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Autore: Old Fashioned    02/04/2019    17 recensioni
Inverno del '44, la guerra volge alla fine. Due giovani assi della Luftwaffe si incontrano e sembrano trovarsi come le due metà di platonica memoria. Fra loro nasce immediatamente un'amicizia che presto diventa qualcosa di molto più profondo e intenso.
La guerra però non lascia scampo e i due sono chiamati a combattere un'impari lotta contro gli stormi di bombardieri che si susseguono sulla Germania.
Storia romantica, in cui amore, guerra e morte si intrecciano. Da leggere solo se piace il genere.
Prima classificata al contest Coincidenze perdute, appuntamenti mancati, scelte difficili: Sliding Doors Contest indetto da missredlights e Shilyss sul forum di EFP
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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AVVISO

Inclito lettore,
mi sento un po’ stupido a fare questa premessa, ma visti i tempi che corrono, temo che non me ne potrò esimere.
La storia che stai per leggere è narrata dal punto di vista di combattenti tedeschi della seconda guerra mondiale.
Per quanto senza dubbio non sia mancato chi più o meno segretamente non apprezzava il Nazionalsocialismo, puoi immaginare che questa non fosse la norma.
La gente perlopiù era convinta di quelle idee e cercava quotidianamente di metterle in pratica, esattamente come oggi si mettono in pratica quelle che attualmente sono considerate le idee giuste.
I protagonisti di questa storia reputano il Nazionalsocialismo un’ideologia egosintonica e mio obiettivo in quanto autore è quello di rappresentare i personaggi così com’erano e non spurgati o edulcorati da una correttezza politica che obbliga a proclami ideologici ogni tre righe.
Con ciò ritengo di averti avvisato: se vuoi dare un’occhiata ne sarò molto contento, ma se il mio modo di parlare di certi argomenti ti disturba, fa’ una bella cosa: non leggere e saremo più felici in due.








O VIANDANTE, ANNUNCIA AGLI SPARTANI…




La guerra volge alla fine, le potenze nemiche hanno trascinato l’umanità nella follia.



L’aria è fredda. È già buio, anche se è solo tardo pomeriggio.
Piove, tanto per cambiare. Uno scrosciare monotono da opificio, acqua che scorre sulle cose e le rende lucide al chiarore dei fari, poi sgronda e si raccoglie in pozzanghere sul suolo già fradicio.
Un Opel Blitz arriva traballando sulla strada sterrata, si ferma al margine della pista mantenendo il motore acceso.
Il caporale Klein osserva attento i militari che ne scendono, scorre volti e uniformi. Alla fine individua un paio di mostrine gialle con due gabbiani e sul viso gli compare un’espressione soddisfatta.
Raggiunge il nuovo arrivato, si mette sull’attenti, saluta. “Signor tenente, caporale Klein a rapporto!” annuncia con voce marziale.
Il tenente è praticamente un ragazzo. Alto per essere un pilota, pallido, dall’espressione seria. Occhi blu come porcellana. Saluta a sua volta e si presenta: “Tenente Friedrich Lützow.”
“Piacere di conoscerla, signore,” risponde il caporale, “ha fatto buon viaggio?”
“Tutto sommato, sì.”
Tutto sommato’ significa ‘nonostante i partigiani, le strade impraticabili, i posti di blocco e gli attacchi aerei nemici.’
Detto questo, il tenente gli rivolge uno sguardo vagamente interrogativo.
“Il comandante la vuole vedere, signore,” spiega il caporale, “mi segua, prego.” E si incammina verso un edificio dalle finestre oscurate.
Strada facendo, Klein si mette a parlare. “Le baracche che vede sono per le munizioni e gli approvvigionamenti, signore. I piloti alloggiano nella palazzina. Qui abbiamo una situazione relativamente tranquilla, capita solo ogni due o tre notti che si debba scendere nei rifugi. Sono là in fondo, a proposito.” Indica con la mano una vaga sagoma chiara nel buio.
Il tenente rimane in silenzio, forse è un tipo taciturno, o forse è solo troppo stanco per rispondere.
“Ho dato ordine di portare dentro i suoi effetti personali,” prosegue Klein continuando a camminare di buon passo. “Ora la accompagno dal signor maggiore, vuole sempre conoscere personalmente tutti i nuovi arrivati.”

Il maggiore Hirschmann è seduto alla scrivania nella stanza che gli funge da ufficio. Non arriva a trent’anni, ma la sua espressione sicura è quella di un uomo abituato alle responsabilità.
Si cresce in fretta in guerra.
Osserva attento il giovane subalterno, ascolta la sua presentazione. “Esperienze di combattimento?” chiede dopo una breve pausa meditativa.
“Otto mesi con il Terzo Stormo, signore”
“Ha esperienza con il Messerschmitt 109?”
“Pilotavo un Me 109 F.”
“Molto bene.” Hirschmann annuisce pensoso, il suo sguardo d’acciaio non abbandona il tenente. Dal suo giudizio dipendono tante cose: con chi volerà Lützow, che aereo piloterà, a quali missioni sarà assegnato.
Se sbaglia, rischia di far morire inutilmente il tenente Lützow o il pilota che volerà con lui.
Gli fa ancora alcune domande, le cui risposte sembrano soddisfarlo.
“Ho quel che fa per lei,” dice infine.
Il tenente si limita ad annuire, quindi rimane a fissarlo attento.
Alzandosi dalla scrivania, il maggiore spiega: “Il gregario del tenente von Kleist è caduto in combattimento due giorni fa. Ora lui è solo, quindi lei diventerà il suo gregario.”
Detto questo precede il nuovo arrivato in un salone e si dirige verso un gruppetto di piloti. “Von Kleist!” chiama.

