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Autore: Cress Morlet    05/04/2019    21 recensioni
[Wanda/Visione]
E fu allora, forse. Qualcosa si ruppe e qualcosa si spezzò. Qualcosa si spezzò dentro di lei. Qualcosa si spezzò, ovunque, in lei. E lo fece con la stessa bellezza di una freccia rossa scagliata nel cuore di una statua di ghiaccio.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Pietro Maximoff/Quicksilver, Visione, Wanda Maximoff/Scarlet Witch
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Break it to me

                                                            BREAK IT TO ME

“Dove sei stata?”
L’umidità le entrò dentro le ossa insieme al tono concitato e rabbioso di quella domanda gettata contro di lei senza alcun riguardo, senza il minimo tatto. C’erano accusa e biasimo, in quelle tre parole uscite dai denti e dalle labbra strette, e un amaro senso di delusione che le perforò il cranio. Lui era deluso, ancora una volta.
“Buonasera anche a te, Pietro.”
E lei si sentiva sopraffatta, sbagliata, inadeguata.
“Buonanotte vorrai dire. Buongiorno, in realtà, visto che sono le due del mattino. Adesso vuoi dirmi dove sei stata?”, le chiese, bloccandole il passaggio e incrociando le braccia davanti al petto.
Che cosa stupida da fare. Loro vivevano in un piccolo appartamento dei sobborghi di Sokovia, un luogo sporco in cui si rifugiavano come se fossero dei topi di fogna, degli scarafaggi, dei ragni. Non avevano mobili, solo un materasso che condividevano entrambi, e le lenzuola erano usurate, le tubature arrugginite, le pareti ingrigite dalla muffa stantia. C’era una finestrella nel bagno, un buco di luci e vetri rotti che avevano dovuto bloccare e coprire tramite dei sacchetti della spazzatura dopo che dei bambini disperati avevano cercato di scassinarla. Avevano un tetto sopra la loro testa, se davvero quella cosa poteva essere definita un tetto, eppure a loro sembrava di vivere ancora sotto un ponte: tra l’odore dell’urina degli altri sfollati e le carte strappate dei giornali locali. Dunque, davvero, c’era bisogno di fermarla in corridoio e di ricordarle come fosse impossibile fuggire in quella gabbia marcia in cui facevano finta di avere una vita normale, una vita come tutti gli altri? Perché le sottraeva il suo spazio vitale e la subissava di domande? In fondo, che cosa interessava a lui dove lei trascorresse le ore della notte? Non era forse libera di farsi male nel modo in cui preferiva?
“Non sono affari tuoi”, gli rispose, la voce graffiata dalla verità che avrebbe voluto rivelargli e dalla certezza di non essere in grado di farlo. 
Pietro dovette intuire - sentire - il suo dolore, perché sciolse le braccia e si avvicinò di un passo a lei, alla sua postura rigida e alla sua coda in parte sciolta che le copriva metà viso.
Wanda indietreggiò e lui le passò una mano tra i capelli, scovando il trucco sbavato e gli occhi arrossati dal pianto.
“Sono stato in pensiero tutto il tempo. Non riesco mai a dormire se non so che tu stai bene e lo sapevo, sapevo benissimo, che qualcosa non andava. Perché fai così? Perché?”
Pietro era scosso, avvertendo sempre più in profondità il malessere della sorella gemella che si ripercuoteva all’interno delle sue vene e che si attorcigliava ai suoi nervi scoperti, e Wanda non resistette oltre e intrecciò le loro mani nella frenetica ricerca di un contatto umano. In una disperata supplica di perdono e comprensione, di amore infinito e dolce consolarsi. Era sempre stato così tra di loro, potevano sentire le emozioni l’uno dell’altra, anche ad una notevole distanza fisica. Pareva strano, sembrava soprannaturale e oltre ogni spiegazione scientifica, ma i loro cuori erano capaci di adattarsi e confondere i battiti, di amalgamarsi in un’unica sensazione che dilagava in entrambi i corpi. Convivevano in uno stato perenne di sofferenza condivisa, rancore amplificato, senso di protezione indissolubile. A volte si ferivano senza volerlo, a volte si salvavano senza comprendere appieno il modo in cui lo avevano fatto. Una cosa soltanto era certa, la più importante: erano insieme e erano legati nel sangue e nelle ossa. I loro muscoli erano costantemente tesi a cercare il proprio riflesso in un corpo a specchio, le loro mani si cercavano in ogni istante. Lei non lo avrebbe mai abbandonato, lui non la avrebbe mai abbandonata. Nessuno dei due avrebbe mai accettato di vivere senza l’altro. Erano due persone diverse e allo stesso tempo erano un’unica persona. 
