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Autore: Eilonwy of Prydain    20/03/2019    6 recensioni
Racconto in due tempi.
Nuova Berk, cinque anni dopo la scomparsa dei Draghi.

Ritrae uno spaccato di vita immaginario e posteriore al finale dell'ultimo capitolo della trilogia, Dragon Trainer - Il mondo nascosto (How to Train Your Dragon: The Hidden World).

Avvertenze: Può causare effetti indesiderati e anche gravi. Maneggiare con cura.
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
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PRIMO TEMPO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCENA I

 

 

 

 

Quando c’erano i Draghi, la foresta non aveva quell’aria così silenziosa.

C’era rumore, sulla costa e sui monti; le zolle tremavano, il vento ruggiva e strideva e il cielo aperto si riempiva di suoni così assordanti da invertire la rotta delle nubi e formare gigantesche voragini in mare.

Si vedevano danzare, giù oltre il dirupo, con quelle ali spiegate e lucenti come un corteggio di migliaia di farfalle variopinte dalle code serpentesche.

Quando c’erano i Draghi, la vita era un’altra cosa.

Si era in simbiosi con il pericolo, il rischio era parte integrante di ogni giornata e c’era sempre qualcosa da fare, giù a Berk.

Chissà cos’era rimasto, dell’isola dagli alti picchi rocciosi dove gli Hooligan avevano vissuto per sette generazioni. 
Soltanto rovine, deserte e traballanti; statue imponenti ripiene di edera e muschio. Sentieri velati di carbone, pavimenti polverosi, lucerne spente e scricchiolanti. 
Forse qualche tribù vagabonda si era stanziata lì e l’aveva rivendicata come propria. 
Forse il mare l’avrebbe corrosa nei secoli a venire e le tempeste avrebbero cancellato le orme dei vecchi abitanti lungo le piazze, i vicoli e le pedane.

Quando c’erano i Draghi, eri solo un ragazzo.

A quel tempo, la scala della società era ripida e dura da sormontare per raggiungere la vetta. Uccidere un drago era tutto, per poter diventare grandi. 
D’un tratto, poi, era divenuto necessario addestrarne uno e tenerlo in casa per potersi sentire davvero realizzati. 
Un cambiamento radicale, si può dire.

A quel tempo, erano altri tempi: c’era tutta un’altra maniera di trovare risposte a ogni domanda. Il viaggio aveva assunto un significato diverso da come lo intendono i comuni esseri umani: non erano la partenza e l’arrivo a contare davvero, ma ciò che stava in mezzo. Vivere ogni singolo momento che portava alla meta e godere della sua unicità.

A quel tempo l’orizzonte non sembrava così lontano. 
C’erano altre misure.

Adesso è tutto diverso. Ogni cosa è al suo posto e ogni cosa verge alla normalità. Ognuno si trova nel luogo a cui appartiene, come Natura vuole, e quei pochi uomini che avevano osato sfidare le sue leggi per la brama di andare oltre hanno imparato la loro lezione.

L’uomo alla terra, il drago alla leggenda.

È così che stanno le cose.

Eppure sembrava così duro accettare che fosse giunta la fine di un sogno... Ti hanno strappato via le ali e tutti quei poteri che ti rendevano diverso e al di sopra della tua specie. 
Ti hanno detto che sei solo un uomo, esattamente come tutti gli altri, e che non sei nessuno per cambiare ciò che è stato predisposto.

Ora, finalmente, il mondo gira allo stesso modo per tutti.

Eppure sembrava che la vita finisse lì, che nulla sarebbe più stato come prima, che le cose avrebbero perso il loro significato e che tu, piccolo grande uomo, saresti rimasto senza uno scopo.

Ed è stato sorprendente capire che no, la vita continua.

Prosegue inesorabile, come il respiro delle onde che si abbattono sulla scogliera che cade a strapiombo, lì, a pochi passi da te.

Il tempo passa e cambia, e cambi pure tu.

Cambi sempre, persino adesso che te ne stai seduto a gambe incrociate con l’aria di chi aspetta qualcosa e non riesci a smettere di guardare a ovest.

Là, dove il mare finisce e si precipita dentro il cuore della Terra. Là dove sei stato una volta e dove, forse, non rimetterai più piede.

Forse.

Forse un giorno lo troverai di nuovo, quel mondo nascosto. 
Forse un giorno rivedrai lui. Basta solo aspettare.

Aspettare ancora.

E nel frattempo la vita continua, da questa parte del mondo.

«Un giorno» disse bassa voce, chiudendo gli occhi.

L’erba si muoveva scomposta tra le sue dita e i capelli seguivano il flusso del vento che li spingeva via dalla sua fronte.

Era talmente immerso in quello stato di meditazione, davanti al rosseggiare del tramonto, da non essere più capace di distinguere i rumori attorno a sé.

Qualcosa stava strisciando nell’erba, dietro di lui, ma neppure quel fruscio riuscì a destare la sua attenzione.

Finché non scattò all’improvviso.

«Roarrrrr!»

Hiccup sobbalzò un momento prima che una spinta lo scuotesse e lo piegasse in avanti sotto un peso scalciante.

«Aaaah!» gridò, nel pieno di un drammatico spavento. «Aiuto, un Gronkio!»

«Non sono un Gronkio,» rispose il misterioso assalitore, «sono il pirata più cattivo di tutto il mare!»

«Un pirata?» domandò, opponendo resistenza. «Allora non ho davvero speranze!»

Il pirata dalle grosse trecce rotolò in avanti con una capriola e si preparò a sferrare il colpo finale: «Preparati a morire

«No, no! Pietà!»

Il colpo fatale fu sferrato con una spada invisibile, e Hiccup non poté far altro che spalancare la bocca e toccarsi nel punto colpito, vicino al cuore.

«Il capo di Berk...» pronunciò, con tono basso e teatrale, «esala... l’ultimo... respiro.»

Cadde di peso all’indietro, sull’erba, con gli occhi chiusi e le braccia tese.

«Vittoria!» gridò il pirata dal volto dipinto, impastando le consonanti delle parole che pronunciava. «Nemico affondato, missione compiuta!»

Alzò le braccia, fece un paio di salti e poi si fermò, notando che lui non si muoveva.

«Papà.»

Si chinò in avanti e sventolò la mano davanti alla sua faccia, parlando con una vocina così dolce da essere irresistibile: «Però se muori così non vale!»

Lui aprì un occhio: «E come devo morire, allora?»

«Così!» esclamò, stringendosi il collo con le mani ed emettendo rantoli e singulti con la lingua penzoloni.

«Accidenti, che morte crudele» si alzò a sedere. «Ora però tocca a me colpire.»

Lei spalancò gli occhioni azzurri, mentre lui portava le mani avanti. «La mia è l’arma più potente, la più temuta, la più devastante di tutte...» agitò le dita come fossero tentacoli. «Il solletico!»

Lei cercò di scappare, ma lui l’afferrò e la tirò indietro.

«No!» gridò in preda alle risate. «Il solletico no!»

«Non scappi più, eh?»

Lei continuò a ridere come un’ossessa, ribaltandosi e cercando di proteggersi la pancia e le ascelle. «Aiutooo!»

«Ma come aiuto? Non eri il pirata più cattivo di tutti i mari, un attimo fa?» si fermò, e lei restò sdraiata di traverso sulle sue gambe.

«Non vale» ripeté, fiatando tra le risate.

«Non vale» la imitò, per poi guardare meglio le strisce nere che aveva sulle guance. «Ma che ti sei messa in faccia?»

Lei balzò in piedi e fece un salto, perché ferma non ci poteva stare, e si mise impettita come le era stato insegnato. «Prima regola degli scout Thorston» pronunciò, inceppandosi da sola con le sillabe. «La mi... mimizzazione

«La cosa?»

Lei s’impegnò nella pronuncia: «Mitizzizzazione».

Lui sorrise, per quanto era buffa: «Mimetizzazione?»

«Sissignore!» rispose, con quello strano accento sulla esse.

Hiccup scosse il capo. Le lezioni di Testa di Tufo nella classe dei piccoli scout le avrebbero dato alla testa, prima o poi. «Vieni» l’attirò a sé, si leccò il pollice e cominciò a passarglielo sulla guancia per rimuovere le strisce di pittura. «Non va neanche via, questa roba.»

«Ha detto Tufo che la prossima volta ci mettiamo tutti il fango dappertutto, per la mimitizzazione

«Mi-me-tiz-za-zio-ne.»