Lützow osserva i colleghi con aspettativa, chiedendosi chi risponderà al richiamo.
Quello che si alza in piedi è un giovane falco spavaldo. Altezza media, fisico asciutto da spadaccino, spalle dritte e portamento marziale. Ha i capelli biondissimi e il viso da ragazzino. Gli occhi, di un azzurro straordinariamente intenso, sembrano al tempo stesso ardenti e gelidi. Fissa il maggiore Hirschmann in una muta richiesta di spiegazioni.
“Questo è il tenente Lützow,” dice il maggiore, “volerà con lei come gregario.”
Von Kleist si avvicina. Ha un’espressione attenta, concentrata. Sembra che da quella prima occhiata dipenda l’idea che si farà di lui.
Un attimo dopo gli rivolge un sorriso radioso. “Tenente Siegfried von Kleist,” si presenta. Tende con risolutezza la mano.
Lützow lo fissa a sua volta, sentendosi stranamente turbato. Lo smarrimento non dura che un attimo, poi anche lui declina le proprie generalità. Stringe la mano al giovane falco.

Il maggiore se ne va. “Così avrete modo di fare conoscenza,” dice, e scompare nel suo ufficio.
I due rimangono a guardarsi in silenzio.
“Chiamami Siegfried,” propone allora il tenente von Kleist.
Lützow ha un moto di sorpresa. “Siegfried?”
“È il mio nome.”
“Sì, ma...” comincia il nuovo arrivato. Vorrebbe dire che si sono appena conosciuti, che il regolamento dà indicazioni diverse per quanto riguarda i rapporti tra ufficiali, che tanta familiarità gli sembra fuori luogo, poi incontra lo sguardo carico d’aspettativa del collega e quasi si perde in occhi di cielo che non conoscono il dubbio. “Io sono Friedrich,” capitola. Tende di nuovo la mano, perché quella in effetti è una seconda presentazione, più intima ed esclusiva.
“Friedrich, molto bene,” risponde von Kleist stringendogliela con entusiasmo. “Hai già fatto voli di guerra, vero?”
“Sì.”
Siegfried sorride quasi con complicità, come se i voli di guerra garantissero l’accesso a una specie di confraternita. “Cosa pilotavi?” gli chiede subito dopo.
“Messerschmitt 109 F.”
Gli occhi di von Kleist si illuminano. “Un aereo meraviglioso!” esclama, “Veloce, potente, risponde magnificamente ai comandi. Se le valchirie decidessero di modernizzarsi, quelli sarebbero i loro mezzi.”
Friedrich sorride. “Dici?”
“Assolutamente. E se il buon vecchio Wagner fosse ancora fra noi mi darebbe ragione,” risponde l’altro con sicurezza. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiede: “Ti hanno già fatto vedere il tuo alloggio?”
“Veramente no,” risponde incerto Lützow. Si aspettava una discussione sugli aerei e quel subitaneo guizzo l’ha colto un po’ alla sprovvista. Come tutto quello che concerne il tenente von Kleist, del resto.
“Allora vieni con me. Se aspetti che ti accompagni Klein…”
Con un movimento agile Siegfried lo precede verso una scala che si perde nell’oscurità di un piano superiore. “Di sopra non c’è la luce,” spiega prendendo una candela da una mensola.

