca, quando risponde una seconda volta.
-Il più lontano possibile.
È chiaro che non abbia intenzione di rivelare i propri piani circa il futuro – è anche abbastanza chiaro, in realtà, che non ne abbia affatto, e che quello che sta facendo sia tutto un piano assurdo abbastanza simile a un suicidio di coppia. Almeno, secondo la visione alterata di Jiro.
Il ragazzo trova particolarmente assurdo tutto quello. L’adrenalina e la preoccupazione scorrono ancora nelle sue vene, mescolate al sangue veloce: la frustrazione di non essere assecondato, neanche ascoltato, va a ondate di prepotenza e isteria, che gli acuiscono persino la voce. Troppo giovane anche solo per provare a controllarsi.
Ma a quel punto, considerando che nessuno di loro ha davvero una via di soluzione se non quella di proseguire a oltranza, il ragazzo si abbandona sul proprio sedile e chiude le palpebre. Ha mal di testa e molto sonno, non riesce più a fare nulla.
-Hai intenzione di attraversare tutto il deserto?
-No. Ci fermeremo appena troveremo qualcosa dove fare rifornimento. Ci servono acqua e carburante, e anche cibo.
Un sospiro appena percettibile esce dalle sue labbra, prima che per sconforto e disperazione non decida di fare un’ultima domanda molesta.
-Cosa succederà se non troveremo niente di tutto questo?
Jyuto non trova il tempo per rispondergli che lui è già addormentato. L’uomo lo guarda per qualche istante, permettendosi di staccare lo sguardo dalla strada sempre dritta: vede a malapena il suo profilo asciutto e slanciato, ma gli basta per essere rassicurato.
È vivo, sta bene, è con lui. Altro per quel momento non gli serve, né la sua riconoscenza né la minima sfaccettatura di benessere.
Preme sull’acceleratore e abbassa appena il finestrino, per fare entrare la brezza fresca, perché culli un poco il sonno di lui e lo renda più lieto.
 
 
Sono entrambi assai fortunati: la mattina seguente, appena un paio di ore dopo l’alba, intravedono all’orizzonte infuocato l’avvicinarsi veloce di un’automobile, che procede nella loro direzione.
Non può essere nessuno proveniente dalla Città, e benché la possibilità che le altre città-isole abbiano saputo cos’è successo, Jyuto rischia volentieri ogni conseguenza per la prospettiva di un baratto con qualcosa di utile.
Ha sempre sentito che gli abitanti del deserto sono ospitali ed estremamente gentili, inclini al contatto con sporadici avventurieri – è una delle tante leggende che circolano su quel posto interdetto alla civiltà, sconosciuto ai più che non siano, di norma, fuggiaschi o pazzi temerari.
Si volta verso Jiro quando ormai la natura del veicolo davanti a loro è sicura, e i due conducenti si sono scambiati un segnale di saluto attraverso i fari. Si lecca le labbra con la lingua, in una passata veloce.
-Non fare cazzate, Yamada.
Il ragazzo sbuffa e si rifiuta di rispondere, neanche lo guarda in volto. Jyuto non ha tempo da perdere con lui, e quindi esce dall’abitacolo dell’automobile ferma dal lato sinistro della strada prima che il piccolo furgone decida di ripartire senza che sia avvenuto alcuno scambio.
Da quello, esce un uomo brizzolato, decisamente panciuto, poco vestito e abbastanza contento. La pelle scura delle sue braccia suggerisce una provenienza meridionale, ma l’uomo sospetta che nel mezzo del nulla le razze si mescolino con molta più facilità di quanto non avvenga di norma.
Lo saluta con il migliore dei sorrisi che riemerge dall’esperienza di un passato lontano.
-Buongiorno.
L’altro sembra gradire, e fa altrettanto.
-Salute a te, amico. Cosa ti porta da queste parti?
Jyuto tenta una battuta, per non esporsi troppo, e per non rivelare più dettagli di sé di quanto sarebbe furbo fare.
-La mia macchina.
Si voltano entrambi a guardarla. Ricoperta di polvere di sabbia color rossastro, il cofano ha qualche macchia qui e là, e parte della carrozzeria presenta colpi da contusione più o meno profondi. Le ruote davanti, poi, sono davvero consumate, quasi del tutto lisce.
Il sorriso dell’uomo del deserto si stira un poco.
-Mi sembra un po’ acciaccata o sbaglio?
-Non è molto ben attrezzata per viaggi lunghi, devo ammetterlo.
L’altro non indaga oltre, perché non è nel suo interesse farlo, nonostante sia alquanto bizzarro trovare in quei luoghi una persona vestita di camicia e cravatta, e scarpe del tutto inadatte a un ambiente del genere. Anche in questo, si rivela vero il pregiudizio su quegli uomini, sì amichevoli ma anche abbastanza discreti da evitare troppe domande scomode. Jyuto ringrazia la propria buona sorte di nuovo.
-Di’, hai qualcosa di interessante per me?
-Soldi, della valuta di Chuuouku.
L’ex poliziotto è deciso, sa bene il valore di quello che sta proponendo, a differenza di chi gli sta davanti. Forse l’altro si aspettava qualcosa di succulento, magari dei pezzi di ricambio per la propria auto o qualcosa del genere, e questo suo pensiero viene rivelato subito da una brutta smorfia che gli deforma metà della faccia. Jyuto contrattacca nella compravendita.
-Stai andando in quella direzione, giusto? Ti serviranno soldi per vivere, per comprare del cibo e una sistemazione.
-I soldi si possono ottenere facilmente a qualsiasi banco di scambio.
-Senza nessuna tassa in sovrapprezzo? Auguri per la ricerca.
L’insinuazione di uno scambio senza alcun tipo di usura aggiunta illumina il volto di lui, che è ancora ignaro che in realtà, a Chuuouku, i problemi sono ben altri. Tipo, che ormai la Città è blindata ed è difficile non solo accedere ai suoi negozi, ma persino oltrepassare i suoi stessi confini. Ovviamente, questo Jyuto evita con tutto lo scrupolo possibile di dirlo, e si gode il sorriso di lui, la sua controproposta.