«Mimetizzazione.»

«Brava» continuò a strofinare sul colore, per poi arrendersi perché non si toglieva. «Se Testa di Tufo continua a farvi infangare tutti, glielo rovescio io un secchio di fango in testa.»

Lei sghignazzò con aria birichina e Hiccup si alzò in piedi. «Vi siete divertiti?»

«Sì!»

«Sono curioso di sapere che avete combinato, ma prima andiamo a casa» le tese la mano. «Vieni, Zeph.»

«Già a casa?» mugugnò lei, afferrando le sue dita.

«È tardi, vedi?» indicò il tramonto. «E poi in questi giorni saremo solo io e te, perché la mamma è andata a nord, ricordi?»

«A comprare le cose per noi.»

«Esatto.»

La bimba guardò a ovest, il sole che ormai si era nascosto dietro la soglia del mare. «Quando torna, la mamma?»

«Fra qualche giorno» la rassicurò. «Nel frattempo dobbiamo fare i bravi e cercare di non distruggere casa, ché sennò quando torna ci brontola a tutti e due.»

Lei si posò l’altra manina sulla bocca: «Mamma che si arrabbia no...»

«Hai capito bene.»

Si avviarono lungo la radura, in direzione del villaggio.

«Papà.»

«Hm?»

«La posso fare anche in casa, la mimetizzazione

 

 

 

 

 

 

 

 

SCENA II

 

 

 

 

Un lieve, incerto fischiettare.

Comincia un motivetto e poi, acquisendone memoria, si avvicina di qualche passo e allunga la mano per attirare la sua attenzione.

«Ricordi la nostra canzone, Val?»

Nel silenzio guardi tuo padre, ma non hai capito quali siano le sue intenzioni. Le ha tolto di mano il recipiente dell’acqua e ora la sta guardando con aria di sommessa preghiera.

 

 

Per ogni mar navigherò

ma non avrò paura...

 

 

Valka ha lo sguardo basso. È indecisa, esitante. 
Triste.

 

 

Le onde io cavalcherò

se tu mi sposerai.

 

 

Lei è mia madre, pensi. È così strano poterlo dire davanti alla realtà delle cose... L’avevi immaginata così tanto, negli ultimi vent’anni, da esserti costruito un’immagine tutta tua.

La guardi e noti una donna alta, forzuta, dai capelli lunghissimi, il naso piccolo e gli zigomi tondi e pronunciati.

L’avevi immaginata così tante volte che adesso le sue sembianze sembrano plasmate in una materia inafferrabile, come quella di un sogno. 
Tuo padre le sta accarezzando la guancia col dorso delle dita e ti sembra un sogno
E invece è qui, ora.

 

 

Né il sole, sai

né il freddo mai, m’im...

 

 

«M’impedirà il ritorno!» Skaracchio irrompe nella strofa con la grazia di un cinghiale. Gli sguardi severi che si ritrova puntati contro lo fanno sedere immediatamente e chiedere scusa. 
Sdendato lo sta guardando con le orecchie dritte e persino Broncio si è svegliato.

Stoick butta fuori un sospiro così forte che la pazienza sa solo lui, dove trovarla.

Si volta e torna a guardare la sua amata moglie per tentare ancora. Dunque le prende la mano, intrecciando le dita con le sue.

 

 

Se mi prometterai il tuo cuor...

 

 

Le stringe la mano sul cuore, sopra quel ruvido manto di barba chiazzata dal bianco degli anni.

Lei non si è mossa. Anzi, ha lo sguardo perso e ancora più triste di prima.

 

 

E amore...?

 

 

Desiste. 
Forse è tutto perduto. Lei non ricorda, oppure ha dimenticato, oppure non sente più le stesse cose. 
Chi ci riuscirebbe, dopo vent’anni di distacco, dopo vent’anni di crescita passati in mondi completamente diversi?

Eppure, i suoi occhi turchesi sembrano riprendere una pacata scintilla.

 

 

E amore per l’eternità...

 

 

Stoick solleva lo sguardo con sorpresa e un’aria di dolcissimo sollievo. Lei si volta e, ricordando le parole, misura alcuni passi fino a superarlo.

 

 

Amato mio, oh mio tesor,

tu cerchi di stupirmi...

 

 

Si ferma e alza il pugno, in memoria di una danza dimenticata.

 

 

... parole non ti serviranno

ti basterà abbracciarmi!

 

 

Nasce il sorriso, sulle sue labbra, mentre Stoick caccia una risata e dà inizio al ballo.

 

 

Anelli d’or ti porterò,

ti canterò poesie,

da tutto ti proteggerò,

se tu vorrai sposarmi!

 

 

Si tengono le mani, incrociano i piedi, saltano, fanno giravolte e sbagliano, riscoprendo il ricordo di essere innamorati e giovani.

 

 

Anelli d’or non servono,

non voglio le poesie,

le mani tue desidero...

 

 

Skaracchio balza in piedi come un forsennato.

 

 

... da stringer tra le mie!

 

 

Si stanno divertendo come matti, mentre il grande fabbro prende a scalciare l’aria fino a colpire per sbaglio il muso di Sdentato, che si ritrae immediatamente prima di rimetterci un occhio.

 

 

Ti abbraccerò, ti bacerò

e danzerò per sempre,

con te felice io sarò

non smettere di amarmi.

 

 

Li guardi e sorridi, finché lui non ti solleva da terra e ti fa girare in tondo in quella danza strampalata che si fa sempre più veloce.

 

 

Per ogni mar navigherò,

ma non avrò paura,

le onde io cavalcherò

se tu mi sposerai!

 

 

Stoick solleva sua moglie da terra per il gran finale e Skaracchio dà prova delle sue note lunghe con una mano sul petto. Non sai se somiglia più a un gatto morente o al cigolio di un vecchio portone.

Sdentato si strofina le zampe sulla testa come a implorare di farlo smettere.

«Sto cantandoooooo!»

«Skaracchio» lo richiami.

«D’accordo, basta.»

Loro si stanno abbracciando, e ridono, e si guardano negli occhi.

Valka, ovvero la donna che dovresti chiamare mamma, ha un modo così grazioso di muoversi e di sorridere che ti rende davvero felice averla finalmente conosciuta. 
Ma nessuno in questo momento sembra essere felice come tuo padre, che le parla, con voce tremante: «Pensavo di morire, prima di poterla danzare di nuovo insieme».

Valka sbarra gli occhi, sorridendo: «Non c’è bisogno di ricorrere a misure così drastiche!»

Lui scuote la testa ridacchiando e s’inginocchia. «Per te, mia adorata... farei tutto.»

Lei è quasi senza parole, mentre le tiene le mani e la guarda dolcemente dal basso. 
Il grande Stoick l’Immenso non è mai sembrato così piccolo di fronte a qualcuno.

«Tornerai a casa, Val?» le chiede, colmo di speranza. «Vuoi essere di nuovo mia moglie?»

È come ricominciare tutto da capo. Riprovarci, nonostante tutto.

Lei stringe le labbra e non può che guardarlo con forte emozione. Un’emozione che sembra persino averle tolto la capacità di parlare.

Ci pensa Sdentato, a passarle dietro e a spingerla contro di lui.

Lei è incerta, forse un po’ impaurita di fronte alla possibilità di una vita diversa da quella a cui si era abituata nei vent’anni precedenti. Ma la consapevolezza che lui l’avesse perdonata e che fosse pronto a ricominciare la sta riempiendo di gioia.

«Possiamo essere una famiglia» le dice, mentre Sdentato la guarda con gli occhioni dolci e tu ti unisci a quel cerchio tanto bello da non sembrare vero. «Che ne dici?»

Lei lo guarda, e poi guarda te, che le sorridi con aria gioviale, impaziente di una risposta. 
I suoi occhi sono lucidi, ma nel breve silenzio che segue si può sentire tutta la commozione che precede la sua risposta.

«

 

 

 

*

 

 

 

«Capo?»

Una voce lo strappò via ai ricordi e lo fece atterrare nella realtà, proprio davanti alla tavola rotonda della Grande Sala dove la musica leggera di un’arpa aveva cessato da poco quel motivetto a lui caro.

«Eret» Hiccup si voltò a sinistra. «Che succede?»

«Non è successo nulla» rispose l’ex-cacciatore ormai trentenne. «Ho solo una proposta da farti.»