Un attimo dopo i due sono soli in un silenzio buio e raccolto. Gli unici rumori sono i passi e il frusciare delle uniformi, di tanto in tanto un respiro lieve.
Il crepitio del fiammifero che accende la candela è come lo sfrigolare di acciaio incandescente. La tenue luce dorata rende Siegfried una statua crisoelefantina, con occhi di zaffiro purissimo.
“I piloti dormono tutti qui?” chiede Friedrich. Una domanda qualsiasi, nel tentativo di ignorare il brivido che a quella vista gli ha percorso la spina dorsale.
“Sì, certo. Ci sono molte stanze.”
Von Kleist si incammina risoluto per il corridoio, Lützow lo segue un po' a distanza, come se volesse tenersi al di fuori di un’aura che percepisce potentissima e per tanti aspetti pericolosa.
Arrivano a una camera, il primo fa qualche passo all'interno e solleva la candela per illuminare meglio l'ambiente. Ci sono due letti.
“Io dormo qui. A te hanno assegnato l'altro.”
Friedrich si avvicina titubante. Qualcuno ha già portato su i suoi bagagli. Per un istante si sente in trappola, prova la vertigine dell'attimo senza peso prima che l'aereo si rovesci precipitando in vite.
Stabilisce di essere stanco per il viaggio, e che quello è il motivo dello strano turbamento che si sta impadronendo di lui.
Prende la valigia, la apre. La prima cosa che ne esce è un quaderno dalla copertina nera, seguito da un libro. Heinrich von Ofterdingen, di Novalis.
Siegfried si fa avanti incuriosito. “Ti piace leggere, vedo,” gli dice a bassa voce guardando da sopra la sua spalla. Forse è quella penombra intima che invita ad un tono di voce così sommesso. Il suo respiro caldo gli sfiora la nuca.
“Sì... è il mio passatempo.” Di nuovo quel brivido, e il cuore che salta un battito.
Il libro gli scivola di mano. Siegfried si china a raccoglierlo, glielo porge con un sorriso. I due si fissano negli occhi per un istante. Turbato, Friedrich si ritrae appena.
L'altro abbassa lo sguardo. “Scusa, io...” comincia, per poi interrompersi subito dopo. Appoggia il libro sul letto e fa un passo indietro.
“Forse è meglio che torniamo giù,” mormora Friedrich. E poi, per giustificare in qualche modo ciò che ha appena detto, aggiunge. “Fa... fa piuttosto freddo qui.”
“Già, scusa,” risponde l'altro, il tono è quasi di sollievo. “Ora torniamo giù.”
Il turbamento che ha invaso Friedrich, però, non scompare con la luce e il calore. Rimane come una sorda sensazione di disagio, che lo rende inquieto come accade di solito nell'imminenza di un combattimento aereo.
Vorrebbe proporre di unirsi agli altri, che stanno ancora conversando tranquillamente in gruppetti di tre o quattro, ma al tempo stesso ha l'impressione che tra lui e quel Siegfried si sia instaurato uno strano legame esclusivo, che non ha nulla a che vedere col rapporto che lo ha sempre legato ai colleghi.
È una sensazione sconosciuta, che gli fa paura e lo affascina al tempo stesso.

Si siedono su un paio di poltroncine, Siegfried raccoglie una rivista, cincischia un po’ con le pagine, la lascia ricadere. Si guarda intorno ed emette un sospiro che ha il tono del disagio. “Andiamo al bistrot?” propone.
Lützow sgrana gli occhi. “Al bistrot? Ma abbiamo il permesso di farlo?”
Siegfried lascia passare qualche secondo, poi risponde: “No. Non abbiamo il permesso.” Gli rivolge un sorriso spavaldo.
Essendo appena arrivato alla base, Lützow è imbarazzato. Sarà opportuno seguire quel falchetto temerario?
Ovviamente no, gli direbbero la ragione e il buon senso. Ma von Kleist lo sta fissando come se fosse assolutamente certo del suo appoggio e gli sta sorridendo con la complicità che riserverebbe a un vecchio amico. Si conoscono da meno di un'ora, ma Friedrich ha la sensazione di conoscerlo da sempre.
“Nel parcheggio c’è una macchina a disposizione degli ufficiali,” gli dice Siegfried cogliendo al volo l’attimo di esitazione, “se facciamo le cose per bene non se ne accorgerà nessuno.”

Un attimo dopo la vettura sta fendendo l’oscurità diretta verso il paese.
“So come evitare le strade pericolose,” dice Siegfried con sicurezza, e Friedrich si accorge che persino i partigiani non sono per il compagno altro che una sfida esaltante. “Non hai paura?” gli chiede.
Senza distogliere gli occhi dalla strada, von Kleist risponde: “Chi ha paura muore un po’ tutti i giorni. Io intendo morire una volta sola, possibilmente in grande stile.” Dà gas e la macchina balza in avanti nelle tenebre.
Lützow rimane in silenzio. In un certo senso quel ragazzo lo spaventa. È puro, intatto, affilato come una lama. “Vorrei vederti volare,” mormora. Pensa di averlo detto fra sé e sé, ma l’altro prontamente gli risponde: “Domani voleremo insieme.”
E poiché Friedrich non replica, sorridendo aggiunge: “Sono sicuro che saremo perfetti. Io sento che siamo nati per stare insieme.”
Friedrich si trova a deglutire turbato. “In che senso?” chiede a disagio. Poi offre: “Intendi come capopattuglia e gregario?”
Siegfried si limita a ridere, noncurante adamantina creatura. “Ma certo, proprio quello che volevo dire!” esclama divertito.