-Cosa ti serve, amico?
-Acqua e cibo, se ne hai anche carburante.
-Quanti soldi hai con te?
-Abbastanza.
Estrae il portafogli dalla tasca dei propri pantaloni, dove sempre è rimasto per tutto quel tempo. Integro, pulito, ancora gonfio dell’ultimo stipendio che ha ritirato qualche giorno prima: l’oggetto si mostra in uno stato tanto perfetto da essere surreale, in quel preciso contesto.
Ne mostra il contenuto, pur non contando con precisione quanti soldi possegga, e anche in questo caso l’uomo del deserto è abbastanza soddisfatto.
-Uhm, sì. Si può fare un buon affare.
Il sorriso si appiana un’altra volta e Jyuto teme che stia per dire qualcos’altro, quando lui lo sorprende con qualcosa di inaspettato.
-Solo che, amico, se posso consigliarti come tenere a bada un figlio-
Si volta immediatamente di scatto, e una scena già vista si presenta ai suoi occhi: portiera dell’auto aperta, il ragazzo lontano. Non troppo, perché l’altro uomo è stato abbastanza pronto da dirgli le cose in tempo, ma sicuramente troppo per quello che Jyuto vorrebbe.
Con un gesto rabbioso, butta a terra il proprio portafoglio e parte all’inseguimento. Riesce a trovare tutta l’energia che gli serve nella rabbia, che gli permette persino di urlare.
-Yamada!
Ma il ragazzo non risponde, proseguendo nella sua fuga. Lo chiama di nuovo, correndo tra i sassi acuminati e rossi del deserto.
-Yamada!
Ancora nulla, solo una schiena che si allontana sempre più.
Per disperazione vera, fa una cosa che non dovrebbe permettersi – ma quante cose si è permesso, in quei giorni, al di là di tutto ciò che è sempre stato e in tutto ciò in cui ha sempre creduto. Recupera veloce la propria pistola dalla cintola, si ferma e spara un colpo di avvertimento in aria.
Tutto si blocca, all’improvviso. Persino l’aria sembra che si sia fermata, in attesa.
Jiro si volta, accucciato a terra, e Jyuto urla al suo indirizzo.
-Il prossimo te lo pianto nel culo, se non torni immediatamente qua.
Pare aver capito, perché non si muove più. Aspetta che lui lo recuperi, prendendolo per il braccio e trascinandolo di nuovo verso la macchina, per ricominciare con la sequela di insulti.
-Sei un pezzo di merda! Un bastardo figlio di puttana! La peggio feccia che si possa trovare!
Jyuto vorrebbe tanto rispondergli, lascia però macerare la propria furia all’interno del proprio corpo, immagazzinandola in tutto lo spazio che la fame ha lasciato vuoto. Lo sente fremere sotto le sue dita, contro il suo palmo: è così vivo e pulsante, lo vorrebbe davvero stringere in altro modo.
Ma Jiro è troppo stupido e testardo. Troppo disperato, come lui.
Lo infila a forza all’interno della vettura, con gesti davvero poco gentili.
-Dentro!
Il ragazzo si ribella solo a parole, fintanto che può.
-Stron-
Sgrana gli occhi quando lo vede recuperare anche le manette dal cruscotto, prendergli i polsi e grazie a un veloce movimento legarlo ai sostegni di metallo del suo sedile.
-Che cosa stai facendo?
-Mi assicuro che tu non provi più a fare puttanate, testa di cazzo!
Jiro cerca di tirargli un calcio a quel punto, cerca davvero di essere il più sgradevole possibile nei suoi confronti. Solo che anche la pazienza e l’amore di Jyuto hanno un limite, e tutto il contegno che può avere in determinate circostanze svanisce se l’animo è provocato in quel modo.
Lo afferra per i capelli e gli piega dolorosamente la testa in avanti, immobilizzandolo.
-Stai calmo?
Jiro prova a muoversi, così l’ex poliziotto lo china ancora di più, provocandogli un dolore maggiore.
-Stai calmo, Yamada?
Qualche secondo di silenzio, poi Jiro si arrende, e fa un cenno con la testa. Finalmente la presa delle dita dell’uomo si allenta, e lui può tornare a sollevare il proprio busto.
-Bene.
Gli chiude la porta in faccia, con un gesto deciso. Rimette la pistola al proprio posto, senza osare guardare quanti proiettili possiede ancora. Così, recupera anche il portafoglio da dove lo ha buttato – l’uomo del deserto si è visto bene dal raccoglierlo o anche solo sfiorarlo – e torna davanti a lui, con lo stesso sorriso incredibilmente accomodante che ha sfoggiato prima.
-Dicevamo, amico?
 
 
Jyuto avvicina la bottiglia al proprio viso, lentamente, e per quanto tutto l’abitacolo della vettura traballi per la velocità sostenuta, riesce a non farne cadere neanche una preziosissima goccia. Beve un paio di piccoli sorsi di acqua ancora fresca, bagnando la lingua ormai abbastanza sensibile e soddisfatta; per chiuderla senza dover staccare anche l’altra mano dal volante, la posiziona in mezzo alle proprie gambe e la tiene ferma tra le cosce, in modo da poter avvitare il tappo senza problemi.
Vede con la coda dell’occhio il movimento istintivo di lui, che si lecca le labbra secche con la lingua e fissa in modo languido quella bottiglietta.
Per la quarta volta, Jyuto gli offre da bere, alzando il braccio e la bottiglia nella sua direzione; per la quarta volta, Jiro si volta verso il finestrino dell’auto e neanche gli risponde. L’uomo sta cominciando a irritarsi davvero.
-Se non bevi, rischi di stare male. Questo caldo è infernale.
Sono parole che gli ha già detto, in tutti i modi possibili, e il ragazzo mai lo ha ascoltato. Troppo, troppo testardo davvero.
