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Autore: shira21    08/04/2019    2 recensioni
Il flusso di coscienza di un uomo innamorato o di un uomo ossessionato? A volte tra le due cose non c'è differenza
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ci si può innamorare di qualcuno prima ancora di averci parlato?
Credo di sì perché l'amavo ancor prima che lei si rendesse conto della mia esistenza. Io invece di lei sapevo già tanto, ogni giorno qualcosa in più.
Qualcuno avrebbe detto che la mia era un ossessione, un qualcosa di malato da far curare, ma quel qualcuno avrebbe avuto torto.
Anche lei mi disse che il nostro incontro sapeva di predestinato; beh, forse il destino aveva avuto bisogno di una piccola spintarella qua e là da parte mia ma non è così che nascono le migliori relazioni, quando si lotta perché accada?
La prima volta che mi accorsi di lei non fu esattamente la prima volta che la vidi: cieco che non fui altro, i miei occhi erano scivolati oltre di lei non so neanche quante volte. Ma quella mattina il mio sguardo rimase impigliato in quella ragazza che, con solo i lunghi capelli biondi come protezione, piangeva e singhiozzava sopra una tazza di caffè. Nel locale non eravamo in molti e tutti, proprio tutti, facero finta di non sentirla, di non vederla. Neanche io mi mossi verso di lei anche se avrei voluto. Non volevo che mi prendesse per un guardone eppure c'era qualcosa nel suo dolore che mi spingeva a fissarla, un non so che di fiero. Perché ci vuole molto coraggio per piangere in un posto pubblico. Quindi rimasi al mio posto, a tre tavolini di distanza, a fissare quella fragile creatura. Quel giorno fu l'unica cosa che vidi di lei: una cortina di capelli chiari e due piccole spalle scosse dai tremiti dei singhiozzi.
Il giorno dopo era di nuovo seduta allo stesso tavolo con un altra tazza di caffè davanti; stavolta però stava scrivendo al computer e i lunghi capelli erano legati in un una coda alta. Finalmente potevo vedere quei lineamenti che potei paragonare soltanto a quelli di una bambola di porcellana. Non avrei saputo dire quanti anni avesse ma rimasi incantato dalle lunghe ciglia dorate che creavano delle ombre sugli zigomi alti, il naso piccolo e il lungo e delicato collo da cigno. Tutto in lei era tenue ed evanescente come un dipinto realizzato solo con i più eterei colori tranne per la bocca voluttuosa: carnosa, dello stesso rosso delle rose d'estate e arricciata in un broncio deliziosamente adorabile. Fu la prima volta che provai l'impeto di prenderla e tirarmela contro per baciarla fino a toglierle il respiro; la prima ma non di certo l'ultima. La osservai fino al momento in cui se ne andò, alle 12.30 esatte.
Ero rimasto così colpito da lei che, preso da una frenesia inimmaginabile, quando arrivai a casa dovetti dedicarmi per ben due volte al inturgidimento tra le mie gambe, pensando ogni volta a quella dannata bocca e a come aveva fatto guizzare la lingua per pochi istanti per raccogliere una briciola. Quando quella smania fu giunta al termine però ebbi una fitta di panico al pensiero di non vederla più, di dimenticare lei e quel suo atteggiamento da principessa caduta in disgrazia.
Fu per questo, e solo per questo, che iniziai a tenere un diario sulla mia bella bambola di porcellana.
Ogni giorno mi sedevo a tre tavoli di distanza e la guardavo scrivere e scrivere al computer e ogni giorno alle 12.30 la salutavo silenziosamente. Imparai che beveva tazze su tazze di cappuccino ma solo con latte di soia per l'intolleranza al lattosio e che era golosa di dolci, in particolare di quelli morbidi e ripieni di crema; scoprii che stava scrivendo un romanzo, o come disse alla sua amica, ci stava provando. A questo proposito, avrei voluto dirle che le sue amiche non erano molto carine nei suoi confronti se ogni volta che le sentiva le si riempivano gli occhi di lacrime; avrei voluto proteggerla da loro e mi ripromisi che quando fosse stata mia i suoi grandi occhi azzurri avrebbero smesso di soffrire. Teneva la schiena dritta, sempre a qualche centimetro di distanza dallo schienale, per poi inarcarla stiracchiandosi come una gatta al sole.
Lei scriveva il suo romanzo e io scrivevo di lei e poi dovevo soddisfare da solo il mio bisogno di toccarla, di averla, bramando il momento in cui sarebbe stata davvero mia. Ero certo che saremmo diventati una cosa sola, in fondo il destino aiuta gli audaci e chi è più audace di un uomo innamorato?
Presto però mi resi conto che quelle poche ore rubate al bar non bastavano più: avevo bisogno di conoscerla più a fondo, di sapere le sue passioni e i suoi dolori, cosa la spingeva ad andarsene sempre allo stesso orario senza neanche ritardare di un solo minuto. Volevo vedere dove viveva e con chi, cosa faceva la sera.