Il bistrot è un posto squallido, in cui pochi torvi avventori rivolgono ai due boche occhiate velenose.
Ma Siegfried è come luce pura di diamante e il livore che promana dalla sordida mescita non scalfisce minimamente il suo entusiasmo.
Ordina due birre in un francese lievemente appesantito dall’accento e si dirige a un tavolo invitando il collega a seguirlo.
“Parlami di te,” dice non appena sono seduti faccia a faccia. Lo fissa socchiudendo gli occhi, con i gomiti appoggiati sul tavolo e il viso fra le mani.
Friedrich esita. Sono risposte, quelle che vorrebbe. Perché sono in quel bistrot per esempio, a guardarsi negli occhi attraverso un tavolino traballante, a chiamarsi per nome come vecchi amici pur non sapendo nulla l’uno dell’altro.
“Io sto vicino a Potsdam,” comincia Siegfried, interrompendo il filo dei suoi pensieri, “e tu?”
“Berlino,” borbotta Lützow, ancora non del tutto libero dal disagio.
“Berlino è grande,” obietta l’altro.
“Vuoi sapere in che via abito?”
Von Kleist sorride. “Voglio sapere tutto di te.”
“Ma… per quale motivo?” sbotta Lützow, senza riuscire a evitare una punta di durezza nella voce.
Siegfried assume l’espressione costernata di chi si aspettava una carezza e invece ha ricevuto uno schiaffo. Abbassa lo sguardo sulla birra che l’oste gli ha controvoglia servito e risponde: “Voleremo insieme, il che vuol dire che rischieremo la vita insieme. Mi piaceva l’idea di diventare amici.”
Friedrich deglutisce e si deve impedire di spingere la mano a coprire la sua. “Hirschmann mi ha raccontato che hai perso il tuo gregario,” gli dice. Tiene la voce basa, come per una specie di pudore.
“Hans si è buttato in mezzo ai P-51,” mormora von Kleist senza alzare lo sguardo. “Se li è tirati addosso per difendermi.”
Lützow china a sua volta la testa. “Mi dispiace.”
L’altro rialza la propria con uno scatto risoluto, un lampo metallico gli indurisce per un attimo lo sguardo. “È morto da eroe,” replica asciutto.
“Scusami,” dice Friedrich dopo un po’, di nuovo resistendo alla tentazione di spingere la mano verso la sua.
“Scusami tu. Forse sono stato troppo precipitoso.”
Friedrich non risponde. Sta provando di nuovo la sensazione al tempo stesso esaltante e spaventosa dell’istante senza peso che precede l’entrata in vite. “Sto a Moabit,” si decide a dire infine, “mio padre fa l’operaio. Ho un fratello minore che è ancora nella Hitlerjugend e uno più grande che è nelle Waffen-SS.”
Siegrfied stringe appena gli occhi, come se ognuna di quelle notizie gli procurasse un enorme piacere. “E tu come mai non sei nelle Waffen-SS?” gli chiede.
Friedrich sorride. “Per lo stesso motivo per cui anche tu sei nella Luftwaffe, credo.”
“Davvero? Quale pensi che sia?”
“Un pilota non può parlare delle meraviglie del cielo nemmeno all’essere più amato.”
Siegfried sorride a sua volta. “Ma a un altro pilota sì,” risponde fissandolo negli occhi.

Parlano a lungo, incuranti dei francesi che li guatano rancorosi come potrebbero esserlo della terra quando sono in volo.
Ma l’ora si fa tarda, devono rientrare. La macchina divora la strada a malapena illuminata dai fari oscurati.
Finalmente compare la base, un insieme di sagome scure che si intuisce contro un cielo nero e opaco. La sentinella all’entrata si china appena per scrutare chi è alla guida, poi salutando annuncia: “Signore, il maggiore Hirschmann vorrebbe vedere lei e il tenente Lützow nel suo ufficio immediatamente.”
“Certo, grazie,” risponde von Kleist impassibile. Poi a bassa voce, proseguendo verso il parcheggio: “Maledizione.”
“Problemi?” s’informa Friedrich.
“Altroché,” risponde l’altro, ma nella voce si coglie già di nuovo la consueta nota di spavalderia. “Hirschmann mi aveva ordinato di smettere con le gite al bistrot.”
“Allora siamo nei guai!”
“Temo proprio di sì.”

Il maggiore Hirschmann in effetti è furente. “Von Kleist!” tuona non appena i due sono sull’attenti davanti alla sua scrivania, “Le avevo espressamente proibito queste sue uscite notturne!”
Ne silenzio greve che fa seguito alle sue parole, d’impulso Friedrich dice: “Signore, la colpa è mia. Sono stato io a chiedere al tenente von Kleist di portarmi in paese.”
“Stia zitto, Lützow,” replica l’altro duramente, “Quando vorrò la sua versione dei fatti gliela chiederò.”
Poi, rivolgendosi di nuovo a von Kleist, prosegue: “Lei è un irresponsabile, un incosciente! Poteva cadere vittima dei partigiani, poteva essere preso prigioniero! Senza contare che ha violato i miei ordini! Cos’ha da dire a sua discolpa?”
“Niente, signore.” Non c’è niente da dire, obiettivamente. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma l’ha fatto ugualmente. Voleva solo far divertire un po’ Friedrich. Sul suo volto liscio compare un impercettibile sorriso.
“Non c’è niente di cui essere soddisfatti,” lo riprende Hirschmann notando il cambio d’espressione. Si volta poi verso l’altro e dice: “Lützow, sono costretto a constatare che lei non ha esitato ad assecondare la deprecabile insubordinazione di von Kleist.”
“Sono stato io a chiedere a von Kleist di accompagnarmi in paese, signore. Lui non voleva,” ripete Lützow impassibile.
“Ma non è vero!” interviene con slancio Siegfried, a dispetto di ogni regolamento, “Sono stato io a convincere il tenente Lützow a venire con me. Gli ho fatto credere che fosse una cosa consentita!”
“Basta!” ruggisce il maggiore.
I due si zittiscono di colpo.
“Consegnati entrambi, sospesa la libera uscita fino a nuovo ordine.”