Sbuffa, cercando di calmare la propria irritazione. Ora che ha masticato qualcosa di commestibile e riempito appena lo stomaco con cibo e acqua, la sua mente è tornata appena più lucida e i suoi muscoli un poco più reattivi di prima.
E se questo lo costringe a sopportare con più lucidità la temperatura altissima del deserto, dall’altra gli permette anche di considerare la realtà dei fatti, e avere pietà del ragazzo che gli sta accanto.
Quello che è successo quella maledetta sera, a Chuuouku, ha cambiato la vita a tutti loro. Ma se Jyuto è un adulto in tutto e per tutto, saldo abbastanza da affrontare di petto cambiamenti così radicali e improvvisi come quello, Jiro è ancora un ragazzo, con legami profondi e importantissimi ai quali è difficile rinunciare così dal nulla, in un modo tanto violento.
Li ha presi tutti alla sprovvista, quel Ramuda Amemura – persino lui, che con la morte e la vita delle persone ci è quasi abituato. Ma chi si sarebbe mai aspettato una cosa del genere così all’improvviso, specialmente dal primo alleato del Sindaco Capo della Città. Nessuno, davvero nessuno.
Jiro è accanto a lui, che cerca in tutti i modi di non arrendersi, e allo stesso tempo di mediare con quella che è la situazione reale e i sentimenti che prova. Può scommettere che c’è una grandissima confusione nella sua mente, l’incertezza di ogni momento.
L’uomo considera che, abbandonarlo a quel vortice di dubbi da solo sia forse peggio, in un certo senso, che lasciarlo morire.
Per questo rallenta pian piano, e alla fine accosta in mezzo al nulla, scatenando la sua meraviglia.
-Cosa stai facendo?
Lui è calmo, risponde senza fatica.
-Staremo qui fermi finché non ti decidi a mangiare.
Jiro lo guarda con uno sguardo pieno di scherno e irritazione, non credendo neanche a mezza delle sue parole. Si agita un poco, le mani ancora intrappolate nelle manette.
-Stai scherzando? E come potrei mangiare, legato così?
-Ti imbocco io.
-Tu non puoi essere serio!
Ma i minuti passano, niente cambia. Neppure un filo di vento si solleva da terra, e quell’abitacolo diventa quasi una sauna silenziosa. Jiro lo guarda incredulo, le labbra che tremano.
-Non sei serio…
L’uomo sospira, si sistema gli occhiali sul naso in un gesto automatico e del tutto inutile ormai; non riesce a guardarlo in faccia se non alla fine, proprio quando è sul limite di abbracciarlo, quasi.
-Non voglio che tu stia male.
Si palesa tutta la sua stanchezza, tutto il suo dolore e tutta la sua ansia in quel tono dimesso e così supplicante. Non avrebbe fatto nulla di tutto ciò, rischiato di morire in quel modo assurdo, se dietro non ci fosse stata una motivazione fortissima.
Lui.
Jiro se lo ricorda quando l’uomo lo guarda ancora.
-Per favore, mangia qualcosa.
Si guardano in silenzio per diversi minuti, senza che niente muti in superficie. In realtà però, dentro il ragazzo comincia a sciogliersi piano il riserbo e la frustrazione, che si trasformano in qualcosa di più caldo e accogliente.
Ingoia saliva mentre abbassa lo sguardo, strofinando la punta del proprio naso contro la manica della felpa.
-Ho… ho sete. Molta sete.
Jyuto è pronto a servirlo nell’immediato, alza la bottiglietta al suo viso e gliela stappa velocemente.
Jiro è vorace nell’ingoiare quanto più liquido possibile in un solo sorso, quasi si strozza, tanto che l’uomo deve allontanare per un attimo il contenitore di plastica, per imporgli un certo controllo.
-Fai piano, non soffocarti.
Jiro si sporge famelico verso di lui e l’uomo non si ritira più, gli permette di fare quello che vuole, anche di svuotare la bottiglia in due sorsi appena, tenendogli il mento con una mano e con l’altra tenendo inclinato un poco il contenitore di plastica.
Poi un pacchetto di gallette secche, e ancora mezza bottiglietta.
 
 
Era buio anche quella notte, ma le luci della Città rendevano tutto così luminoso da farlo sembrare estremamente simile al giorno. In particolare, i fari e i riflettori attorno al palco, rivolti a tutti i presenti, avevano obbligato tutti loro a socchiudere le palpebre, nel tentativo molto inutile di ripararsi in qualche modo dal getto abbagliante.
Il Gran Vice Sindaco Cittadino Kadenokoji, oltre a essere l’unica donna presente, era anche l’unica a non aver provato alcuna sorta di disagio, e aveva fissato la folla a lungo mentre aveva continuato con il suo solito discorso annuale: dopo tutta la dura lotta per arrivare fin lì, uno solo sarebbe stato il vincitore, una sola Divisione avrebbe potuto avvalersi di una tale onorificenza, e portare quindi onore e gloria al proprio territorio; almeno, questo per l’intera durata di un anno, in seguito al quale ci sarebbe stata una nuova battaglia e si sarebbe assegnato un nuovo vincitore. La dinamica dei duelli era sempre stata piuttosto palese e chiara, in particolar modo quando tutto il grande show dell’Arena aveva cominciato a ricevere finanziamenti dai Militari sotto lo stesso comando di Kadenokoji. Carne da macello per sperimentazioni, sotto quella che era a tutti gli effetti una dittatura militare: questo erano sempre stati gli uomini come loro.
Ma solo quando era arrivato il momento effettivo della premiazione, e la parola era stata data al solo e unico Grande Sindaco Cittadino, Otome Tohoten, allora Amemura Ramuda aveva attuato il proprio piano.
Otome, così com’era sempre stata grande e magnifica, specialmente di fronte al pubblico dei propri cittadini, così era caduta in un secondo, quasi fosse stata sempre una foglia secca e grinzosa.
