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Autore: Lamy_    13/04/2019    1 recensioni
Ernest Hemingway ha scritto che «il mondo spezza tutti quanti e poi molti sono forti nei punti spezzati. Ma quelli che non spezza li uccide.»
Thomas Shelby era uno degli spezzati, ma non uno di quelli forti. La guerra aveva dilaniato la sua anima, l’aveva fatta a brandelli e l’aveva ingurgitata, e al suo ritorno niente era stato più come prima.
Divenuto il leader dei Peaky Blinders, domina su Birmingham e tenta in tutti i modi di proteggere la sua famiglia. Il destino, però, vuole che Thomas si imbatta nella donna che gli ha salvato la vita.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thomas Shelby
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO.

“He's a god, he's a man
He's a ghost, he's a guru
They're whispering his name
Through this disappearing land
But hidden in his coat is a red right hand.”

(Red Right Hand, Nick Cave)
                                                      
 
Marzo 1916, Verdun (Francia)
Amabel osservava con attenzione la situazione che si presentava ai suoi occhi. I soldati appena rientrati dalla ronda serale si preparavano per la successiva perlustrazione notturna. Le nuove reclute sistemavano i loro sacchi a pelo nelle nicchie della grande stanza, alcuni erano terrorizzati, altri piangevano in modo sommesso, e altri ancora fissavano il vuoto. Gli unici che ridevano rumorosamente erano gli scavatori di gallerie, una squadra di soldati-minatori specializzati con il compito di assaltare i nemici con le bombe. La Guerra imperversava ormai da due anni, da quando era stato assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, tra i maggiori Paesi divisi in fazioni. Il conflitto non stava risparmiando nessuno, uccideva chi combatteva sul campo, ma anche chi restava a casa in attesa di uomini che non sarebbero tornati o che sarebbero tornati ma con gravi traumi.
“Amabel, va tutto bene?”
Emily, il capo delle infermiere, le sorrideva con fare affabile. Era una ragazza molto dolce e una gran lavoratrice.
“Sì, va tutto bene. Stavo solo riflettendo.”
La porta della mensa si spalancò e un manipolo di soldati entrò tra schiamazzi di ogni genere: erano sopravvissuti ed era motivo di gioia. Un soldato si inchinò davanti a Amabel goffamente.
“Dottoressa Hamilton, per vostra sfortuna sono ritornato!”
“Per mia fortuna siete ritornato! E’ sempre un piacere rivedervi, sergente Jones.”
Amabel era il medico assegnato all’accampamento inglese Numero 170 in Francia. Era il suo primo incarico ed era stata inviata nelle campagne francesi con l’equipe dell’ospedale centrale di Londra.
“Avanti, Jones, smettetela di importunare le belle ragazze!” lo rimbeccò uno degli scavatori alzandosi in piedi per farsi vedere. Il sergente Jones si avvicinò a lui, lo trucidò con lo sguardo e l’attimo dopo si abbracciarono tutti contenti.
“Siete un vero mascalzone, Shelby.” Gli mormorò Jones, dopodiché salutò Amabel con un altro precario inchino e lasciò la mensa.
Amabel era sul punto di rifugiarsi in camera a leggere quando una figura l’affiancò. Era un uomo alto, dal fisico tonico, i capelli neri facevano contrasto con gli occhi azzurri.
“Vi serve qualcosa?” domandò gentilmente.
“Volevo solo presentarmi. Thomas Shelby, al vostro servizio.” Disse, afferrandole con delicatezza la mano per posare un bacio leggero sul dorso. Amabel arrossì, era il primo che si comportava così, gli altri soldati in genere la ignoravano.
“Io sono la dottoressa Amabel Hamilton.”
“Devo dare una lezione a Jones perché non vi dia più fastidio?”
“Non siete un cavaliere ed io non sono una donzella in pericolo. Non preoccupatevi.”
La riposta piccata della ragazza fece sorridere Thomas, adorava le donne in grado di tenergli testa. Da qualche tempo aveva notato la dottoressa, i capelli castani erano lievemente mossi, aveva due grandi occhi marroni, il portamento di un membro di buona famiglia, ma ciò che lo colpiva di più era il carattere determinato e irremovibile.
“E chi vi dice che io non sia un cavaliere? E voi, voi siete sicura di non essere una donzella in pericolo?”
“In pericolo vi ritroverete voi se non terrete quella bocca chiusa, sergente maggiore Shelby. Sono una donna, mica una stupida.”
“Siete una splendida donna.”
Amabel alzò gli occhi, non era il primo che cercava di farle la corte, ma era l’unico che lo faceva con tanta schiettezza.
“E voi siete uno sciocco se credete che cederò ad un banale complimento.”
“E’ risaputo che io sia uno sciocco, soprattutto in presenza di una bella donna.” Replicò Thomas con un sorriso sghembo, uno di quelli per cui Arthur e John lo avrebbero deriso. Amabel chiuse con enfasi una cartella medica e gli diede le spalle.
“Peccato che io non sia una bella donna e che voi, dunque, rimaniate comunque uno sciocco.”
“Tommy, noi stiamo andando a ubriacarci. Vieni con noi o continui a fare il cascamorto con la signorina?” gridò un suo compagno dal fondo della mensa, scatenando una risata da parte di tutti gli altri. Thomas scosse la testa con un sorriso divertito e si mise le mani in tasca.
“I vostri amici vi reclamano, dovreste andare.” Gli disse Amabel altrettanto divertita.
“Dovrei ma non voglio.”
“Andate, sergente maggiore Shelby. Le risate non dureranno ancora per molto.”
 “Ci incontreremo ancora, dottoressa?”
Amabel sospirò e, senza voltarsi, si incamminò.
“Chissà.”
 