“È andata bene, temevo che ci avrebbe proibito di volare,” dice Siegfried mentre si dirigono al loro alloggio. L’altro rimane in silenzio.
“Perché ti volevi prendere la colpa, Friedrich?” chiede allora von Kleist.
Lützow si volta verso di lui. Già, perché? La domanda per il momento non ha risposta. Non ama le bravate e la spavalderia fine a se stessa, mai nella sua vita avrebbe pensato di addossarsi la responsabilità di un atto di insubordinazione commesso da qualcun altro, soprattutto se inutile e sciocco come andare al bistrot per il solo gusto di farlo, eppure quando ha visto il compagno minacciato non ha potuto evitare di intervenire in sua difesa. “Forse ho preso molto sul serio il mio ruolo di gregario,” risponde quando il silenzio diviene troppo pesante. Una battuta per dissipare la tensione, ben lontana però dal descrivere il reale stato delle cose. Quello del gregario è solo un ruolo, e come tale è asettico e impersonale. Nulla a che vedere con l’empito selvaggio che si è letteralmente impadronito di lui quando ha visto il maggiore aggredire Siegfried.

Una volta in camera, von Kleist fissa il collega con occhi brillanti. “Però ne è valsa la pena, vero?” gli dice sorridendo.
Per il tenente Lützow, serio, riflessivo, decisamente portato a considerare la guerra come una sacra missione, la risposta dovrebbe essere inequivocabilmente negativa, tuttavia non ha cuore di raffreddare l'entusiasmo del collega, che invece sta ancora assaporando l'ebbrezza di una sfida che nonostante tutto considera vinta.
“Ci siamo divertiti,” risponde pacatamente. Comincia a spogliarsi per andare a letto. È molto tardi e il sonno è vitale per un pilota da caccia.
“Non vorrai dormire,” protesta Siegfried incredulo, “abbiamo ancora milioni di cose da dirci.”
Friedrich gli rivolge un sorriso, ma rimane in un silenzio pensoso. Avverte la sensazione di essere su una soglia, indeciso se varcarla o no. Cosa significherà concedere a Siegfried la confidenza che sta chiedendo? A cosa porterà? Lo fissa di sottecchi: l’unica luce della stanza è una candela e il giovane pilota è di nuovo una statua crisoelefantina, dagli occhi accesi di un fuoco che senza fatica potrebbe bruciare entrambi. Ha sempre sentito dire che le persone sono come la luna, hanno un lato oscuro che non mostrano mai a nessuno, eppure Siegfried gli pare la negazione vivente di quella massima. È come un sole: non c'è nulla di umbratile in lui, nulla di ambiguo. Chiede ciò che desidera con la serenità di chi non ha nulla da nascondere. Forse è per quello che in sua presenza avverte così forte il rischio di perdere il controllo.
“Fammi dormire, Siegfried,” lo implora in un estremo tentativo di difesa, “è dall’alba che sono in piedi.”
Von Kleist aggrotta per un attimo le sopracciglia, poi annuisce e l’espressione spavalda si spegne in una via di mezzo tra delusione e imbarazzo. “Certo, scusami,” gli dice, quindi senza aggiungere altro gli volta le spalle e comincia a spogliarsi.

Rannicchiato sotto le coperte, le spalle rivolte al compagno, Siegfried fissa la tenda che oscura la finestra, cercando di immaginare il cielo al di là della cortina di stoffa. Sa che è coperto, se si concentra riesce anche a percepire lo scrosciare fioco della pioggia.
Gonfia il petto in un sospiro, ma poi lascia uscire il fiato più adagio che può per non farsi sentire.
In cielo è tutto facile, sa in ogni momento cosa fare. Non ha bisogno di pensare, non succede mai che una sua azione abbia un risultato diverso da quello atteso.
A terra le cose non sono così facili.
Ripensa a Friedrich. Non è molto abituato a dare un nome ai propri sentimenti, ma gli è chiaro che quelli che prova per lui sono tutti positivi.
Avverte un'istintiva attrazione nei suoi confronti, un'attrazione strana, che fino a quel momento non aveva mai provato per nessun altro. Nemmeno a quella sa dare un nome, ma sa che è talmente intensa che quando è in sua presenza gli risulta quasi impossibile controllarsi.
Si rannicchia più strettamente, come per impedirsi di compiere qualsiasi movimento verso di lui, e chiude gli occhi tentando di abbandonarsi al sonno.