Era stato anche semplice, perché nessuno si sarebbe mai aspettato una cosa del genere, proprio in quel momento – era bastata una piccola pistola, un singolo proiettile, e come ogni essere di natura umana, anche il simbolo di ogni repressione era precipitato nel vuoto, schiantandosi sotto il palco di vetro rialzato dove tutto stavano guardando, frantumandosi in una poltiglia di carne.
Poi era stato il caos.
Amemura Ramuda aveva lanciato una risata sovraumana, acutissima, e prima che le guardie personali del Sindaco avessero potuto fare qualcosa, aveva cominciato a correre e si era buttato nel vuoto, seguito a ruota dai sopravvissuti della Divisione di Shibuya, quasi fossero stati un unico e solo corpo. Jyuto ricorda come i loro corpi gli era sembrato volassero, leggeri e finalmente liberi di tutto, seguiti da una scia di proiettili che non li aveva neanche sfiorati. E poi, appena prima di toccare terra, avevano tutti e tre spiccato il volo, aperto ali di tessuto e sfrecciato nel cielo della notte, sparendo alla vista di tutti loro. A quel punto era stato chiaro che fosse tutto stato un piano premeditato, e i militari avrebbero impiegato ben poco a recuperare i rivoluzionari e a dar loro un’esecuzione capitale e pubblica il più spettacolare possibile.
Ai rimanenti sul palco, quegli animali da macello che non erano stati in alcun modo messi al corrente del piano preventivamente, erano rimaste due opzioni a quel punto. O continuare a far parte del sistema, andando in maniera esplicita dalla parte degli oppressori – cosa che sempre era stata, pur se obbligata – oppure sfruttare quell’unica possibilità nella vita e adeguarsi alla situazione, contribuendo alla rivoluzione.
Samatoki Aohitsugi, senza dire nulla a nessuno, aveva deciso per tutti loro. Ma cosa avesse spinto Jyuto a seguirlo d’istinto, quando aveva fatto un solo passo verso Kadenokoji e la sua scorta, ancora non lo sapeva esattamente. Lui era solito avere una risposta fisica molto pronta, conducendo nella vita di ogni giorno, fuori dall’Arena, un tipo di lavoro che aveva reso i suoi nervi saldi e reattivi. Ad azione corrisponde sempre una reazione, e lui non aveva mai avuto dubbi nel seguire l’unica persona che aveva sempre considerato il proprio leader, nonostante tutto.
Nella loro divisione, erano abituati a essere veloci, compatti e precisi come una vera e propria squadra d’assalto, e forse anche il fatto che Riou fosse riuscito a essere ancora più letale del solito e a ucciderne due subito, rubando loro le armi, era stato decisamente fondamentale.
Avevano preso in ostaggio la donna, così da garantirsi una iniziale via di fuga e una via d’uscita da tutto quello, seppur alla maniera dei suicidi. Il caos imperava ancora, il pubblico era diventato sotto i loro occhi una massa semovente e impazzita, che per lo più urlava e si contorceva, incapace di sentire gli ordini, e le altre cariche presenti si muovevano prese dalla stessa isteria, sgomitando e strepitando ordini contraddittori nel giro di pochi secondi l’uno di seguito all’altro. Inevitabile che si fosse presentata quell’occasione più che ghiotta, e che il corpo di guardia fosse debole davanti alla situazione – ancora pochi minuti, e non sarebbe stato così semplice.
Qualche secondo appena, Samatoki aveva guardato Ichiro e Jakurai, poi aveva cominciato a parlare. Cose che Jyuto non si ricordava, perché in quel momento era preso per lo più dalla sensazione di pericolo, e da tutta l’adrenalina che gli scorreva in corpo. Era scattato nel momento in cui un poliziotto aveva cercato di caricarli, ammazzandolo sul colpo; era scattato anche, ma per fortuna si era pure fermato in tempo, quando l’intera Divisione di Ikebukuro li aveva raggiunti, senza molta esitazione.
Solo la divisione di Shinjiku si era tenuta a debita distanza da loro, mantenendo il proprio posto, lì dove erano stato piazzati: la pedana del vincitore, esattamente sotto i riflettori. Non aveva partecipato alla fuga, non erano scappati con loro, sotto il palco, le scalinate e per tutto l’edificio, luoghi interdetti dal mondo e persino dalla luce artificiale della grande Città. Scariche di proiettili ovunque, i ricordi dell’ex poliziotto si erano fatto confusi quando aveva visto qualcuno comparire all’improvviso da dietro l’angolo di un corridoio bianco, proprio dietro le spalle di uno degli Yamada, e il suo corpo si era mosso da solo. Ma la grande falla, determinata dall’improvvisazione di un piano mai strutturato, si era rivelata quando erano dunque giunti al garage delle macchine della scorta, uniche abbastanza potenti da poter dar loro una possibilità reale di fuga.
Li avevano aspettati. Parecchio, abbastanza ben armati, nessuna intenzione di tenera la donna viva a quel punto della situazione – per l’onore della Città, non potevano permetterselo.
Samatoki la usò come esca viva e riuscì a creare un varco uccidendone due; una tale precisione di mira, soltanto in Rio Jyuto l’aveva vista prima di allora: proprio sotto il casco di protezione, tra collo e spalla.
Eppure, quel varco non era bastato per tutti e sei. Jyuto si era stretto addosso Jiro prima che finisse sotto il fuoco nemico ed era rimasto nascosto dietro una colonna di cemento, a far passare i proiettili. Non si ricordava bene come, ma per qualche miracolo erano riusciti entrambi a entrare dentro una di quelle macchine.
E per un po’, dopo aver sfondato il muro di uomini davanti all’uscita, erano riusciti a proseguire assieme all’altra auto su cui erano collocati gli altri. Fuori dall’Arena, a ben poca gente era stato permesso di rimanere, perché tutta la Città era sempre stata obbligata a partecipare a determinati eventi.
Era stato quasi estraniante vedere tutto deserto, calmo e tranquillo, come se fosse un grande cimitero silenzioso. Ma erano arrivati presto gli elicotteri e i mezzi corazzati a inseguirli, e la magia era terminata ben presto.
