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Autore: SSJD    25/03/2019    7 recensioni
"Ho cercato di sottolineare che nelle nostre vite il caso può avere un'influenza sorprendente e, se posso offrire un consiglio al giovane operaio di laboratorio, sarebbe questo: non trascurare mai un'apparizione o un avvenimento straordinario. Può essere - di solito lo è, in effetti - un falso allarme che non porta a nulla, ma potrebbe d'altra parte essere l'indizio fornito dal destino per portarvi ad un importante progresso."
Primo classificato al contest “Ero lì quando…” indetto da Ghostmaker sul forum di EFP.
Genere: Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Novecento/Dittature
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Un giorno, per caso…
 

  
Londra, 28 Settembre, 1928
 
 
Giro la chiave nella toppa che scatta ogni giorno con sempre maggiore difficoltà. Dovrò olearla, un giorno o l’altro: l’umidità fa disastri in questo periodo dell’anno.
La porta si apre con un cigolio. Perfetto, anche i cardini sono da oleare.
Un pallido sole filtra da due piccole finestre, riscaldando leggermente la stanza.
Entro con la mia attrezzatura per le pulizie: un vecchio carrellino in legno con delle ruote ormai consunte, che mi consente di portare in giro un secchio pieno d’acqua e una ramazza per spazzare i pavimenti.
Questo è l’ultimo laboratorio che devo pulire stamane.
A dire il vero, tutte le mattine lo lascio per ultimo.
Il motivo è che proprio non lo riesco a sopportare l’odore di cui è pregno.
Vecchio.
Muffo.
Umido.
Il lungo tavolo di legno, disposto longitudinalmente rispetto alla piccola finestra che si affaccia sul cortile dell’università, è sempre pieno di basamenti di legno quadrati, necessari per sostenere in posizione verticale decine e decine di provette, molte vuote, molte di più piene di materiali che, ai miei occhi, sono sempre apparsi come schifezze: gelatine inconsistenti o incrostazioni che riempiono il fondo della maggior parte dei bulbi. L’estremità opposta viene chiusa di norma con un batuffolo di cotone. Inutile pensare che sia sufficiente ad evitare la fuoriuscita di odori quantomeno nauseabondi.
Sparsi qua e là sulla scrivania ci sono dei piattelli in vetro rotondi. Molti col coperchio, altri aperti. In anni che lavoro qui ho imparato parecchi nomi degli oggetti usati in questi laboratori. Ne prendo uno vuoto in mano e lo rigiro tra le dita.
‘Chissà se Petri avrà fatto molti soldi con questa stupida invenzione’, il mio unico pensiero mentre ripongo il contenitore sterile al suo posto, sulla scrivania, a fianco alla pila di altri dieci contenitori pieni di altrettante schifezze.
Esperimenti.
Pile di fogli.
Formule chimiche.
Non ho mai capito nulla del lavoro di questi cervelloni.
E soprattutto se uscirà mai qualcosa di veramente importante da questi laboratori.
Per ora c’è solo puzza, queste provette orribili e tanta, troppa umidità.
Passo un panno umido per togliere la polvere dalla scrivania. Lavoro totalmente inutile, visto che, sulla parete a fianco, qualcuno ha avuto la splendida idea di appendere una lavagna sulla quale, ogni giorno, trovo scritte cose differenti, delle quali ovviamente non comprendo alcunché, ma l’unica cosa che so è che qui dentro ci potrei passare le giornate a raccogliere chili di gesso. Se questo avesse un valore, a quest’ora sarei ricco!
Levo la polvere, raccolgo i cumuli di gesso sulla barra in legno alla base della lavagna, spazzo per terra e passo lo straccio. Ogni giorno lo stesso lavoro.
Oggi però mi devo essere perso in qualche pensiero in più, perché come uno stupido ho scordato di aprire leggermente la finestra per creare la corrente necessaria per far asciugare più velocemente il pavimento.
Pazienza.
Mi soffermo sulla porta e aspetto che le piastrelle in cotto, molte delle quali sbeccate in più punti, si asciughino.
Sbadiglio.
Sono parecchie notti che non dormo bene.
Giù alla Sinagoga dicono sempre che l’aria di Londra non fa bene a noi ebrei, abituati al clima eccezionale che c’è in Israele. Sarà, ma io sono nato e cresciuto qui. Cosa c’entra il fatto di essere ebreo col clima di Londra? Secondo me il cielo perennemente coperto e l’umidità fanno male a tutti, mica solo agli ebrei.
Mi stiracchio la schiena, che schiocca preoccupandomi non poco. Mi accendo una sigaretta e me la fumo in pace. I corridoi saranno vuoti ancora per un’oretta buona. Ho tempo di rilassarmi un pochino.
Osservo il laboratorio attraverso i fili grigi di fumo, che si diffondono dal brillio del tabacco, che si incenerisce via via. Ad osservare la stanza con più attenzione mi viene da pensare che, tutto sommato, ha un suo certo ordine, ma ci sono delle cose che fanno intuire che il proprietario non sia così maniaco della precisione.
L’armadietto in vetro appeso a fianco della scrivania, proprio di fronte alla lavagna, ha sempre l’antina aperta.
Cerco di dargli una pulita, ogni tanto, ma sembra sempre inutile. I vetri in pochi giorni si opacizzano di nuovo a causa della polvere, esattamente come quelli delle finestre. Inizio a pensare che giù alla Sinagoga un po’ abbiano ragione. Ma non è il clima ad essere ‘sbagliato’, è l’aria che è pesantissima e sporca.
Inspiro un'altra boccata e mi distraggo guardando uno scaffale su cui sono disposte decine di boccette di forme e colori differenti. Strano. Non avevo mai fatto caso a quel ripiano.
Sarà meglio dare una spolverata anche a quello, non appena il pavimento sarà asciutto. Non vorrei che ci fosse sopra una quantità di polvere tale da indurre qualcuno ad accusarmi di negligenza.
Sarebbe un disastro se perdessi il mio lavoro.
Soprattutto perché non saprei come mantenere mia moglie e i nostri quattro bellissimi figli.
 