Come potevano provare a spiegare al resto del mondo questo paradosso? Il loro legame era intimo, totalizzante.
“Non volevo farti spaventare. So muovermi tra le strade di Sokovia, dovresti saperlo”, gli ricordò, rivestendo la menzogna con una carta velina di verità.
“Ti hanno già fatto del male. E ti hanno fatto del male anche stasera, vero? È vero?”
Le strinse entrambi i palmi delle mani e la attirò in un abbraccio di corde di seta e lacrime amare. Continuò a legarla al suo corpo, un incastro di metà speculari e simmetrie spezzate, mentre le permetteva di sfogarsi in silenzio e di nascondersi contro il suo collo. Avevano sempre fatto così, fin da quando erano bambini: lei posava il viso sotto il mento del fratello, chiudeva gli occhi, e immaginava di diventare del tutto invisibile al male del mondo che invece sedeva comodo tra i nodi dei suoi capelli. Lui la consolava e la abbracciava stretta, trattenendo il respiro. Non erano mai cambiati, forse perché la realtà intorno a loro non aveva voluto migliorare. O forse perché loro non erano stati in grado di farlo.
“Non è successo nulla. Non è successo nulla, stai esagerando”, mormorò lei sulla sua pelle, con la voce impastata e sottile.
“Perché, dimmi, perché scompari sempre da questo appartamento? Perché fuggi? Non riesco a proteggerti in questo modo, non riesco a essere insieme a te quando tu puoi aver bisogno di aiuto.”
Il cielo era oscuro in quella stanza, nuvole nere che assomigliavano a gomitoli di lana calpestati e sfilacciati. Bagliori di luce non esistevano nella loro esistenza di orfani allevati nel dovere della vendetta, neanche briciole di serenità trovate grattando con le unghie il fondo di un barile. Wanda aveva Pietro, Pietro aveva Wanda. Non erano mai riusciti ad allargare il cerchio stretto che li univa, il filo di ricordi che collegava le loro tempie e i loro stomaci. E come avrebbero potuto? Non erano avvezzi all’affetto altrui. Erano più che altro dei randagi, dei vagabondi, abituati a suon di legnate a non meritare neppure un osso spezzato e sgranocchiato. Loro si aspettavano soltanto il peggio dalle altre persone, erano sempre pronti a ricevere schiaffi in faccia e calci in pancia, abituati talmente tanto all’oppressione fisica e mentale da non patire più, con la stessa intensità, le antiche sofferenze dell’infanzia e dell’adolescenza.
“Non fuggo da te, scappo da me stessa. Ho troppa paura”, sussurrò, perdendo scaglie di raziocinio nella sua debole confessione.
Tu vedresti la realtà dei miei errori. Vedresti cosa sono disposta a fare pur di smettere di pensare. Anche solo per un secondo.
Il mondo si aprì e il terreno tremò, scoppiando intorno ai loro piedi che si ritrovarono a volteggiare nell’aria, a calpestare un etereo vuoto cosmico. Un brivido alla nuca costrinse Wanda a sollevare lo sguardo e a cercare gli occhi di Pietro. Vetro e ghiaccio le sue orbite, la bocca aperta in una posa innaturale, e i capelli sporchi di sabbia e polvere rossa.
No, Wanda. Non polvere rossa, ma sangue rappreso in grumi attaccati alle ciocche.
Tutto il suo petto grondava sangue, il suo corpo era martoriato, l’addome squarciato, le braccia immobili. Il suo sorriso rimaneva splendente, bellissimo e accecante persino nella fredda e insensibile morte.
“Io sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi? Wanda, la mia Wanda. La mia Wanda dal broncio facile. Ricordi che sono io a dovermi prendere cura di te? Non il contrario. Non è mai stato il contrario.”
Le pareti si sgretolarono in pagliuzze di metallo, bottoni di ferro che rotearono su assi asimmetrici e convergenti tutti in un unico punto cieco. Verso il suo cuore che batteva forsennato, spaventato a tal punto da celarsi sotto la sua lingua e da nascondersi dietro i suoi denti. Pietro afferrò il cilindro dorato - un caldo e crudele proiettile - e le sorrise in maniera sfacciata.
“Questo ti era sfuggito, vero?”