L’alba è una gloria barocca di nubi, indaco e porpora e oro contro un cielo di cupo zaffiro. Gli aerei, dodici caccia dal muso aguzzo, sono già allineati e pronti.
Il maggiore Hirschmann spiega la missione: “È in arrivo da nord-ovest uno stormo di Möbelwagen,, con parecchi Indiani di scorta. Intercettatene più che potete e tornate al Gartenzaun per il rifornimento tutte le volte che ne avete bisogno. Il primo che si fa coinvolgere in un duello coi serbatoi mezzi vuoti o le armi scariche lo prendo a calci nel sedere personalmente, se sopravvive agli americani.” Detto questo si volta verso Lützow. “Stia dietro a von Kleist e non faccia di testa sua,” gli ordina.
“Stia tranquillo signore,” risponde il tenente lanciando uno sguardo al collega. Questi sorride socchiudendo gli occhi come un gatto che riceva una carezza. Ci manca solo che si metta a fare le fusa, pensa Hirschmann con una strana sensazione di disagio.

Dopo essere stati congedati dal maggiore, i due si dirigono ai rispettivi aerei, due Messerschmitt 109 F che portano gli identificativi di Rosso Tre e Rosso Quattro. “Andiamo, Friedrich!” lo incita Siegfried, che non vede l’ora di involarsi. Il suo sguardo brillante è fisso sul cielo. Sta valutando le condizioni meteorologiche, vento, visibilità, nubi, temperatura. Aria calda al carburatore a basso regime? Sì, altrimenti c’è rischio di fare ghiaccio. E sarà possibile mantenersi a 2000 metri in mezzo a quei banchi di nubi stratificate?
Friedrich effettua le stesse valutazioni. Nell'imminenza di un combattimento il cielo perde la sua magia per trasformarsi in una serie di variabili fisiche il cui esatto rilevamento è determinante per la sopravvivenza.

Poco dopo tutto lo stormo è in volo diretto a nord-ovest. Lützow è già al suo posto, dietro e più in alto rispetto a von Kleist. Dalla posizione che ha assunto e dalla disinvoltura con cui la mantiene si vede che conosce bene il mestiere.
Tutta la caccia della Luftwaffe si basa del resto sul sodalizio capopattuglia-gregario. Il primo attacca, il secondo gli copre le spalle, in un’efficiente e letale suddivisione dei compiti.
Improvvisamente nella frequenza radio si ode un grido: “Pauke, Pauke!”
Qualcuno delle Staffel più avanzate ha avvistato il nemico e ha dato il segnale d’attacco.
Friedrich controlla il cielo e anche lui li avvista quasi subito: grossi Viermot verde oliva, sicuramente B-17. Tutt’intorno guizzano nervose le ali d’argento dei caccia di scorta.
La voce calma del maggiore avverte: “Möbelwagen a ore 11, Hanni 2000 o 2500!”
Ed ecco che il falco parte in caccia. Motore, picchia leggermente per prendere velocità, compie una larga virata e si porta in coda al più avanzato dei nemici. La manovra è disarmante nella sua semplicità, due raffiche ed è finita. Il Mustang, uno squalo lucente, si rovescia e precipita verso il suolo.
Siegfried si sgancia, si mette sulla traiettoria dei Viermot. L’unico modo per attaccare le Fortezze Volanti è di fronte, da ogni altro lato sono armate troppo pesantemente. “Stammi dietro, Lützow!” grida.
“Eccomi, von Kleist!”
I bombardieri si avvicinano a velocità vertiginosa, quasi 500 chilometri all’ora, che naturalmente vanno sommati ai quasi 700 dei caccia. Il che significa che Siegfried ha pochi istanti per mirare, sparare una raffica e cabrare evitando l’onda d’urto e i detriti. Friedrich, dal canto suo, deve avere riflessi fulminei per cogliere l’attimo della cabrata, o si schianteranno l’uno contro l’altro.
Von Kleist punta un B-17 e dà tutto motore. Gli scarica addosso le mitragliatrici. Niente di personale, è la guerra, pensa vedendo l’equipaggio sobbalzare e cadere sotto i suoi colpi, del resto voi state andando a scaricare tonnellate di bombe sulla mia Patria.
Una frazione di secondo: colpisce, si sgancia, cabra. Lützow è alle sue spalle come se stessero volando livellati e in linea retta.
Siegfried cerca un’altra preda, sopraggiunge un caccia nemico. Friedrich lo avvista, guizza rapido a intercettarlo proteggendo il suo capopattuglia dalle micidiali raffiche. Questi intanto è già sulla dirittura di un altro bombardiere. Spara, si sgancia, cabra schizzando nell’azzurro inseguito da nugoli di traccianti. Sembra semplicissimo, come il salto mortale di un trapezista. Ci sono dietro lo stesso allenamento e lo stesso rischio.
Il bombardiere esplode.
Il Mustang colpito da Lützow plana frattanto malamente verso la pianura francese emettendo fumo nero.
“Ben fatto, Friedrich!” esclama Siegfried, leggermente ansimante per la brusca manovra, “Questo abbattimento è tuo!”
Non sente neanche la risposta del compagno, è di nuovo all’attacco di un Viermot.
È arrivato nel frattempo un altro stormo a dare man forte a quello di Hirschmann e il cielo sembra letteralmente ribollire di aerei. Gli unici che si staccano da quella mischia furiosa sono i caduti, americani e tedeschi, che precipitano verso terra.
La battaglia finisce con l’ultimo bombardiere. I caccia nemici rimasti invertono la rotta per tornare alle loro basi inseguiti dai Messerschmitt.
L’aria è resa opaca dal fumo dei relitti che stanno bruciando al suolo. Ecco delle bombe che non uccideranno civili inermi.
Nessuno sorride, però. Non è più il tempo. Finita l’epoca dei duelli onorevoli, ora è macello e basta. E l’atroce consapevolezza di essere come una roccia nel mare, salda ma impotente ad arrestare la rovina.