Il pavimento è asciutto.
Getto la sigaretta a terra e la spengo con il tallone. Raccolgo il mozzicone e pulisco la piccola macchia nera, che lo spegnimento ha lasciato sul pavimento.
Recupero il panno umido dal mio carrello e mi avvicino alla mensola.
Solo in questo momento capisco perché l’ho sempre ignorata: è più alta di me di almeno venti centimetri.
Mi guardo intorno; il cervellone che lavora in questo laboratorio è più basso di me. Deve avere per forza una piccola scaletta o un rialzo per arrivare a questo ripiano.
Scovo uno scalino di legno nascosto in un angolo sotto la lavagna.
Lo prendo e ci salgo.
Ad una prima occhiata mi rendo conto della gravità della situazione: molte boccette hanno sopra talmente tanta polvere che nemmeno si riesce a leggere l’etichetta ingiallita dal tempo.
Chiudo gli occhi e sospiro.
Perché non sono in grado di far finta di niente?
Scendo dal gradino e mi procuro un secondo e un terzo panno pulito prendendoli dal mio carrellino in legno.
Risalgo sul rialzo di fortuna che ho trovato e, con infinita pazienza, inizio a pulire ad una ad una le boccette e, nel contempo, anche lo scaffale.
Leggo i nomi che appaiono sulle etichette consumate: mercurio cromo, ossido di zinco, permanganato di potassio…
‘Chissà a cosa serviranno’, mi domando osservando di tanto in tanto il contenuto colorato di ogni boccetta.
Le ripongo accuratamente sul ripiano, facendo attenzione a mantenere l’ordine che il legittimo proprietario aveva dato loro. La fila è lunga e sono costretto a consumare tutti i panni che ho preso dal carrello e a doverli sciacquare un paio di volte nel piccolo lavandino in ceramica posto in un angolo della stanza.
Sono quasi alla fine e, tra le varie bottigliette, scorgo qualcosa di diverso: una pila di Petri usati, che sta proprio in bilico sul bordo a destra del ripiano.
Probabilmente prendendo le varie bottigliette da detergere e rimettendole al loro posto, non mi sono accorto di averle spinte a poco a poco verso il fondo del ripiano. Per fortuna me ne sono reso conto prima che cadessero. Altrimenti, che disastro avrei combinato!
Mi allungo per prendere l’intera pila fra le mani e tentare di metterla in salvo, quando una voce alle mie spalle mi distrae:
“Posso aiutarvi?”
Volto leggermente la testa per vedere di chi si tratti e, sfortunatamente, perdo l’equilibrio e cado.
Cado sulla scrivania tirandomi dietro non solo parte delle boccette che stavano sul ripiano, ma anche tutti i Petri che tentavo di salvare, che si mischiano con quelli presenti sulla scrivania.
Il contenuto liquido rosso/arancio di una boccetta si sparge ovunque: imbratta fogli, imbeve i batuffoli di cotone, che fanno da tappo provvisorio alle provette, e sporca inesorabilmente di rosso molti dei supporti in legno delle stesse.
Credo di non avere niente di rotto e faccio per alzarmi, prestando attenzione a non mettere le mani sulle schegge delle poche provette che si sono rotte.
Mi metto in piedi di fronte all’uomo che è entrato domandandomi se avessi bisogno di aiuto.
Tengo il capo chino e non oso guardarlo in volto. Probabilmente sarà furibondo e mi farà licenziare.
Pochi secondi dopo, che mi sembrano un’eternità, contro ogni mia aspettativa, mi sento domandare:
“Tutto bene? Vi siete fatto male?”
Trovo il coraggio di alzare lo sguardo e di fissarlo negli occhi.
Ricordavo bene che fosse più basso di me.
Camice bianco impeccabilmente lavato, che nasconde solo in parte il completo beige che gli ho visto indossare molte volte. Camicia bianca e papillon, a completare l’eleganza che lo ha sempre contraddistinto, sin dai primi tempi in cui lo vidi iniziare a lavorare qui.
“Mi-mi disss-piace.” balbetto intimorito.
“Per cosa?” mi domanda facendomi un sorriso.
“Ho c-c-comm-bi-nato un pas-pas-ticcio…” rispondo riabbassando lo sguardo.
“Avanti, non prendetevela, sono cose che capitano a chi lavora sodo. Se uno sta tutto il giorno a poltrire su un sofà, grossi danni, se non a se stesso, non può provocarne, giusto? Mi date una mano a sistemare? Tutto sommato quel ripiano aveva bisogno di una ripulita. Inoltre non ho mai preso il coraggio a due mani, mettendomi d’impegno, a gettare le cose che non mi servono più. Avete altre aule da pulire o per oggi avete terminato?” mi domanda spiazzandomi leggermente.
“In c-che s-senso?”
“Scusatemi, forse non mi sono espresso bene. Volevo sapere se avevate altro lavoro da fare oggi, vi posso aspettare più tardi per aiutarmi a sistemare. Chiamerei un inserviente, ma siete già qui.” Mi spiega sorridente.
“Ah! No, sì, c-cioè, no… Ho f-f-finito, p-p-per oggi. P-p-posso s-s-sicuramente a-ai-aiutarvi.” Dannata balbuzie.
“Perfetto, Mr. Cohen!”
 
***





 
   
 
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