Hiccup notò che portava tra le mani un grosso rotolo di pergamena, ma l’occhio cadde subito sulle tre figure alle sue spalle.

«Ho solo una proposta da farti» Moccicoso lo imitò muovendo le dita della mano a mo’ di papera. «Che tipo di proposta, eh Eret? Sentiamo.»

Gambedipesce, dietro di lui, roteò gli occhi: «Quand’è che crescerai, Moccicoso?»

«Bella domanda» rispose Eret senza voltarsi. «A saperlo...»

Testa di Tufo grugnì una risata sommessa.

«Cosa devi dirmi?» Hiccup si mostrò curioso.

«Allora» Eret aprì la mappa e la guardò, aggrottando la fronte. «No, aspetta. C’è un errore.» La poggiò sul tavolo, prese il carboncino dalla scarsella e si chinò per tracciare la correzione.

Moccicoso fece una smorfia e Testa di Tufo, nel frattempo, non si fece mancare la domanda del giorno: «Come va la vita in assenza di Astrid, Hiccup?»

Hiccup gli lanciò un’occhiata e Gambedipesce si grattò i lunghi baffi annodati.

«Immagino bene» Moccicoso si passò un’unghia tra i denti. «Ci sarà sicuramente più silenzio.»

«Dubito che ci sia silenzio, con Zephyr in giro per casa» commentò Gambedipesce.

«Quando il gatto non c’è, i topi ballano.»

Tufo mostrò il palmo della mano: «Se vuoi posso darti qualche consiglio su come fare... la donna di casa».

«Hai imparato da Testa Bruta?» rispose Hiccup con un mezzo sorriso. 

«Scherzi? Mia sorella è troppo stupida per sapere come badare a una casa e a dei bambini.»

Gambedipesce si batté la mano sulla fronte e Hiccup fece un’espressione stranita: «Se hai intenzione di usare lo stesso metodo del consulente matrimoniale, passo». 

«Mio caro, piccolo Hicky» Tufo allargò un sorriso beffardo, grattandosi la sua vera barba, finalmente cresciuta ma non ancora abbastanza lunga. «Io sono a tua completa disposizione come consulente per qualsiasi cosa! Come sai, io ci so fare anche con i bambini...»

«Oh, l’ho notato» rispose ironicamente il Capo.

«Non deve essere facile, gestire tutto il lavoro nel villaggio, la bambina, e la casa...»

«Hiccup la casalinga» Moccicoso si guardò le unghie sporche. «Ti ci vedo, sai?»

Hiccup sbuffò, ormai abituato alle loro prese in giro. «Sinceramente sono un po’ preoccupato. So che dovrei stare calmo perché mia madre e le altre donne sono andate ai Mercati del Nord con lei, ma mandarla su una nave proprio adesso... mi fa stare in ansia, ecco.»

«Potevi evitare di darle il permesso» disse Tufo, credendo di avere la risposta a ogni domanda.

«Permesso?» Hiccup lo guardò come se avesse raccontato una barzelletta.

«Puah!» sputò Moccicoso. «Astrid che chiede il permesso, questa è buona!»

«Penso che non la fermeresti nemmeno legandola con le catene» sorrise Eret. «Ormai, conoscendola...» Dispiegò la mappa davanti a Hiccup e fece un respiro. «Ecco la mia proposta» enunciò. «Andare a ovest.»

Nel silenzio che seguì, solo Tufo prese parola con aria un po’ spaesata: «A fare cosa?»

«Beh,» Eret parlò come se fosse la risposta più ovvia del mondo, «a esplorare, no?» Si rivolse poi a Hiccup: «Molte tribù dell’Arcipelago hanno già salpato in quella direzione. Ai tempi in cui lavoravo per Bludvist ho avuto modo di viaggiare molto e di sentire racconti e testimonianze di esploratori che hanno trovato terre fertili e brulicanti di tesori».

«Oh, certo,» disse Moccicoso, «e tu credi alle leggende e alle chiacchiere di qualche idiota?»

«Le leggende non sono soltanto frottole, ma hanno sempre un fondo di verità. Questo ormai è palese.»

Hiccup si limitò a grattare il mento colorito di barba, senza aggiungere parola.

«Ma ti ascolti?» Moccicoso agitò l’elmo cornuto. «Ora noi dovremmo impiegare risorse e salpare per andare là fuori chissà dove solo perché l’hai proposto tu?»

«Ehi» Eret alzò un sopracciglio. «Occhio a come parli.»

«Io parlo come mi pare, e tu sei un...»

«Basta» lo interruppe Hiccup, accigliato. «Eret, continua.»

«Stavo dicendo che non ci sono prove concrete, ma solo testimonianze orali. Anche il Mondo Nascosto sembrava una leggenda, ma abbiamo visto noi stessi che esiste per davvero» fece una pausa, allargando le braccia verso i suoi interlocutori. «E poi, insomma, siamo vichinghi! Non siamo fatti per restare fermi nello stesso posto! Andiamo a ovest, Hiccup. Andiamo a vedere cosa c’è al di là di ciò che vedono i nostri occhi» spostò la mappa per enfatizzare sul discorso. «Tu non vuoi saperne di più?»

«Non dargli retta, Hiccup» Moccicoso incrociò i piedi. «È un novellino e crede di poter già parlare come un Hooligan.»

«Io mi fido di Eret» rispose il giovane Capo. «È il mio braccio destro.»

«Il tuo bra-» Moccicoso si portò una mano alla bocca, scandalizzato. «Ma se non vale la metà di me!»

«Potrai dirlo solo quando sarai diventato più alto della mia cinta» rispose Eret, alquanto seccato. 

«Beh, a te gli dèi hanno donato l’altezza, a me il cervello» affermò l’altro con la sua tipica punta di superbia. «Me l’ha detto Valka.»

«E quando, cinque anni fa?»

«Seriamente spera ancora di abbordare la madre di Hiccup?» mormorò Tufo in direzione del suo quasi-cognato.

«Io posso» rispose fieramente Moccicoso, che aveva sentito ogni parola.

«Tranquillo, è solo un po’ più grande di te» puntualizzò il gemello dei Thorston.

«E saggia» aggiunse Gambedipesce.

«Bah! Siete solo invidiosi perché sono il suo favorito. Anzi, posso affermare con certezza che preferisce me alla sua stessa nipote, come futuro erede.»

«Ed ecco che ci risiamo...» Gambe poggiò i gomiti sul tavolo.

«Sentito?» Tufo si rivolse a Hiccup, puntando Moccicoso con il pollice. «Ce l’ha con la tua prole.»

Moccicoso mise il broncio e difese le sue ragioni con ardore: «Ormai è scritto. Lo sanno tutti che Hiccup avrà una valanga di figli e che mi uccideranno per avere il trono tutto per loro. Mi spiace per voi, marmocchi, ma è il Grande Moccicoso il prossimo nella lista di successione».

«Perché allora non mi uccidi subito, Moccicoso?» gli chiese Hiccup, con un sorriso bello sarcastico.

L’altro restò zitto un momento. «Troppo facile» rispose con aria da snob. «Diventeresti un martire.»

«Se, se...» fece l’altro, tornando a consultare la mappa di Eret. «Dunque, è interessante, come proposta. Voi che ne pensate?»

Gambedipesce rispose un po’ titubante: «L’idea di per sé è bella, ma... non è un po’ pericolosa?»

«Più che altro,» aggiunse Tufo, stavolta deciso a riflettere, «non credo ci converrebbe incontrare il gemellino pazzo di Drago Bludvist o un altro Grimmel per la strada... Capite cosa intendo.»

«Come abbiamo saputo, Grimmel aveva tre acquirenti, tutti famosi condottieri di tribù lontane» Eret cominciò a passeggiare attorno al tavolo, riflettendoci su. «Griselda la Grave e l’altro, Chaghatai Khan, si sono ritirati dopo aver subìto la sconfitta nell’ultima battaglia coi Draghi.» Si fermò. «Di Ragnar, invece, non abbiamo più notizie.»

«Com’è che conosci tutta questa gente?» Moccicoso s’insospettì, ed Eret invocò pazienza dall’alto: «Dicevo solo che non dovremmo incontrare ostacoli di questo genere, durante i primi viaggi».

Hiccup unì le punte delle dita e ponderò la questione con un atteggiamento che lo faceva sembrare più grande dei suoi anni. «D’accordo, Eret. Ci penserò su.»