                                                                                                                 *******

Gridò.
Si alzò a sedere, abbandonando delle dita che stringevano le sue, e si mosse frenetica tra le coperte sgualcite. Urlò e un carillon cadde a terra, interrompendo bruscamente una sottile melodia che tagliava l’aria calda e pesante. Sentì soltanto le vene del collo gonfiarsi e subito dopo un sapore acido riempirle la bocca. Mangiò tra i denti un suo pugno chiuso, ma fu troppo lenta e scoordinata. Si sporcò il mento, si ferì la pelle. Le braccia cominciarono a tremare in una maniera incontrollabile, le gambe a non rispondere più ai suoi pensieri e gli occhi chiusi a mostrarle diapositive del suo ultimo sogno. Del suo ultimo incubo estremamente crudele: Pietro non è più in quell’appartamento, Pietro non la sta aspettando più.
È morto è morto è morto. Una cantilena nella sua testa, poche sillabe contro cui non poteva lottare - morto morto morto - e di cui dimenticava il senso e la ragione. Le lettere perdevano la loro forma, apparivano vuote e insapori, giocavano con la sua lucidità opaca. Restava costante soltanto una cosa: un dolore ammorbante che le ricordava la realtà della sua esistenza e della sua condizione. Era l’unica sopravvissuta alla strage della sua famiglia.
“Basta. Basta, Wanda.”
Le parole erano lontane, il mondo stesso si era ripiegato nella sua mente e si era chiuso tra le pareti della sua testa ciondolante. Tutto era buio e il buio era sceso fin dentro le sue ossa, trasformandola in un relitto umano da gettare in una stanza polverosa, in una casa diroccata di rovine e intonaco bruciato. Il cielo si era spento, spaccandosi in due, e poi era crollato sulla terra nelle sembianze di stelle cadenti e palloncini grigi e blu. Cosa è allora il tempo? E dov'è lo spazio?
“Fermati. Adesso devi fermarti, Wanda, fermati. Fermati.”
Delle braccia bloccarono le sue, abbracciandole il corpo e trattenendo il male che le usciva dalle dita, colava dalle unghie e dai polsi chiari, violacei. Sbatté le palpebre e si ritrovò sdraiata, rannicchiata in posizione fetale, il cuore che continuava a battere nella testa e alla bocca dello stomaco stretta intorno a se stessa.
Lei tentò di sillabare qualcosa, schiuse le labbra e i suoi capelli lunghi, attaccati alla bocca, accrebbero la nausea che già provava. Mosse piano i palmi e delle mani fredde si legarono alle sue, stringendole con forza.
“Respira. Respira, avanti, respira bene.”
L’aria intorno a lei era impregnata di un odore di vecchia tristezza, di un sogno stanco che abbassava le ciglia e che cantilenava una fiaba paurosa a delle piccole noci spezzate in tanti gusci vuoti di schegge affilate. Fango, gocce di finta cera colate giù da un candelabro elettrico, suole di scarpa aperte e chiodate malamente: non aveva senso respirare la morte delle sue stesse cellule impazzite.
Perché avrebbe dovuto farlo?
“Respira. Segui il mio petto, respira.”
Non aveva senso continuare a vivere. No? ? Perché vivere, perché? Lei sciolse ogni tensione che le legava i muscoli, la gola chiusa da corde di freddo rame, e sulla fronte avvertì un fastidio simile al ticchettare dei becchi degli uccellini a molla. Tossì e strinse i denti, inghiottendo altro acido, assaporando il veleno del suo corpo che la stava piegando e sconfiggendo. Tossì ancora e si morse la lingua. Lui non la lasciò mai andare e le scostò i capelli sporchi dal viso paonazzo.