E così il mio diario diventava sempre più preciso e sempre più personale. Avevo sempre saputo di avere un certo talento come fotografo ma avevo scoperto che con un soggetto così incantevole come la mia bambola potevo raggiungere la perfezione. Foto al bar, con le amiche, a casa con il padre malato, in bikini a prendere il sole sulla sponda del lago. Erano momenti magici che volevo conservare con la massima cura perché ognuno di essi mi faceva sentire più vicino alla mia amata.
L'unica pecca in questo nostro rapporto era che lei frequentava un altro ragazzo, un tipo con cui aveva frequentato il liceo, ma sapevo che non poteva funzionare: lui non poteva darle quello che potevo io. E anche lei l'avrebbe pensata come me.
Più la conoscevo e più potevo leggerle dentro: sapevo se quella mattina avrebbe ordinato un dolce e quale o se al ritorno avrebbe preferito prendere la strada lunga o quella veloce. La mia vita ormai ruotava intorno a lei, solo a lei, e per questo mi avrebbe amato: nessuno le dava tante attenzioni.
Poi accadde: finalmente aprì gli occhi e si accorse di me. Fu solo per un istante, il tempo di un veloce sorriso sopra la tazza del caffè ma in realtà era molto di più. Era l'invito che aspettavo, il segno che anche lei era pronta a fare un passo in avanti. Ma fui delicato con lei, non volevo rischiare di romperla. L'approcciai con tutto il garbo che potevo, offrendole un caffè e chiedendole se fosse una scrittrice. Lei distolse lo sguardo mentre un leggero rossore le imporporava le guance; il modo in cui si scostò le ciocche dal viso schermendosi con un modesto «Più aspirante scrittrice» me la fece amare e stimare ancora di più. Le presi la mano, assicurandole che di certo presto avrebbe realizzato i suoi sogni. Ecco, io la stavo già incoraggiando, spronandola a credere in se stessa; in pochi minuti le avevo donato più luce che in anni chiunque altro. Usai quello che sapevo per creare più punti in comune: lei era una ragazza timida e si sarebbe aperta solo restando su argomenti che conosceva. La invitai a camminare sulla sponda del lago dove andava sempre e lei rise per la coincidenza; accettò perché anche lei sentiva la connessione tra noi. Parlammo di libri e di musica, avevamo così tanto in comune anche se i suoi gusti potevano migliorare ma, in fondo, era ancora piccola, una ragazzina; era mio dovere aiutarla a crescere e diventare donna.
Prendemmo l'abitudine di sederci allo stesso tavolo: lei scriveva e io avevo ricominciato a dedicarmi ai miei spartiti: eravamo due artisti, due anime gemelle ed era palese nei momenti in cui alzavamo lo sguardo e ci guardavamo, escludendo chiunque altro al mondo. La portai in viaggio anche se erano solo brevi week-end; capivo che era colpa del padre, lei avrebbe voluto restare di più con me ovviamente. Ma quell'uomo viveva con l'energia della mia amata.
La prima volta che la baciai la sentì tremare di un piacere grande quanto il mio e poi, più avanti, la feci sdraiare sul legno del mio appartamento ed esplorai ogni angolo del suo corpo. E quando mi donò quello che nessun altro uomo aveva mai avuto pianse di gioia perché finalmente sapeva anche lei cosa voleva dire essere amata.
Furono mesi meravigliosi, due persone che erano una sola.
Ma poi il suo ex ragazzo -perché era ovvio che al confronto con me e il mio profondo affetto lui ne fosse uscito sconfitto- e le sue amiche me la misero contro: le dissero che ero strano, possessivo e malato; che ero troppo vecchio per lei. Una di loro insinuò addirittura che le avevo fatto del male ma non potevano capire che quelli erano solo i segni lasciati dall'impeto della nostra passione. Lei era troppo buona per raccontarmi tante cattiverie ma io vegliavo ancora su di lei, anzi ora che era mia anche più di prima. Mi rendevo conto che lei avrebbe voluto essere forte e schierarsi apertamente dalla mia, dalla nostra, parte ma era troppo insicura come un uccellino che non si fida ancora delle sue ali.
Quello che feci dopo fu solo per il bene della nostra relazione e per il suo: dovevo assolutamente allontanarla da chi le stava rovinando la vita: all'insaputa di tutti la portai in montagna, in una piccola baita immersa nella neve che avevo scoperto qualche anno fa: quello sarebbe stato il nostro rifugio, il nostro nido, e nessuno ci avrebbe mai trovato.
Non avevo capito quanto il giudizio di quelle vipere avesse affondato gli artigli nella sua anima candida. L'avevano corrotta, rovinata.
La mia bella bambola dal lungo e fragile collo da cigno.
La mia piccola bambola che si dibatteva come un pettirosso su un letto di spine.
La mia dolce bambola che riposa con i bucaneve che tanto adorava.
   
 
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