Eret annuì con risolutezza e Moccicoso reagì come se avesse perso punti a una partita.

Testa di Tufo invece approfittò del silenzio per dare uno dei suoi numeri, sbottando al massimo con tutto il volume della sua voce:

«Io ci sto! Chi ci sta?!»

 

 

 

 

 

 

 

 

SCENA III

 

 

 

 

«Verso ovest...»

Fece scorrere le dita della mano destra sulla mappa, dispiegata sul grande tavolo dell’atrio davanti alla cucina. I disegni delle isole e i loro nomi si articolavano lungo la superficie di pergamena, arricchiti di contorni a inchiostro e macchie di colore.

Continuò sulla stessa linea, fino a raggiungere il punto che coincideva perpendicolarmente con il tracciato di una cascata in mezzo al mare, sotto la dicitura “Mondo Nascosto”.

Non sapeva la precisa collocazione della casa ancestrale dei Draghi, ma l’aveva immaginata, ragionata e abbozzata per avere un’idea di quale direzione prendere in un giorno futuro.

La bussola era l’occhio, sempre rivolto a occidente. 
Oltre il tramonto.

Fece un sospiro e proseguì, fino a portare i polpastrelli oltre i bordi del foglio.

Le parole di Eret continuavano a risuonargli in testa come se provenissero da dentro. Non dalla memoria, ma dalla parte più profonda dell’animo.

“Siamo Vichinghi!” gli aveva detto. “Non siamo fatti per restare fermi nello stesso posto! Andiamo a ovest, Hiccup. Andiamo a vedere cosa c’è al di là di ciò che vedono i nostri occhi. Tu non vuoi saperne di più?”

Per quanto cercasse di essere ragionevole, realista, lungimirante, previdente... nel suo sentire sapeva che, prima o poi, sarebbe partito.

Voleva andare per mare, scoprire, apprendere di più sulle bellezze della Terra. 
Era come un bisogno inesauribile, una fame insaziabile. Dalla prima esplorazione alla Riva del Drago all’ultimo trasloco sulla Nuova Berk, non aveva mai smesso di cercare.

Sì, sarebbe partito. Avrebbe lasciato casa per giorni, settimane o mesi interi, se necessario. Avrebbe sondato ogni costa, ogni marea, isole e oceani fino a raggiungere l’ignoto...

E lei?

Un pensiero s’insinuò nella corrente dei suoi piani.

Come farà, lei, senza di te?

Alzò gli occhi e portò lo sguardo sull’altra parte del tavolo, verso destra.

Zephyr stava disegnando, tutta concentrata mentre tracciava linee col carboncino e intingeva le dita nel colore liquido per passarle sul foglio di pergamena. Sembrava immersa nel suo mondo.

Ma soprattutto come farai tu, senza di lei.

Aveva già intuito cosa stesse combinando, ma decise comunque di chiederglielo perché adorava sentirla parlare. «Che fai, amore?»

«Un disegno» gli rispose, senza staccare gli occhi dal suo lavoro.

No, non ce l’avrebbe mai fatta a starle lontano per così tanto tempo.

Lei immerse la manina nella ciotola piena di colore rosso, la fece gocciolare e poi andò a schiacciare il palmo sul foglio per completare la sua opera d’arte.

«E cosa stai disegnando?» le domandò, ormai preso dalla curiosità.

Lei era dolcissima, nel modo in cui contemplava soddisfatta la sua ultima creazione, con quelle guanciotte da baci e quella frangetta color castagna lunga fin sopra gli occhi.

«Ho finito» dichiarò.

«Posso vedere?»

Lei acconsentì e gli passò il foglio sopra il tavolo, così che potesse guardarlo nella sua interezza.

Hiccup osservò la superficie ancora fresca con un sorriso di tenerezza. Le uniche cose ben riconoscibili erano tre figure umane stilizzate e un grande sole rosso in alto a destra.

«Questa sei tu?» le chiese, per avere chiarimenti.

«No, quella è la mamma. Quella lì, lì sono io... e quello sei tu» si allungò un poco per indicare meglio col ditino sporco di colore. «E quello è il bambino che è nella pancia della mamma.»

Hiccup curvò un poco la testa. «Ma è un maschietto.»

«Sì!»

«Come sei sicura che sarà un maschietto?»

«Perché...» ci pensò. «Perché io voglio un fratellino maschietto.»

«E se invece fosse una bambina?»

«Un fratellino femmina?»

Hiccup ridacchiò. «No, una sorellina. Se fosse una sorellina ci rimarresti male?»

«No, perché in realtà è un fratellino maschietto, e io gli darò un nome mio.»

«Proprio convinta, eh?»

Lei intrecciò le dita delle mani e si morse la bocca con gli incisivi.

«Mi piace, la tua convinzione» guardò ancora il foglio. «E questi qui in cielo sono uccelli?»

«No, no» rispose lei, scuotendo la testa. «Sono draghi.»

Hiccup la guardò, poi sorrise e alzò l’opera con entrambe le mani. «È bellissimo» le disse. «Questo lo appendiamo insieme agli altri, che ne dici?»

Lei annuì e lui le fece l’occhiolino. «Su» concluse. «Lavati le mani, che è ora di cena.»

Zephyr scese giù dallo sgabello per recarsi al catino dell’acqua. Hiccup guardò divertito quella testolina muoversi di corsa dietro lo spigolo del tavolo e andò al pentolone che aveva messo a scaldare sul focolare acceso.

«Che mangiamo, papà?»

Lui tolse il coperchio per scrutare nella bocca fumante del paiolo. «C’è la zuppa di verdure della mamma.»

Lei si voltò a guardarlo con un’espressione stizzita, lasciando le mani sospese a gocciolare. 
Come poteva, con tutte le cose buone che c’erano nel mondo, darle proprio le verdure?

«Che c’è?» le chiese, sentendola emettere un lieve grugnito.

«Non mi piacciono le verdure.»

«Come no?»

«Bleah!»

«Ma dai...»

«E non mi piace la minestra della mamma.»

Lui prese il mestolo di legno in mano. «Ma se l’hai sempre mangiata.»

«Beh certo, perché sennò si arrabbia» rispose lei con fare ovvio. «Ma a me non mi piace, è piena di cose strane che galleggiano.»

Lui trattenne una risata, nel vedere che era vero. «Ma no» disse, cercando di farle cambiare idea. «Non senti? Questa qui ha un profumo delizioso.» Allargò le narici e cercò di capire a quale sostanza somigliasse quell’odore. Non essendone certo, rimestò un poco col cucchiaio e ne assaggiò una piccolissima quantità, quasi una punta.

Era un’esplosione di sapori. Di quelli forti, però. 
Un sentore salato dal retrogusto dolceamaro, e poi qualcosa che somigliava a un ibrido tra un broccolo e una carota.

Strinse le labbra e cercò di ingoiare senza farsi vedere dalla figlia. 

Per tutti i draghi, Astrid, pensò, mentre il suo palato lo implorava per dell’acqua. Ma che cavolo hai messo in questa minestra? 

«È cattiva?» 

«No, è buonissima» dichiarò, cercando di bloccare la tosse. «La devi assaggiare.»

Lei aveva messo il broncio. «No.»

Hiccup si voltò e si schiarì la gola per ribadire le sue imposizioni. «La mamma ha detto che quando torna vuole trovare la minestra finita. Quindi noi la mangeremo. Tutta

«Non l’hai assaggiata, papà.»

«Sì, invece.»

«Ti ho visto. Ne hai presa una puntina piccola così!» lo accusò, mimando la quantità con il minimo spazio tra pollice e indice.

«Non è vero.»

«Sì che è vero.»

«Numi del cielo» roteò gli occhi e si avviò al tavolo con due ciotole piene.

Lei prese un bicchiere, si arrampicò sullo sgabello di prima e si portò in alto sulle ginocchia per versarsi l’acqua da sola.

Lui spostò da una parte quel casino di oggetti che c’era sul tavolo (quel tanto che bastava per lasciare lo spazio per mangiare), poi mise le ciotole ai loro posti, l’una di fronte all’altra, e aggiunse il pane e la birra fresca per sé.

«Allora?» la richiamò, visto che non accennava a prendere in mano il cucchiaio.

Lei restò a braccia incrociate a guardare la minestra nel piatto.

«Vuoi andare a letto senza cena?»

Lei annuì.