Se von Kleist pensa questo, di sicuro non lo dà a vedere. Balza fuori dal suo aereo con la consueta energia, si sfila il casco e scuote la testa come un puledro nervoso. Per prima cosa cerca con gli occhi Friedrich, e trovatolo s’illumina in volto. “Sei un magnifico Rottenflieger!” esclama entusiasta, “Stupendo, il migliore che abbia mai avuto! Incollato al mio aereo come un francobollo!”
“Ho cercato di fare del mio meglio,” risponde Lützow pacatamente, “ma non è stato facile, tu voli come se in un Me 109 ci fossi nato.”
L’altro sorride, gli si avvicina. “Oh, ero sicuro che saremmo stati perfetti insieme. Siamo talmente in sintonia io e te! Ti potevo quasi sentire, sai, lì dietro mentre mi proteggevi le spalle.”
Si scambiano una lunga occhiata silenziosa, che si interrompe solo quando il meccanico fa rispettosamente sapere al tenente von Kleist che la semiala destra è stata trapassata in più punti dai detriti di un’esplosione.
“Già, mi pareva di aver sentito qualcosa di strano mentre mi allontanavo dall’ultimo bombardiere,” commenta Siegfried noncurante. Va al suo aereo, osserva gli squarci con espressione vagamente divertita, poi si informa: “Può volare?”
“Lo sistemeremo per domani, signor tenente.”

Il resto della giornata trascorre in voli di guerra. Con un altro aereo, Siegfried decolla più volte insieme a Friedrich per missioni di Caccia Libera alla ricerca dei P-51 americani.
Rientrano dall'ultimo volo in corsa con le effemeridi, così esausti che quasi barcollano mentre si dirigono verso la palazzina che funge da alloggio per i piloti.
“Di solito non rimango su così tanto,” confida von Kleist al collega, “gli americani dopo una certa ora se ne vanno e diventa difficile trovare un avversario, ma oggi non sarei mai sceso.”
“Perché?” gli chiede Lützow.
L'altro si ferma, lo fissa negli occhi. È come se in un certo senso la domanda lo stupisse. “Perché tu eri con me,” gli risponde. Sparito lo sguardo spavaldo e vagamente canzonatorio, sul suo volto pallido di stanchezza si legge solo una commovente espressione di affetto. “Non ho mai volato così con nessuno,” gli dice poi, quindi riprende a camminare, distaccandolo di qualche passo come se quella confessione l'avesse imbarazzato.

“Dicevi sul serio prima?”
“Cosa?”
“Che non hai mai volato così con nessuno.”
“È la verità. Tu ed io sembriamo nati per volare insieme. Oggi avevo quasi l'impressione che tu mi leggessi nel pensiero.”
Sono nella loro stanza, l'unica luce è il fioco bagliore delle stelle, appena sufficiente a disegnare i contorni delle cose. Sdraiati nei rispettivi letti, faticano a prendere sonno nonostante la stanchezza.
“Neppure io ho mai volato così con nessuno,” dice Friedrich dopo un silenzio.
“Sul serio?”
“Certo. Tu sai davvero tenere in mano un Messerschmitt 109. Vorrei pilotare come te.”
D'impulso ognuno dei due tende la mano verso l'altro. Le dita s'incontrano nel buio con sicurezza, s'intrecciano salde.
“Io e te dobbiamo stare sempre insieme, Friedrich.”
In risposta, Lützow si limita a stringere più forte la presa.

I giorni che seguono sono di fuoco e acciaio, di sangue e morte.
Arrivano i bombardieri da ovest, in stormi che oscurano il cielo. I combattimenti sono furiosi, i caccia della Luftwaffe mietono vittime, ma abbattere i nemici serve solo a farne arrivare altri, mentre diventa sempre più difficile rimpiazzare i tedeschi che cadono. Ogni battaglia porta con sé l’angosciante consapevolezza che nessuno sforzo, nessun sacrificio sarà più sufficiente, le difese saranno infine travolte e la spaventosa marea dilagherà inghiottendo ogni cosa.
Von Kleist e Lützow sono in volo dall’alba al tramonto, muovendosi in perfetta e letale sincronia nei cieli sconvolti dai continui combattimenti. Evocano l’immagine di cavalieri teutonici che fronteggiano orde di infedeli.
Le loro croci nere insegnano il rispetto alle stelle bianche.