Jyuto aveva fatto una manovra brusca, un po’ troppo brusca, nel tentativo di schivare un razzo che aveva fatto saltare in aria un negozio di fronte a loro, e a quel punto Jiro aveva sbattuto la testa contro la portiera ed era svenuto, trattenuto al proprio posto fortunatamente dalla cintura allacciata. Così, non aveva visto le due macchine costrette a separarsi in vie diverse e sempre più lontane, per continuare la fuga in modo separato, chissà dove. Jyuto aveva fatto tutto da solo, a quel punto, semplicemente sperando che la buona sorte toccasse prima di tutto a loro, e poi anche agli altri.
Quella notte, una Luna Nuova lo aveva accompagnato al di là delle mura cittadine, consegnandolo al deserto rosso di gran carriera, sua salvezza e sua condanna allo stesso tempo.
 
 
Ha perso ormai la conta dei giorni nelle infinite ore di veglia che ha affrontato, inseguendo sempre il medesimo orizzonte piatto. Era quasi sicuro fossero passate soltanto tre notti, ma molti dei ricordi che ha conservato sono scomparsi in fretta, evaporati grazie al caldo del deserto. La mancanza di sonno si fa sentire più che mai, appesantisce ogni cosa molto più che la sete che ormai è calmata e la fame che ormai è zittita.
Vorrebbe anche rallentare, ma ha paura di perdere tempo – ha ancora paura di essere troppo vicino alla Città, e che qualcuno sia alle loro calcagna per prenderli. Chissà perché, quel terrore non riesce proprio a spegnerlo, o anche solo a relegarlo in qualche parte del suo cervello che non gli faccia troppo male.
Un uccello spicca il volo all’improvviso da dietro un detrito tutto curvo, forse il cofano pieno di ruggine di un’auto vecchia almeno un centinaio d’anni, e tagliando loro la strada poi si alza in cielo, e sparisce nei miraggi che il caldo solleva dal cemento e dalla terra. L’uomo lo segue per un pezzo, fintanto che è ancora ben visibile, e lo abbandona in tempo per non finire fuori strada, contro un masso decisamente grosso. Le sue braccia ormai fanno fatica a rispondere ai suoi comandi.
-Puoi fermarti.
Jyuto si volta di scatto verso il proprio passeggero, colto alla sprovvista. Ha pensato fino a quel momento che Jiro stesse dormendo, perché troppo tranquillo giaceva sul sedile, ma evidentemente si stava sbagliando. Non può esimersi dal guardarlo male, rantolare in preda alla stanchezza.
-E rischiare che tu scappi di nuovo?
Gli occhi di colore diverso di lui lo guardano abbastanza strafottenti, pieni di ironia. Tira i polsi e fa scontrare le manette tra di loro, con un suono acuto di metallo.
-Dove vuoi che vada, messo così?
Jyuto non sembra molto convinto in realtà, eppure non può che pensare che sia l’unica soluzione possibile. Se continua così, rischia davvero di svenire, o peggio.
Rischia una domanda.
-Sai guidare?
Il ragazzo sbuffa e accenna il primo sorriso – sempre ironico, sempre sarcastico.
-Me lo hai insegnato tu, cretino di un poliziotto.
L’uomo ha la mente vuota, non riesce per diversi secondi a trovare una corrispondenza nel vero di quanto l’altro gli abbia appena detto. Poi ricorda, diverso tempo prima, un parcheggio quasi del tutto vuoto e delle telecamere spente, Jiro che per poco non li faceva cadere entrambi in un fosso a causa di una retromarcia ingranata a tutta velocità. Per un motivo ignoto, accenna persino lui un piccolo sorriso.
Andare dritto non dovrebbe essere troppo difficoltoso, neppure per uno come lui.
L’auto rallenta pian piano, fino ad arrestarsi completamente. Jyuto impiega qualche secondo a staccare le mani dal volante, perché le sue dita sono rigide e le sue braccia altrettanto. Riesce comunque a muoversi in fretta e con decisione quando slega i polsi di Jiro e li lega una seconda volta, a una parte del volante. Chinato in avanti in una posa decisamente scomoda, il ragazzo cerca di alzare lo sguardo per rivolgergli un’occhiataccia, ma l’uomo lo precede.
-Almeno sono sicuro che non te ne vai in giro da qualche parte.
Il ragazzo borbotta diversi improperi mentre lui esce dall’auto, per permettergli di prendere il proprio posto davanti al volante.
Il deserto è sconfinato, rosso come il tramonto, secco di acqua e di vento. Si sistema gli occhiali rotti sul naso e vede, in lontananza verso destra, una piccola collinetta che si alza. Versanti ripidi, cima piatta, qualche rapace scrive un volo circolare prima di depositarvisi sopra e sparire quindi da qualche parte.
Jiro lo richiama alla realtà con un suono delicato, di vestiti che strofinano l’uno contro l’altro mentre il suo collo si allunga nella sua direzione.
Jyuto si porta dall’altra parte della macchina e quindi si siede, finalmente, al posto del viaggiatore. Lo guarda attentamente solo quando, dopo un attimo di esitazione, mette gira le chiavi nella toppa e riesce a mettere in moto. Una marcia e poi l’altra, trova la velocità perfetta per proseguire in linea dritta.
Le sue dita si stringono attorno al volante in una presa decisa, e su quel viso limpido e appuntito sbuca un’espressione quasi di trionfo, come se dovesse competere in una gara di velocità.
Lo trova ridicolissimo, e tenero. È quella la parte di Jiro che stuzzica le sue debolezze.
Ha a malapena il tempo di scambiare con lui uno sguardo complice che il sonno gli annebbia la vista e lo fa capitolare nell’incoscienza profonda, dove niente lo può raggiungere – neanche quella punta infima di felicità.