«Mi dispiace, ma devi mettere qualcosa sotto i denti o ti rigirerai nel letto per tutta la notte» prese in mano la posata e gliela puntò contro. «Mangia.»

«No.»

Hiccup le lanciò uno sguardo seccato. Come ci si comporta in questi casi?

«Ebbene?» domandò severo. «Chi è che comanda, qui?»

«Hm» lei ci pensò un attimo. «Mamma?»

Senti un po’ questa. Mi sono perso qualcosa, forse.

Ragionò qualche istante, e non gli venne in mente altra maniera per risolvere la questione che non fosse quella del metodo “alla Stoick”. Suo padre lo usava sempre, quando lui era piccolo.

«In qualità di capo,» esordì con tono autoritario, «ti ordino di mangiare quella minestra.»

Zephyr cambiò l’intensità dello sguardo e sciolse la presa delle braccia.

Per Thor, sta funzionando?

«La mangio se la mangi pure tu» propose lei, come ultima offerta.

«Ma io sto mangiando.»

«No, papà. Non hai ancora mangiato niente perché non ti piace.»

«Ho detto che è deliziosa. Adesso la mangiamo insieme, d’accordo?» raccolse una cucchiaiata piena e lei lo imitò. «Pronta?»

Zeph annuì, non poco preoccupata, e mise in bocca il cucchiaio solo quando poté accertarsi che lui avesse fatto la stessa cosa.

«Visto?» le disse, masticando lentamente. «Te l’ho detto che è buoniss...» ti tappò la bocca con una mano e poggiò il gomito sul tavolo per trattenere una spinta proveniente dallo stomaco, che si stava esplicitamente rifiutando di ingerire quella roba.

Zephyr si tappò la bocca con le mani e strizzò gli occhi, e nel vederlo fare la stessa cosa si mise a ridere con le guance gonfie di brodo.

«Non ridere!» la intimò, ma ormai era troppo tardi: lei stava gemendo per le risate e la situazione era talmente critica che non poté più trattenersi. Impiegò uno sforzo immane per deglutire e, una volta compiuto l’atto, buttò fuori la lingua e afferrò il bicchiere per sciacquarsi la bocca.

Lei stava ridendo così forte, davanti a quella scena, che il liquido le uscì fuori dal naso.

«Basta, non ce la faccio» dichiarò, cercando di riprendere fiato.

Zephyr tossì e sputò la quantità di minestra rimasta, un po’ alla cieca, sia nella ciotola che sul tavolo, e poi cercò di soffiarsi il naso con le dita. Guardò la mano sporca di muco e la pozza di minestra davanti a sé. «Che disastro...» disse.

Hiccup stava facendo i gargarismi con la birra. «Oh, miei dèi» anelò forte. «Questo brodo potrebbe uccidere un Grugno Zoppo nel giro di un minuto!»

«Papà?»

Si voltò e la vide, in quella situazione critica, quindi andò a prendere uno straccio pulito e l’aiutò a rimuovere i residui dal viso. S’inginocchiò per guardarla dal basso e cominciò a ridere, nel rendersi conto che aveva ragione lei: «Ti sei smoccicata tutta».

«Anche tu!» gli rispose, prendendo il panno e passandoglielo intorno alla bocca, sui baffi corti e sul pizzetto. Lui si lasciò ripulire per bene e poi le sorrise teneramente. «Mangiamo qualcos’altro, che dici?»

«Hm-hm» acconsentì. «Ma cosa?»

«Tesoro, questa è una questione di sopravvivenza. Per cui», si alzò in piedi, «cosa ti va?»

Lei lo guardò da seduta e rispose. Non usò né giri di parole, né mezze misure, e andò dritta al punto: «I dolcetti».

«I dolcetti...» puntò la dispensa. Forse non era proprio la cena ideale, ma aveva troppa fame per pensarci su. «Ci sto» disse.

Andò a prenderli e tornò con il vassoio di legno coperto da un panno di lino.

Non è che la stai viziando? gli chiese una vocina interiore.

Può darsi, si rispose, ma in fondo qualche volta ci voleva, uno strappo alle regole. Scoprì il tagliere bello pieno di panetti dolci e profumati: qualità garantita dal fornaio del villaggio.

Lei si leccò i baffi e allungò la manina verso la pietanza tanto desiderata.

«Ehi» la fermò, prima che potesse darsi alla consumazione più sfrenata. Lei lo guardò con occhi attenti, temendo qualche ammonizione, finché lui non mostrò inaspettatamente uno sguardo tenero, dando il primo morso.

«Mi raccomando» masticò. «Non dirlo alla mamma.»

 

 

 

*

 

 

 

Mettere a letto Zephyr Haddock era come cercare di ammansire un capretto imbizzarrito. 
Soprattutto perché i capretti, quando vanno di matto, cominciano a correre e a saltellare dappertutto. Anzi, ricordava di aver visto cuccioli di capra molto più tranquilli di lei.

Astrid aveva rinunciato a cantarle le ninne-nanne già da molto, molto tempo; Hiccup, invece, che per disperazione ci aveva provato di recente, una volta aveva finito per addormentarsi prima di lei.

C’erano solo due cose che potevano farle venire sonno: leggere un capitolo del Libro dei Draghi, oppure ascoltare una storia. Poteva essere una storia qualunque, sia di un episodio della mitologia, sia del ricordo di una delle tante avventure che avevano vissuto mamma e papà quando erano giovani Cavalieri di Draghi.

Lei si buttò a sedere sul letto che già indossava il camicione da notte, lungo fino alle caviglie. Afferrò il suo pupazzetto preferito, una sorta di Uncinato Mortale a quattro zampe che un tempo era appartenuto a Hiccup e che era poi passato a lei. Valka l’aveva dovuto rammendare in alcuni punti perché, da quanto era vecchio, col passare degli anni aveva subìto dei danneggiamenti.

«Dunque, signorinella che non dorme mai» cominciò Hiccup, sedendosi sul letto. «Cosa potrei raccontarti, prima di dormire?»

«Una delle vostre avventure nell’Arcipelago» esclamò con un sorriso frizzante. «La più pericolosa di tutte!»

«Uh, sono state tutte pericolose,» mise in chiaro, «dalla prima all’ultima. Vediamo, fammi pensare...»

Lei lo guardò riflettere, incrociando le gambe e dondolandosi avanti e indietro.

«Ti ho raccontato di quando siamo finiti per la prima volta sull’Isola della Melodia?»

«Hm...?»

«Sì, quando siamo finiti nella trappola di un Canto Letale e, dopo averla scampata in uno scontro con un Tamburo Furente, ne siamo usciti quasi del tutto sordi?»

Lei sghignazzò. «Perché sordi?»

«Perché il Tamburo Furente emette dei suoni fortissimi capaci di stordire, che dico, uccidere un uomo a poca distanza! Quel suono terribile entra nelle orecchie e danneggia tutti i timpani. Insomma, semplicemente, fa restare sordi per un bel po’ di tempo.»

Lei aveva messo le mani sulle orecchie, impressionata da quella descrizione. «E poi?»

«Insomma, durante il nostro primo viaggio oltre i confini di Berk ci capitò di finire nella trappola di un Canto Letale...»

«Che cos’è un Canto Letale?»

«È un drago pericolosissimo! Guarda, ti faccio vedere» si alzò per andare a prendere il Libro dei Draghi sullo scaffale e tornò a sedersi, sfogliandolo. «Ecco qui.»

Glielo passò e lei se lo posò fra le ginocchia piegate per osservare meglio le pagine. Portò l’indice sul titolo e lesse, molto lentamente: «Can-to Le-ta-le». Strinse i denti, adocchiando il disegno. «Perché si chiama così?»

«Lo abbiamo chiamato così perché questo drago aveva una sua tattica, per attirare le prede. Praticamente emetteva dei suoni particolari, simili a un canto, appunto, come quello delle sirene. In questo modo riusciva ad attirare gli altri draghi nel suo territorio, e a quel punto... tack!»

Lei sobbalzò.

«Li colpiva con uno sputo di ambra che li intrappolava in un bozzolo di pietra dura, impedendo loro di muoversi.»

«E poi?»

«E poi li lasciava lì e se li pappava tutti quando aveva fame.»

Zeph era inorridita e curiosa allo stesso tempo. Guardò ancora il disegno che ne riproduceva accuratamente le sembianze, un po’ spaventata dall’idea che fosse esistita davvero una creatura simile.

«Vedi che bel drago?»