Agosto 1916, Somme (Francia)
Le urla si mescolavano alle lacrime, al sudore e al sangue senza concedere la possibilità di respirare. La guerra stava mietendo vittime senza alcuna pietà, gli uomini cadevano come tasselli del domino, risucchiati in una spirale di infinita tragedia. Amabel dovette reprimere i conati di vomito quando si accorse delle macchie rosse che le imbrattavano il camice. Da qualche mese era stata trasferita al presidio inglese Numero 387, nel cuore dello scontro. Era l’inferno in terra quella notte: i soldati arrivavano dal campo dilaniati, privi di arti, sanguinanti, in preda a pene indicibili, e soprattutto morti. Mentre si sciacquava accuratamente le mani per evitare la diffusione di batteri, la tenda si aprì e una coppia di soldati fece irruzione trascinando un corpo afflosciato.
“Aiuto! Aiutateci!” strillò uno di loro.
 Tre soldati caricarono il corpo e lo distesero su un lettino. Amabel indossò i guanti e si fiondò da lui.
“Aiutatelo! Aiutate il mio amico!”continuava a ripetere nel panico l’altro, portandosi le mani sporche in testa. Amabel gli bloccò i polsi prima che potesse letteralmente strapparsi i capelli.
“Ehi, guardatemi! Guardatemi! Come vi chiamate?”
“Mi chiamo Freddie Thorne e lui è Danny Owen.”
“E il vostro amico come si chiama?”
“Tommy. Aiutatelo!” rispose Danny passandosi uno straccio sulla ferita alla testa.
“Sì, sì, adesso ci penso io a Tommy. Voi dovete essere medicati, seguite l’infermiera.”
Un’infermiera fece accomodare Freddie e Danny su una brandina per medicare i tagli e fare un controllo completo delle ferite. Amabel tornò a concentrarsi sul suo paziente. La diagnosi era critica: una parte del volto era ustionata e l’intensa infiammazione cutanea che gli arrossava la pelle aveva generato la formazione di vescicole piene di liquido. L’uomo si lamentava a stento, i polmoni dovevano essere gonfi di fumo e la gola di conseguenza faceva fatica ad emettere suoni.
“D’accordo, Tommy, fidati di me. Andrà tutto bene.”
Gli occhi azzurri di Tommy, che spiccavano in mezzo al sangue e alle vescicole, la supplicarono tacitamente.
“Andrà tutto bene.” ripeté Amabel per rassicurarlo. Dopodiché si mise al lavoro: impregnò un asciugamano nell’acqua ghiacciata e la depose sul viso arrossato, al che il paziente sbatté i piedi per il dolore. Amabel, sebbene non sopportasse infliggere quella sofferenza, benché necessaria, reiterò l’azione più e più volte, fino a quando Tommy si abituò al freddo. Il camice oramai era bagnato e lercio di sangue, così come le sue mani e il suo collo. Quando ebbe terminato di raffreddare la pelle per interrompere l’effetto distruttivo della pelle, somministrò al paziente della morfina per attenuare il dolore. Quando la medicina incominciò a placare la sensazione di bruciore, procedette a fasciargli il viso con delle garze imbevute di aloe e calendula in modo da lenire la pelle.
Un’ora dopo Amabel fece la solita visita notturna per accertarsi che stessero tutti bene e in particolare si trattenne a controllare il paziente ustionato. Freddie, l’amico, era stato ferito da un proiettile ed era stato operato prima che prendesse infezione, mentre Danny aveva riportato un grave trauma cranico e numerosi lividi. Ora i tre soldati occupavano le brande una vicina all’altra. Amabel si assicurò che Tommy dormisse prima di proseguire.
“Resta.” Sussurrò debolmente Tommy.
“Non dovresti parlare. Devi solo pensare a riposare, questo aiuterà la guarigione.”
Tommy riuscì a fare un mezzo sorriso prima di avvertire una scarica di dolore. Strinse piano la mano di Amabel e lei sorrise a sua volta.
“Ora dormi. Io resterò qui con te.”
 