 
 
Un botto improvviso lo fa ridestare in meno di due secondi, e la prima sensazione che lo investe è la macchina che sbanda e poi si ferma di traverso in mezzo alla strada. Subito lo sguardo va a Jiro, che pare più che altro stralunato e confusissimo, le mani irrigidite e tutto il corpo di pietra.
-Irum-
Jyuto non gli permette di finire quel nome – mai lo ha chiamato così, ma in quel deserto niente è uguale a quello che era prima, e tutto sembra così assurdamente nuovo – e subito esce dal veicolo. Gli basta dare un’occhiata alla macchina per capire cosa sia successo, ovvero l’inevitabile.
-È scoppiata una ruota.
Il ragazzo rilascia un tiro di sollievo, come se quello non fosse poi un grande problema. Oltre il mal di testa e l’adrenalina a mille, Jyuto ricorda anche di avere una ruota di scorta nel bagagliaio, giusta per l’occorrenza. Tuttavia, il problema a quel punto è un altro.
Jiro si sporge verso di lui.
-Liberami che ti aiuto!
Lo dice senza malizia, e si sente. Jiro non è mai stato in grado di fare finte, giochi psicologici o altro, così dannatamente sincero che lo commuoveva ogni volta. Jyuto abbassa le difese, solo e soltanto per lui, e lo libera in fretta. In compenso, Jiro butta le manette nel deserto, tra la polvere rossa e i sassi, e quando l’uomo lo guarda con i capelli tutti disordinati e la cravatta messa al contrario, il ragazzo semplicemente alza le spalle e si avvicina al bagagliaio, aprendolo con un sol gesto.
Sollevata la macchina con gli attrezzi e cominciata a smontare quella bucata, uno strano presentimento fa alzare lo sguardo dell’uomo. Forse l’istinto, forse l’abitudine, forse il fatto che ha fin troppo in mente l’essere sul bordo tra la vita e la morte costantemente, e non da solo.
C’è un’altra sagoma all’orizzonte, che si confonde tra i detriti cotti al sole. Jyuto si alza e stira le gambe, il mal di testa tipico di chi non ha dormito in maniera regolare e soddisfacente; eppure se ne accorge, fin troppo bene: quel veicolo, e quelli che gli stanno accanto, stanno procedendo a gran velocità verso di loro. E se arrivano dal deserto e non dalla strada, è possibile soltanto una cosa.
-Predoni.
Jiro non ha sentito, e quindi non capisce la sua agitazione quando si avvicina alla ruota ancora avvitata per metà e comincia a trafficarci in maniera quasi isterica. Lo lascia fare senza opporre resistenza, benché non comprenda per niente la situazione – e comprende ancora meno quando l’uomo gli intima di prendere posto in macchina senza rimettere tutti gli attrezzi in ordine nel bagagliaio.
Jyuto lancia uno sguardo di lato mentre accende il veicolo, e mentre Jiro cerca di parlargli. Sono vicini, troppo vicini; finalmente anche il ragazzo li vede, e per prima cosa bestemmia. Per seconda, gli intima più o meno in maniera isterica di andare, andare anche velocemente.
La macchina riesce a partire quando uno scooter dei loro si piazza davanti al cofano, ma Jyuto è abbastanza agile di mano da fare una manovra lesta e superarlo, battendogli contro la fiancata dell’auto e buttandolo a terra senza alcun rimorso. Parte in sgommata, tralasciando tutti i pensieri possibili e schiacciando con la velocità Jiro contro il sedile.
La strada continua a rimanere dritta, sempre davanti a loro. Il ragazzo si gira e gli grida quanto siano veloci e grossi, a quanto pare oltre un paio di scooter veloci ci sono anche due macchinette da due posti e una jeep corazzata, tipo, dal cui cofano sbuca all’improvviso un uomo che sventola una mazza chiodata in aria, come monito.
A quel punto Jyuto pensa veloce, perché non può permettersi troppo tempo. Se siano più importanti le poche scorte di quello che hanno, oppure quel poco di carburante nel serbatoio, unica cosa davvero in grado di salvar loro la vita. Se sia il caso di continuare a scappare, nella speranza che prima o dopo si stanchino, oppure semplicemente arrendersi, dare loro quello che vogliono e proseguire indenni. Che senso avrebbe, dopo averli derubati, d’ucciderli, si chiede veloce.
La macchina non ha alcun tipo di valore ormai, sgangherata com’è, quasi priva di sostentamento. Non dovrebbero voler qualcosa da loro, sarebbe una bella sfortuna se fossero mercanti di schiavi, ma il discorso non muterebbe di una virgola. Non ha idea di cosa potrebbe nascondere il loro veicolo più grosso, e a quali condizioni sarebbero disposti a usare queste cose.
Per questi motivi, Jyuto decide di rallentare fino a fermarsi. Jiro è troppo incredulo per insultarlo, per diversi secondi rimane zitto a fissarlo e poi esplode in una cascata di improperi più o meno coloriti, rivolti a tutta la genealogia di Jyuto fino al suo primissimo avo.
L’uomo non gli risponde, esce dalla vettura solo quando vede il predone con la mazza chiodata in mano avvicinarsi alla portiera e attendere una risposta. È vestito di cotone, rivestito di protezioni di pelle e di metallo sulle spalle, non ha capelli e una brutta cicatrice sul volto, così scavato nelle guance da sembrare la morte stessa.
Jyuto cerca di prendere tempo e di valutare la situazione, alza le mani ed è amichevole, ma viene interrotto subito, prima ancora che finisca la propria frase.
-Noi non-
-Che cos’hai?
L’uomo sorride, mentre il predone fa un cenno a un suo compare perché guardi quello che c’è dentro la macchina. Jiro è abbastanza intelligente da non dire nulla mentre loro si prendono quel che resta del cibo e dell’acqua, i pochi vestiti che sono sparsi sul sedile posteriore. Il predone non è molto contento del magro bottino.
-Un po’ poco, non ti pare? Come pensi di superare il deserto con questa roba?