«Sembra una farfalla colorata» disse stropicciandosi un occhio. «Però fa paura...»

«Beh, un po’ sì. Era gigantesco.»

A lei scappò uno sbadiglio.

«Quando il sonno arriva, eh?»

«Non ho sonno» ribatté lei, contorcendosi con le braccia per non dare a vedere le palpebre semichiuse.

«Come no... Su, dai, a nanna. Continueremo il racconto domani.»

Lei si portò indietro per raggiungere l’orlo della coperta e si fermò un momento prima. «Papà?»

«Dimmi.»

«Tu», stropicciò il pupazzetto, «vuoi fare altre avventure?»

Hiccup restò un momento senza parole: con tutte le domande che lei faceva ogni giorno avrebbe dovuto aspettarsi, prima o poi, un dubbio sull’argomento.

«Beh» cercò di essere sincero, ma neppure troppo concreto nella risposta. L’ultima cosa che voleva era farla preoccupare o, ancor peggio, ferirla.

«Può darsi» disse. «È probabile che un giorno andrò via per un po’.»

«E io posso venire con te?»

«Se sarai abbastanza grande, sì.»

Lei guardò giù. «Andrai sull’Isola della Melodia?»

«Non proprio...» sorrise appena. «Voglio andare a ovest.»

«È lontano, ovest

Lui prese fiato e rispose, cautamente: «Un po’».

«E cosa c’è, là?»

«Non lo so ancora. Dovrò scoprirlo.»

«Starai... starai lontano tanti anni?»

Hiccup la guardò un momento con il fiato sospeso. «Vieni qui» le disse un momento dopo.

Lei gattonò verso di lui e si mise seduta sulle sue gambe, lasciandosi stringere nel suo abbraccio. Lui le lasciò un bacio sui capelli e disse: «Non riuscirei mai a stare così tanto tempo lontano da voi tre».

«Allora pochi giorni?»

«Saranno piccoli viaggi, più o meno pericolosi, ma voglio che tu sappia una cosa.»

«Che cosa?» chiese, con la sua voce piccola e carica di innocenza.

«Che anche se qualche volta staremo lontani e ci mancheremo, io e te staremo sempre insieme.» 

«Sempre sempre?»

«Sempre» poggiò la guancia sulla sua testa. «Attaccati e appiccicati come una colla. Te lo prometto.»

«Appiccicati come l’appiccicaticcio del Canto Letale.»

«Esatto.»

Benché tutte quelle coccole la stessero facendo addormentare, Zephy non si trattenne dal dire quello che sentiva: «Ti voglio bene, papà».

Hiccup sentì stringere il cuore, ma non lo diede a vedere. Lo sguardo di quegli occhi blu e la dolcezza di quelle parole non avevano prezzo, per lui.

«Anch’io ti voglio bene» le rispose. «Ma solo un po’ di più.»

Lei gli lanciò un’occhiata di sfida, seppur velata dal sonno: «No, io di più».

«E io ancora di più.»

«E io più e più di te.»

«E io allora cento più in più dei tuoi.»

Lei si stava confondendo, ma diede la risposta finale: «E io centomiglia-migliardi in più di te».

«Va bene,» Hiccup scoppiò a ridere, «hai vinto.»

Lei assentì soddisfatta e andò a coricarsi. Lui l’aiutò a rimboccarsi le coperte e spense tutte le candele, tranne quella che stava sul suo comodino. Le diede la buonanotte con un bacio sulla fronte e uscì dalla camera, socchiudendo la porta.

Al piano di sotto c’era quell’atmosfera che lui amava tanto: il silenzio. Giusto lo sfrigolio del focolare e i rumori della notte ovattati dalle pareti di legno della casa.

Amava il silenzio e la solitudine perché gli avevano sempre permesso di riflettere e di liberare la mente, sin da quando era bambino. Era una condizione di cui aveva necessità, a volte: doveva staccarsi dagli altri e ritirarsi in compagnia di se stesso.

È più facile tirare fuori il meglio di noi e scendere alle conclusioni, quando si è da soli. 
È più facile guardarsi dentro.

Poi ci sono quelli che riescono a vedere oltre e che riescono a capirci anche nel mezzo del silenzio più assoluto. 
Con lui era sempre così: bastava uno sguardo per intendersi, come se ci fosse una connessione invisibile e indivisibile. 
Era semplicemente straordinario.

Ora che aveva molto su cui riflettere, più di quanto non facesse già per rimettere a posto i ricordi sparsi e ammassati nei cassetti della sua memoria, gli veniva spontaneo chiedersi come si sarebbe comportato il vecchio Stoick. Che cosa avrebbe detto.

Partire o non partire. 
Quando farlo, come farlo e quanto aspettare. 
Ne sarebbe davvero valsa la pena?

Il suo sguardo assorto slittò sulla parete.

 

 

 

*

 

 

 

«Stizzabifolco ha decisamente ragione» proferisce il Capo col suo vocione, allargando le braccia. «Questi sono stati i nostri migliori anni. Niente è più importante della pace: la pace tra di noi, la pace con i vicini e la pace con i Draghi.»

Sospiri amaramente e gli volti le spalle. Sulla parete è proiettata la mappa luminosa dell’Occhio di Drago, l’antico oggetto che campeggia in mezzo al tavolo del Consiglio nella Grande Sala, attorniato da Skaracchio, Sven, Stizzabifolco, Mulch e Bucket. Sdentato è a capotavola, con le ali tese e le zampe ancorate sugli spigoli come attivo partecipante della riunione.

«Ma, detto questo, lascia che ti chieda una cosa» continua Stoick rivolto al padre di Moccicoso, che a quel punto è messo sull’attenti. «Quando io e te quel giorno abbiamo avvistato Alvin, e tutto il Consiglio ci ha detto di lasciar perdere, che abbiamo fatto?»

«L’avete distrutto alla grande!»

«Grazie, Skaracchio.»

«Piacere mio» risponde il fabbro, dandosi una botta in testa con la protesi a martello.

Stoick poggia entrambe le mani sul tavolaccio: «Quando rapirono Valka e io corsi a cercarla, voi potevate fermarmi?»

«Beh» ribatte Skaracchio, «tecnicamente sei il Capo, quindi no.»

Stoick assottiglia gli occhi: «Bravo. Giusta osservazione, ma sai che cosa intendo».

Tu in realtà non lo capisci, che cosa intende. Forse. Continui a guardare le macchie luminose proiettate sul muro di pietra e sai che desideri andare là fuori con tutto te stesso. 
È il loro permesso, che ti serve.

«Voglio dire,» Stoick si volta e ti raggiunge, «pensate alla cosa più importante per voi. Chiedetevi onestamente quanto siete disposti a viaggiare per ottenerla. Cosa rischiereste?»

Eccolo qui. Poggia la mano sulla tua spalla e ti offre il suo sostegno. Ti giri e lo guardi, e guardi il suo sorriso.

«I Draghi sono al centro della vita del ragazzo» dice rivolto ai suoi consiglieri. «Così è, e così sarà per sempre. Non potrei impedirgli di andare neanche se volessi. Perciò», conclude, «sarà meglio appoggiarlo.»

Si volta verso di te e ti guarda, stringendoti le spalle con le sue grosse mani. Tu lo guardi incredulo, e sei talmente felice che non riesci a rispondere.

«Coraggio,» ti dice, «vai a vedere cos’è che ti sta chiamando. E quando lo troverai, Berk sarà sempre pronta ad accoglierti.» 

 

 

 

 

 

 

 

 

SCENA IV

 

 

 

 

Gli capitava ancora di sognarlo, il Mondo Nascosto.

Quelle notti in cui la mente si sentiva libera di riportare in superficie quei ricordi che alla luce del giorno sembravano svaniti.

E invece erano ancora lì, vividi e intatti.

Un rumore assordante d’acqua che precipita e vaporizza dentro il cratere che si trova esattamente ai confini del mondo.

Ribolle il magma, sotto di voi.

Tempestosa annusa l’aria e si lascia guidare dall’istinto. 
Lei sa qual è la strada da prendere.

Scende di quota ed entra in una grotta bassa. Ti tieni saldo ad Astrid e, guardandoti intorno nel buio, noti una luce bluastra prendere vita da sotto.

Masse luminescenti si muovono fluide sotto il pavimento d’acqua che si estende in quello spazio sotterraneo.

Non hai parole, non riesci a realizzare in quale posto ti trovi.