“Respira insieme a me”, ripeté, e le massaggiò le tempie in cerchi lenti, attenti. E fu allora, forse. Qualcosa si ruppe e qualcosa si spezzò. Qualcosa si spezzò dentro di lei. Qualcosa si spezzò, ovunque, in lei. E lo fece con la stessa bellezza di una freccia rossa scagliata nel cuore di una statua di ghiaccio.
“Vis”, mormorò, e le altre parole rimasero incastrate nei nodi delle sue vene.
‘Ma tu non respiri, Vis. Tu non hai bisogno di respirare.’
Doveva essere al centro del suo sterno, qualcosa si era rotto lì, proprio in quel punto. Era caduto a terra con lo stesso rumore delle lastre di ghiaccio che crollano sugli specchi e si moltiplicano all’infinito. Uno di quei pezzi doveva esserle stato rubato oppure il vento aveva voluto portarlo via con sé. E così lei non lo avrebbe mai più ritrovato.
“Segui il mio petto”, le ripeté, inglobandola completamente nel suo abbraccio, alla stregua di un cucchiaio. Fece aderire la sua schiena, scossa ancora dai singhiozzi e dai lamenti, al suo addome. 
Le loro braccia erano strette intorno ai suoi fianchi, le loro mani intrecciate sulla sua pancia. Si sentì al sicuro, si sentì protetta, salvata dalla solitudine in cui i suoi incubi la imprigionavano.
Fu un secondo, fu l’eternità.
Vis stava respirando, lentamente, un po’ impacciato e con un ritmo zoppicante.
Inspira, espira.
Inspira, e-espira.
I-inspira, espira.
Non si accorse del momento in cui iniziò anche lei a seguire i suoi movimenti. Prima dal naso, poi dalla bocca. Respirò piano, senza far rumore alcuno, quasi avesse paura di poter disturbare il sonno di un morto. Il sonno di Pietro, il sonno dei suoi genitori: placidi fantasmi che la osservavano ogni notte sulla soglia della sua nuova camera, della sua nuova casa. Eppure lei non aveva paura, perché Visione era ovunque.
Tra i palmi scavati delle mani che una volta aveva fatto sanguinare, martoriandoseli con le unghie. Sulla sua pancia che stringeva, senza farle male, placando i conati che strisciavano lungo il suo stomaco. Tra i suoi capelli disordinati, sul suo orecchio sinistro, a cui sussurrava filastrocche e ninne nanne. Lui era ovunque, anche nei centimetri di pelle che non toccava, persino dentro il suo corpo e nei suoi incubi che trasformava in sogni.
Le mormorava verità a cui lei si aggrappava disperatamente e che temeva e riveriva come le ombre paventano e idolatrano i raggi del Sole.
Pietro è con te, Pietro rimarrà sempre con te, Pietro è nel tuo cuore.
Ma il dolore pareva non voler finire mai.

Non voglio avere un cuore, Vis. Non voglio. Altrimenti sarei innamorata di te.






Angolo Autrice.
Ciao a tutti! Eccoci di nuovo qui, io come sempre sono molto emozionata. Da tantissimo tempo avevo in mente queste scene, mi hanno poi talmente tanto tormentato che ho dovuto scrivere questa storia. Preciso che Wanda e Pietro nel sogno/ricordo non hanno ancora acquisito i loro poteri, per questo Pietro è tanto spaventato.
Spero davvero tanto che vi piaccia, io la considero una sorta di prequel di "A Survivor": è stata svelata una delle famose settantatrè notti che cito spesso nelle mie storie, una mia totale invenzione personale. 
E Pietro? Credo proprio che tornerò presto a scrivere ancora di lui e di Wanda insieme. Il titolo è una canzone dei Muse, la colonna sonora che mi ha accompagnato in questa stesura. Che altro dire? 
Ringrazio chi ha voluto leggere questa storia in anteprima e chiunque mi lascerà un suo parere in futuro. Tengo tantissimo a questi tre personaggi, in una maniera molto particolare.
A presto!

Break it to me

                                                                                                            

   
 
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