Il sorriso di Jyuto non si smuove neanche di un millimetro, e neppure le sue mani si abbassano. Gli vengono in mente almeno venti possibili risposte a quesiti del genere, ma la situazione vuole che sia lui quello in svantaggio, che rischia la vita per un semplice cenno del capo – e non solo la propria. Per questo preferisce rimanere in silenzio, e lasciare che le cose accadano.
Accade però anche qualcosa che non può ignorare. Guarda in basso, concentrandosi sui rumori, quando una portiera viene aperta, e lui sente Jiro uscire dalla macchina. A quel punto, l’espressione del predone davanti all’uomo cambia all’improvviso, come se avesse appena avuto un’illuminazione.
Maledizione.
-Anche il ragazzo?
L’uomo cerca di rimediare subito, anche se già qualcuno di quegli uomini del deserto si è mosso.
-Cosa può servirti un ragazzo del genere? Non è proprio adatto al lavoro, e non è neanche buono per il mercato del sesso. Non credi sia troppo cresciuto?
Un verso di protesta, stupido quanto infantile, proviene dal ragazzo, ma il predone ride di gusto.
-Al massimo è buono per essere mangiato!
Jyuto non sa bene se sia una battuta oppure no, non vuole indagare. Piuttosto, è diviso tra il voltarsi verso Jiro e mantenere il contatto con il capo dei predoni, per cercare di continuare a mediare in qualche modo. La situazione è critica, e del tutto fuori dal suo controllo. Jiro alza la voce e riceve un punto che lo stende sopra il cofano dell’auto, si alza a quel punto uno scroscio di risa.
Ancora due opzioni, ancora Jyuto che si muove solo in risposta alla mossa di un altro. Perché nel momento in cui Jiro si rialza come una furia dal cofano e agguanta il tizio che ha osato colpirlo, l’uomo sa che deve fermare tutti gli altri per evitare che li ammazzino in poco.
Estrae la pistola dai pantaloni e la punta alla tempia del predone davanti a sé, mentre Jiro urla insulti e colpisce, colpisce, colpisce. Jyuto guarda in faccia il predone con un’espressione assurda, del tutto priva di umanità, quando l’uomo sotto giro finisce di fare rumore e c’è solo il suono di pugni, di cose che si spappolano e sangue sull’asfalto.
Nessuno sa e nessuno deve sapere che dentro quella pistola non ci sono proiettili. È diventato tutto una farsa, persino l’essere in vita, persino la paura.
Jyuto non dice nulla, perché sa che rivelare anche la più piccola crepa o discrepanza tra di loro, una gerarchia che potrebbe benissimo essere sfruttata, sarebbe la loro rovina e il loro punto debole; poi è Jiro stesso a fermarsi e ad alzarsi, con il viso e la maglietta schizzati di sangue.
Prendono il capo dei predoni come ostaggio, per ripartire a gran velocità con tutte le proprie scorte senza nessuno a inseguirli – e disfarsi del tale all’occorrenza, dopo qualche ora di viaggio, in mezzo al nulla e ai sassi rossi.
 
 
Jyuto si rende conto di non percepire più parti del proprio corpo, non soltanto per la postura rigida mantenuta troppo a lungo. Oltre la fatica, oltre la stanchezza, la fame e la sete, il suo corpo ha raggiunto altri limiti che lui non saprebbe neppure definire con nomi precisi. Non riesce più a gestire la mano sinistra, a cui manda ordini precisi, scandendoli nella propria testa.
Le dita rimangono serrate e non si spostano, la spalla è scesa verso il basso come un peso morto, e il fianco ha smesso di pulsare dal dolore. Forse è una fortuna che la gamba sia ancora desta, perché non riuscirebbe a frenare e a fermarsi, altrimenti.
Lo stupisce più di ogni altra cosa la mancanza, finalmente, di paura. Non c’è neanche rassegnazione dentro il suo cuore, solo un filo di voce che lo riporta alla realtà e gli restituisce l’immagine di due occhi piegati all’ingiù, preoccupati – si fissa per qualche secondo sul neo che spicca sullo zigomo, ricordandosi tutte le volte che gli è piaciuto così tanto baciarlo, mentre facevano l’amore abbracciati stretti. Riuscire a ricordarsi certe cose lo aiuta a sorridere e a rizzare la schiena, appoggiandola di nuovo al sedile.
-Non riesco più ad andare avanti.
Lo vede spaventarsi, quel cucciolo spavaldo dentro di lui, perché ha capito fin troppo bene cosa significano quelle parole.
Sa che è la sua bontà ad agitarsi tutta, a cercare per istinto una qualche possibile soluzione da proporre, dei gesti di conforto che riaccendano la speranza seccata assieme ai sassi. Jiro ha una forza dentro che supera la sua di almeno mille volte, e questo lo ha sempre saputo.
Jyuto sa che, però, è la sua sensibilità che lo fa tacere, che gli impedisce di dire cose inutili, forse anche più dannose che altro. Gli occorrono diversi minuti per calmare il proprio cuore, smettere di farfugliare frasi sconnesse e parole senza senso, ma quando lo guarda di nuovo ha una calma strana, fermissima, che non è smossa da alcun dubbio.
Come riesca a essere così luminoso, nonostante sia sporco lercio della polvere del deserto e abbia i capelli appiccicati al viso per colpa del sudore, una puzza addosso che sembra sia morto ormai da giorni, l’uomo proprio non lo sa. Potrebbe star vivendo un sogno, d’altra parte, e tutto quello acquisterebbe un senso vero e proprio.
Si prende gli occhiali dal naso e li abbassa, perché ormai non servono più. Si rende conto, nello sbattere le palpebre diverse volte, che vede tutto quanto come se fosse un miraggio – tranne lui, ovviamente.
Sente la sua mano cercare la propria, intrecciare le dita tra di loro. Non sa se è possibile oppure no, ma lo sente avvicinarsi al suo fianco, quasi sporgersi verso di lui.