Alzi gli occhi, ed eccole: altissime, innumerevoli torri rocciose ricoperte di funghi bioluminescenti azzurri e verdastri.

Le squame di Tempestosa riflettono quei colori, e improvvisamente si ricopre di luce.

Astrid è attonita, e tu non puoi fare a meno di ridere per lo stupore.

«Guarda» dici indicando in basso.

Creature splendenti nuotano sotto di voi come grandi mante, verso il limite dello stagno che si affaccia sul paesaggio della Foresta di Funghi.

Nessuno prima è mai stato lì. A nessuno è mai stato concesso di varcare quel luogo proibito all’umanità. Così vivo, caldo e ancestrale.

Una rete di ampie cave, innumerevoli stanze e tunnel in cui si alternano stalattiti e stalagmiti floride di piante acquatiche.

Guglie, pinnacoli e formazioni rocciose su cui si trovano nidi pieni di uova ed embrioni che palpitano di vita.

Poi una costellazione infuocata si mostra sopra le vostre teste. Si muove, scende verso il basso.

Astrid sorride e allunga la mano per afferrare i piccoli Fiammalesta che volano e ronzano a migliaia attorno a voi. Alzi il braccio e ti illudi di toccarli, finché Tempestosa non scende ancora.

Vedi centinaia di cascate crollare dai cappelli piatti dei funghi millenari, cresciuti sulle imponenti colonne che si alternano nella stanza più grande, quella che verge alla luce dell’abitacolo centrale.

Vi scostate per non farvi vedere e atterrate in un punto nascosto dalla vegetazione. Tempestosa vi lascia e riprende il volo per unirsi ai suoi compagni di nascita.

«Esiste davvero...» mormori, muovendoti tra i diamanti e i coralli fino a raggiungere il punto che ti consente di avere una vista completa sull’Isola del Re, il cuore del mondo.

Astrid ti segue, circospetta, mentre tu ti meravigli davanti a quella moltitudine di rettili che danzano all’unisono verso il soffitto di quell’immensa caverna ricolma di luce.

Non ne hai mai visti così tanti in vita tua.

Soprattutto, non ti aspetti di riconoscerne uno, che si ferma a testa alta sul ciglio del precipizio accanto alla sua compagna.

«Sdentato...»

Ti alzi in piedi, ma la mano di Astrid blocca la tua azione sul nascere.

E a quel punto ti svegli.

 

 

 

*

 

 

 

«Sdentato...» 

I suoi occhi si aprirono e focalizzarono sulle linee delle travi del soffitto.

Si rese conto solo allora di aver parlato nel sonno.

Non che fosse la prima volta – era già successo –, ma l’idea lasciava comunque una sensazione strana; come se avesse vissuto da un’altra parte per molto tempo e si fosse risvegliato dopo anni nella vita reale, colto impreparato e alla sprovvista nel letto di quella camera in cui dormiva da ormai cinque anni.

Quel letto che era troppo grande per una persona sola.

Si girò su un fianco e si avvolse nel rumore vellutato della coperta, per poi finire col naso immerso nel cuscino. Fu in quel momento che si accorse di aver dormito ancora dalla parte di Astrid.

Lo faceva sempre, quando lei non c’era: prima allungava una mano verso destra e poi ci si portava sopra fino ad abbandonarvisi completamente. 
Non sapeva spiegare il perché, ma era come se quella parte riservata a lei trattenesse costantemente la sua presenza. 

La sua impronta invisibile sulle assi di legno, la stoffa del lenzuolo di lino stropicciata, l’odore dei suoi capelli sul guanciale.

Quegli strani unguenti dal nome sconosciuto che lei si passava sulle ciocche ogni sera prima di andare a dormire erano una carezza per l’olfatto. Un profumo che era diventato parte di lei e che gli teneva compagnia quando ogni sera andava stanco a coricarsi, quando lei lo abbracciava e gli chiedeva com’era andata la giornata, quando discutevano a bassa voce sui più vari argomenti, dai problemi del villaggio al puro senso della vita, oppure quando facevano l’amore al buio. 

Di quei momenti, ricordava, una delle parti migliori era andare a cercare su di lei quelle essenze e indovinarle. Soprattutto quando si mescevano al sudore, alla saliva, al caldo e al rumore dei baci che prendevano vita nei successivi, brevi istanti di eternità. 

Nessun paragone con nulla. Quei capelli che scorrevano come velluto e diventavano onde di torrenti in piena e...

Aprì un occhio e guardò lo sgabello e i mobili accostati alla parete.

Possibile che appena sveglio stesse già pensando ai capelli di sua moglie? 
Buon inizio: sempre meglio pensare alle cose belle, la mattina, e lui lo sapeva bene che forse, in quel posticino, anche morirci non gli avrebbe fatto male. 

Morirci. 

Ma che pensi a morire, tu, che oggi ne hai da fare più di cento? 

Aprì entrambi gli occhi e cacciò un sospiro. 

Il tempo di imbacuccarsi era rimandato. Prima c’era qualcuno a cui pensare. 

Mise giù il piede e il moncone che, sospeso a mezz’aria sotto la gamba sinistra dei pantaloni, attese di entrare nella protesi e di sentire il solito click della montatura. Allacciò lo stivale, si alzò con un andazzo che per un giovane di ventisei anni era tutt’altro che energico e si trascinò verso la porta, sbadigliando come un Incubo Orrendo colpito dalle prime luci dell’alba.

Si stropicciò gli occhi e si grattò la barba su tutta la lunghezza della mandibola, prima di aprire la porta e di dirigersi verso la camera adiacente.

«Zephy» disse con voce impastata, spingendo l’anta col palmo della mano. «È ora di fare colazione.»

Sbadigliò ancora ed entrò, senza fare caso al silenzio che riempiva l’intera stanzetta. Sembrava più un sonnambulo, che un uomo appena alzato dal letto.

«Amore, su» continuò. «Dai una mano a tuo padre, che oggi dovrà sgobbare come montone da carico...» si rese conto solo in quel momento che il letto era vuoto.

La coperta era disfatta e il camicione buttato sul cuscino. La tunichetta del giorno prima e calzoncini non c’erano.

Biascicò un poco e la chiamò ancora, mentre i suoi sensi cominciavano a svegliarsi. «Zephy?»

Niente.

«Ma per tutti i draghi...» si spalmò la mano sul viso, immaginandosi cosa stesse combinando già di prima mattina.

Andò alle scale e le scese, un gradino per volta, temendo che fosse uscita senza avvertire o che fosse successo qualcosa di funesto o terribile, e quando giunse finalmente nell’atrio si guardò intorno.

Vuoto.

«Hm» grugnì, ascoltando quell’aria così fastidiosamente tranquilla. La chiamò di nuovo, facendo tre passi verso il tavolo: «La signorina Zephyr Haddock è richiamata in cucina a fare colazione per volontà dell’ordine costituito», pronunciò ad alta voce, sentendosi uno stupido perché probabilmente lei non era nemmeno in casa. «Ogni atto di ribellione sarà punito», proseguì, «con il sequestro di dolcetti per dieci anni interi!»

A quel punto sentì uno scricchiolio piccolo piccolo provenire dal gruppo di mobili e cesti al di là del focolare di pietra.

Hiccup si versò il latte fresco in tutta calma e poi bevve a sorsi, poggiando le dita robuste sulla tavola ancora sporca delle briciole della sera prima. «Dove sarà finita, quella bambina?» andò al focolare e bevve ancora, distrattamente. «Ma se la trovo... Uh, se la trovo!»

Un lieve battito, in basso a destra. 

Guardò in quella direzione e abbozzò un sorriso, senza sapere che qualcosa – o qualcuno – lo stesse osservando in silenzio da sotto il mobile.

«Birbantella...» Andò a prendere la colazione nella dispensa: tortini ripieni di frutti di bosco, freschi di stagione, avvolti in pasta di pane morbida. «Si sta perdendo una colazione coi fiocchi,» prese la ciotola e l’annusò, «perché questi, ora, me li pappo tutti io.»

Zephyr poggiò le manine sulla bocca e si rannicchiò ancora di più sotto il mobile. «Oh, no...» mormorò.

«Oh, sì!» Hiccup ne assaggiò uno, tornando indietro con una risata malevola. «Sono tutti miei.»

Lei non si lasciò corrompere e si mosse furtiva, puntando i piedini avvolti dalle calze di lana e le maniche ingombranti della tunica con estremo silenzio.