Le sagome scure dei Messerschmitt 109 si stagliano contro un cielo che ha tutti i toni del rosso. Un vermiglio aranciato laddove il sole è scomparso dietro l’orizzonte, che più in alto digrada lentamente verso lo scarlatto e poi il cinabro. La volta celeste è già nera, punteggiata qua e là di fioche stelle.
Atterrato da poco, Siegfried è appoggiato all’ala del suo aereo come se non si risolvesse ad abbandonarlo. Tutt’intorno i meccanici lo fissano in rispettoso silenzio, pronti a rimorchiare il caccia nell’hangar non appena il signor tenente si sposterà.
Friedrich nota la scena e si avvicina.
“A cosa pensi, Siegfried?”
L’altro si volta verso di lui, gli sorride. “Guardavo il cielo.”
“Non l’hai già visto abbastanza per oggi?”
“Mai abbastanza.”
Il collega lo prende delicatamente per una spalla. “Vieni, andiamo dentro. Gli uomini neri devono lavorare.”
Siegfried si lascia condurre via con insolita docilità. “Grazie, Friedrich” dice appena sono in camera.
“E di che?”
“Sei sempre così premuroso con me.”
“È normale, sono il tuo gregario.”
“Ora non siamo in volo,” replica Siegfried facendo un passo verso di lui.
L’atmosfera si fa elettrica, Friedrich sente il cuore saltargli un battito. Ecco di nuovo la soglia, e questa volta sta per varcarla. Sa che lo farà, e che non ci sarà ritorno.
L’altro gli si avvicina ancora. Ansima leggermente, come durante le manovre acrobatiche più impegnative, e la poca luce rende i suoi occhi simili a pozzi profondi circondati da un anello di ghiaccio.
Ora sono uno di fronte all’altro. Si fissano in silenzio. Infine von Kleist mormora: “Sai qual è l’unica occasione in cui Siegfried – quello della mitologia, intendo – ha paura?”
“No, quale?”
“Quando si innamora.”
Lützow deglutisce a vuoto. Apre la bocca come per parlare, ma non ne esce alcun suono. La consapevolezza è come un lampo doloroso: lui prova gli stessi sentimenti, solo che Siegfried è più temerario e ha parlato per primo.
Solleva una mano adagio, con cautela, muovendola come se fosse pesantissima. Va a sfiorare con una delicata carezza la guancia liscia del compagno, che a quel tocco socchiude gli occhi accennando a un sorriso.
Un attimo dopo si ode all’esterno un ululato stridente. “A terra!” urla Friedrich. Fa appena in tempo ad afferrare von Kleist e a gettarsi al suolo, poi la finestra esplode in un uragano di fuoco e schegge di vetro.
“È un’incursione aerea!” esclama subito dopo, “Dobbiamo andare ai rifugi!”
“Dannazione, proprio adesso!” protesta Siegfried, ma in un attimo è di nuovo in piedi, e assicurandosi che Friedrich lo segua si butta nel corridoio già pieno di gente.
All’esterno lo spettacolo è spaventoso.
Le bombe scoppiano tutt’intorno, sollevando fontane di terra e detriti, i bengala rischiarano il cielo con la loro luce livida, conferendo a ogni cosa oscillanti ombre violacee. Hirschmann è in piedi in mezzo al piazzale, Klein corre sostenendo un ferito, un aereo scompare in un’esplosione accecante, qualcuno sta gridando da qualche parte. Poi l’antiaerea del campo entra in azione e al boato cupo delle bombe si sovrappone il latrato secco dei cannoncini Flakvierling 38.
Chiusi nel rifugio assieme agli altri, rabbiosamente impotenti, i due possono solo aspettare. Si scambiano qualche occhiata ogni tanto, soprattutto in occasione degli scoppi più forti. “Purché non facciano saltare in aria i nostri aerei…” mormora Siegfried, rivolgendo uno sguardo come d’intesa a Friedrich.








Il gergo della Luftwaffe

Möbelwagen: letteralmente, il veicolo adibito al trasporto dei mobili durante i traslochi. Indica un bombardiere pesante.
Indiani (Indianer): i caccia di scorta ai bombardieri.
Gartenzaun: il recinto. Indica la base che ospita lo stormo.
Pauke! Pauke!: letteralmente “Picchia, picchia!” (nel senso di una mazza che picchia su un tamburo, dal verbo pauken). Era il richiamo di chi avvistava per primo i nemici in lontananza.
Viermot: diminutivo di Viermotorig, ovvero quadrimotore. Sono i bombardieri pesanti.
Hanni: sta per altitudine.
Rottenflieger: termine ufficiale per definire il gregario. La caccia tedesca si basava sul binomio di Rottenjäger (capopattuglia) e Rottenflieger (gregario). Il primo attaccava i nemici e il secondo gli copriva le spalle.
Caccia Libera (Freie Jagd): missioni in cui i caccia decollavano alla ricerca di caccia nemici per impegnarli in duello e possibilmente abbatterli.
Uomo nero (Schwarzer Mann): nomignolo con cui si definivano i meccanici, che portavano una tuta nera per far sì che le macchie di grasso e olio motore si vedessero meno.
   
 
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