Fuori è quasi il tramonto, almeno i colori riesce ancora a distinguerli. Non sente più il caldo soffocante, il respiro sembra aver preso un ritmo regolare tutto suo, e il suo corpo è una conchiglia attraverso cui passa il vento e produce il suono del mare – il suono di un qualche suo pensiero lontano, difficile da afferrare.
La mano di Jiro è sempre lì, e così anche il suo corpo. A un certo punto, anche la sua voce.
-Scusami.
Jyuto non riesce a girare il viso nella sua direzione, vorrebbe dirgli che non capisce di cosa dovrebbe scusarsi giunti a quel punto, anche se di motivi ne avrebbe almeno mille. Tutti stupidi, tutti senza alcun valore ormai, perché legati a un contesto che non esiste più.
Entro quattro mura solide, ogni scaramuccia ha un peso, ogni litigata e ogni incomprensione; l’importanza delle cose varia come può variare tutto, e rimembrare di quella volta che, dopo aver insistito per la ventesima volta su qualcosa, Jiro si era semplicemente alzato dal tavolo dove stavano mangiando assieme e se n’era andato sbattendo la porta, non gli porterebbe niente. Neanche preferire un contesto a un altro, ormai, ha più senso.
Guarda la luna sbucare nel blu scuro, soffia più forte oltre le labbra schiuse.
-Scusami.
Lo sente stringere le dita tra le sue e muoversi ancora un poco, quietarsi subito. Abbassa il finestrino e una brezza leggerissima entra, accarezzandoli sul viso. Spuntano anche le prime stelle bianche, appannate oltre il vetro ricoperto di sabbia. C’è un silenzio irreale, interrotto solo di tanto in tanto dallo scoppiettare dei detriti che si contraggono al fresco della notte.
Quanto possono valere rimpianto e rimorso al limite del giorno, prima di chiudere gli occhi per sempre.
Lo sente sorridere, chissà come. Il suo corpo è diventato pesante come la pietra, percepisce solamente il tocco di lui e la forza di gravità che lo tiene immobile, sopra quel maledetto sedile.
È difficile mettere a fuoco le cose, e trovare la forza per formulare delle parole precise. Troppo, troppo stanco. Persino quella macchina sgangherata ha conservato in modo migliore il carburante di quanto non abbia fatto lui – nella fuga, ha accelerato troppo, ed è imploso tutto.
Ecco, sente una punta di senso di colpa, ma per fortuna c’è ancora Jiro a schiacciarla: muove il pollice in circolo, contro il palmo della sua mano, e lo mantiene a galla. Jyuto spera che continui finché non si sarà addormentato.
Si sforza di curvare le labbra nel miglior sorriso che gli riesce.
-Spero che tu muoia prima. Così almeno non morirai da solo.
Solo in quel momento, Jiro si immobilizza, e poi comincia a piangere a dirotto.
 
 
Si irrigidisce, quando si sente ancora vivo nelle mani di sconosciuti. Si ritrova come all’improvviso in una posizione diversa da quella dove aveva perso conoscenza, ma gli ci vogliono pochi secondi per sentire la voce di Samatoki, e poi anche quella di Yamada, e quindi rilassarsi.
Non vede nulla, nella notte, ma sente bene il morbido di un materasso contro la sua schiena, le mani forti e callose che lo lasciano lì e quindi una coperta avvolgerlo, stretto stretto.
Altre voci confuse, qualcuno lo obbliga a bere dell’acqua – la sua gola ne ingioia troppa e troppo alla svelta, tanto che per la maggior parte la sputa sul proprio petto. Viene abbeverato di nuovo, con una pazienza infinita.
I suoi occhi stanchi notano i profili di macchine grandi, fatte di metallo. Fari accesi e ruote fatte per scavalcare anche i sassi più acuminati e alti, detriti di ogni genere. Tante persone attorno a lui, come non ne vedeva da parecchio tempo.
C’è una puzza di fumo all’improvviso, accanto a lui, che per istinto associa a una determinata persona ancora prima di sentirne la voce. Samatoki lo chiama, parla con lui, forse lo rassicura di qualcosa circa il fatto che sono in salvo, lui e il secondo dei fratelli. Viene interrotto presto però, da una voce sconosciuta, che gli intima di fare in fretta che la notte non durerà per sempre, e devono nascondersi al giorno. Samatoki sbraita più per abitudine che altro, non c’è una vera e propria cattiveria nella sua voce, Jyuto lo riconosce.
Riderebbe se avesse forza anche solo di pensare: i Ribelli Uniti allora non erano una favola che si raccontavano i veterani come lui, nei momenti di noia in ufficio, ma esistevano veramente. Coloro che riempivano il deserto di speranza, e raccoglievano i fuggiaschi di tutte le Città presso una sola e unica bandiera, in attesa della Rivoluzione.
Esistevano davvero.
Il lettino dove è posato viene alzato da terra, e così si ritrova sollevato nel vuoto. Presto viene inglobato dal ventre di un veicolo scuro, e assicurato alle cure di una persona il cui volto è coperto da una maschera, e il resto inchiostrato di scuro. Ha gli occhi che sorridono.
Sente un’altra voce, tra i rombi dei motori.
-Aspettate!
Lo sente salire sull’alto e avvicinarsi a lui, strisciando sul metallo. Nessuno gli dice nulla, quindi le ante del furgone vengono chiuse e una piccola luce biancastra accesa sopra le loro teste. Partono in fretta, con grandi rombi di motore e sgommate violente.
L’uomo sente Jiro accomodarsi al suo fianco, come se non pesasse neanche un grammo. Invece fa male, parecchio male, sentirselo pesare sul braccio e sulla spalla – ironico come la sensibilità gli sia tornata tutta in quel momento, dannazione.
Eppure, Jyuto ne è sicuro: non rinuncerebbe a quel dolore per nulla al mondo, così come neppure alla speranza che sente nel cuore, e alla gioia di averlo accanto.
È così bello sentirlo addormentarsi nel suo abbraccio ancora una volta.
-Sai, Yamada? Penso di amarti.
Finalmente, Jiro gli sorride.
   
 
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