Osservò il piede e la protesi di suo padre dirigersi ancora verso la dispensa, quindi approfittò per uscire allo scoperto e muoversi di corsa, svelta e agilissima, per andare a nascondersi dietro l’angolo che portava alle scale.

Si appiattì contro la parete, leccandosi il labbro con un sorriso birichino, poi prese a salire i gradini camminando all’indietro.

Hiccup udì subito gli scricchiolii provenienti dall’alto, e poi dal piano di sopra. Ormai allettato di giocare a nascondino, decise di fare la sua mossa.

Arrivò in fondo alle scale e, di fronte al silenzio totale, non poté non accorgersi del suo miglioramento nelle strategie furtive. «Sei furba, uhm?»

Arrivato in cima, cominciò a roteare l’indice per scegliere la stanza in cui cercare. Sinistra, ovviamente.

Varcò la soglia e incrociò le braccia, pronto a sferrare la sua arma senza muovere un dito. «Zephy?» la chiamò, senza ricevere risposta. «Ma dove si sarà nascosta, io mi domando. Certo che è proprio impossibile trovarla!»

Zeph ridacchiò silenziosamente, poggiando il mento sulle assi del pavimento sotto il lettone dei suoi. Era quasi completamente al buio, se non per lo spiraglio di luce che veniva dalla porta e che le permetteva di vedere la precisa posizione di suo padre.

«Beh, se è davvero furba come crede di essere, di certo non si è nascosta sotto il letto di mamma e papà» alzò il naso. «Lo sanno tutti – ma proprio tutti! – che lo spazio sotto il letto è il nascondiglio preferito dei troll...»

Zephyr trasalì, guardandosi intorno nell’oscurità, e le venne paura.

«Si nascondono sempre lì, al buio. E appena sentono un bambino entrare nella loro tana...»

Lei schizzò fuori, urlando. «Aiuto, aiuto!» fece due salti e andò a nascondersi dietro le sue gambe. «I troll!»

Hiccup sogghignò, poi la guardò mentre si aggrappava al suo ginocchio e puntava il letto con occhi spiritati.

«To’! Guarda chi c’è» le poggiò una mano sulla frangetta. «Trovata.»

«Ma... ma...» lei restò confusa. «Tu mi avevi detto che i troll hanno le tane nella foresta!»

«Infatti è così. I troll non entrano mai nelle case delle persone» le fece l’occhiolino. «Era uno scherzo.»

Lei spalancò la bocca, puntandogli il dito contro. «Barone

«Si dice imbroglione, mia cara.»

«Non è giusto!»

«Lo so, ho giocato sporco. Ma ora dobbiamo scendere a mangiare, che io devo uscire presto, oggi. Andiamo?»

Lei incrociò le braccia e s’impuntò. «Hmmm.»

«Hmmm...» si abbassò e la prese in braccio, indagando sul quel musino imbronciato. «Che sei, arrabbiata?»

Lei guardò dall’altra parte e non rispose.

«Lo sai, pulcino, che se non avessi usato il metodo della furbizia non sarei mai riuscito a trovarti?»

«Perché?»

«Perché sei sempre più brava a nasconderti. Di questo passo diventerai invisibile!»

Lei trasformò quella smorfietta in un piccolo sorriso. «Mi mimetizzo bene?»

«Assai» le schioccò un bacio sulla guancia e la rimise giù, e lei alzò il dito in aria: «Quando sarò più grande farò fuori tutti quanti i troll!»

«Ah sì?»

«Sì!» rispose lei, energica. «A cominciare da te!»

«Me?» drammatizzò Hiccup. «Mi stai dicendo che sono un essere peloso, brutto e puzzolente?»

Lei chiuse i pugni, divertita. «Soprattutto puzzolente!»

«Oh, beh, se le cose stanno così» la prese sottobraccio e la tirò su, facendola ciondolare a destra e a sinistra. «Allora fatti sotto!»

Lei si dimenò e cominciò a ridere il doppio quando lui la trattenne per la pancia, a testa in giù.

«Potere della mimitizzazioneeee

«Ti mimetizzo io, se non vieni subito a fare colazione» scherzò, trascinato dalle sue risate.

Lei buttò giù le braccia, come le scimmie appese agli alberi, mentre la frangetta e le trecce sfatte penzolavano sotto di lei. «Ho fame... tanta fame... fame quanto un troll!»

«Sì, ma... figliola,» sbuffò lui, avvicinandosi alle scale, «come fai ad avere tutta questa energia di prima mattina?» Fece il primo scalino, mentre lei continuava a ridere. «Spiegamelo.»

 

 

 

*

 

 

 

Non passò molto tempo, prima che la colazione – o meglio dire abbuffata – si concludesse. Hiccup guardò il cestello delle tortine rimasto vuoto e constatò che non era male, considerando che le aveva comprate il giorno prima.

«Allora,» disse iniziando a sparecchiare, «cosa farai oggi, con gli altri bambini?»

Lei scolò tutto il latte dal bicchiere e allargò le braccia: «Kaboom!»

«Kaboom, eh?» lui non seppe se ridere o preoccuparsi. «Mi raccomando...»

«Mi raccomando!» lo imitò lei, con la sua tipica pronuncia bambinesca. «Non distruggete il villaggio, non rubate dalla bottega di Skaracchio, non date fuoco al sederino di Testa di Tufo...» ormai sapeva quelle raccomandazioni a memoria.

«Non solo» aggiunse Hiccup. «Non andate da soli nel bosco, non mettetevi in situazioni pericolose e tu non allontanarti dal villaggio senza dir nulla» le puntò contro l’indice per enfatizzare sull’ultima parola.

«Hmmm» lei si stropicciò gli occhi con le dita.

«Poi, come sempre, fai la brava, non fare a botte con gli altri bambini...»

Lei storse la bocca: «Ma la mamma dice che...»

«La mamma intende dire che si può arrivare alle mani, ma solo quando necessario per difendersi.»

Lei restò zitta. Non era proprio quello che la mamma le aveva detto, in realtà. «Nemmeno con i pugni?»

«No.»

«Con l’ascia?»

«Tu non hai un’ascia.»

«Mamma ha detto che me la regalerà una!»

Lui si grattò dietro la testa, pensando a cosa dire: «Sì, ma l’ascia servirà per imparare a combattere, non per rivoltarsi contro gli altri bambini».

«Aaaah» rispose lei, che ora aveva le idee più chiare.

Hiccup non poté fare a meno di ripensare a quella volta in cui, quando avevano quindici anni, Gambedipesce aveva gridato contro Astrid dopo essersi beccato l’ennesimo pugno in piena pancia.

“Perché devi sempre essere così violenta?”

“Non è violenza” gli aveva risposto lei con grande stile. “È comunicazione.”

«E se qualcuno mi dice una parolaccia, oppure mi spinge, oppure mi dà un pugno?»

«Tu devi cercare di ragionare e restare nel giusto. Ricordatelo, Zeph: mai usare la violenza, perché non porta a niente, se non al peggio.»

Lei ragionò sul senso di quel discorso e lui le sorrise.

«Bisogna cercare di essere gentili, e questo vale con tutti» le disse. «Tranne che con Moccicoso, ovviamente...» scacciò l’aria con la mano. «Lui è un caso a parte.»

 

 

 

 

 

 

 

CONTINUA…

 

 

 

 

 

 

 

 

Sintesi illuminante | Zephyr Haddock è la primogenita di Hiccup e Astrid, comparsa per la prima volta nell’epilogo del terzo film. Durante questa vicenda, la sua età si aggira tra i quattro e i cinque anni. 

L’idea dei piccoli scout Thorston è ripresa dall’episodio Loyal Order of Ingerman (sesta stagione di Race to the Edge), quando i gemelli si sono prodigati nell’addestramento dei nipotini di Gambedipesce.

Griselda la Grave (Griselda the Grievous), Chaghatai Khan e Ragnar la Roccia (Ragnar the Rock) sono tre personaggi comparsi nel terzo film. 

L’episodio del Canto Letale accennato nel racconto di Hiccup e l’ultima scena sono ripresi da Imperfect Harmony, terzo episodio della prima stagione di Race to the Edge.

Il piccolo episodio ricordato da Hiccup è ripreso dalla serie I cavalieri di Berk, undicesima puntata (Heather Report, Part 2).

 

 

 

 

 

 

   
 
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