Settembre 1916, Parigi, Ambasciata inglese.
Amabel sedeva in corridoio in compagnia del sergente maggiore Shelby in attesa che i superiori deliberassero sul suo ritorno a casa.
“Credete che mi congederanno?” chiese Tommy grattandosi la guancia ancora arrossata per via dell’ustione in via di guarigione.
“Smettetela di toccarvi il viso, non vorrei che la pelle si infiammasse. Comunque, sono sicura che vi congederanno e vi conferiranno anche una medaglia al valore. Fidatevi, ho fatto il possibile per farvi tornare a casa. La guerra non fa più per voi, signor Shelby.”
In quel mese di convalescenza presso l’ospedale militare era stata lei ad occuparsi del sergente, gli medicava la pelle e gli cambiava le bende, lo aiutava a mangiare e a vestirsi, e ogni notte gli sedeva accanto aspettando che si addormentasse.
“Grazie per il vostro impegno, dottoressa.” Disse Tommy accennando un sorriso. Amabel gli strinse teneramente la mano e ricambiò il sorriso.
“Non ringraziatemi. Tornate a casa e vivete al meglio la vostra vita. Desidero solo che voi e i vostri amici ritroviate la serenità.”
“Tommy!” esultò una donna correndo verso di lui. Si gettò su di lui per abbracciarlo e baciargli tutto il viso.
“State attenta al viso.” Disse Amabel ridacchiando per l’espressione imbarazzata di Tommy.
“Sì, scusatemi. Io sono Elizabeth Gray, la zia di Thomas. Siete voi che mi avete chiamata?”
“Sono la dottoressa Hamilton e, sì, vi ho inviato io la lettere per invitarvi qui. Vostro nipote deve tornare a casa immediatamente, la Francia non fa più per lui.”
La porta del tribunale si aprì e ne uscì il superiore della loro unità, recava in mano una pergamena e una scatola.
“Sergente maggiore Shelby, siete congedato con onore con effetto immediato. Potete tornare a casa oggi stesso.” Annunciò l’uomo consegnandogli la licenza per il congedo e la medaglia.
“Grazie, signore.”
Non appena il superiore fu lontano, Elizabeth scoppiò in un pianto liberatorio e abbracciò di nuovo il nipote.
“Adesso ti riporto a casa, Tommy. E’ tutto finito.”
Tommy notò gli occhi lucidi della dottoressa Hamilton, e non capì se fosse vero o fosse una conseguenza della morfina che gli iniettavano quotidianamente per alleviare il dolore.
“Grazie di tutto, dottoressa Hamilton. Senza di voi ora sarei morto.”
“Siate felice, signor Shelby. Ah, vi lascio questo come ricordo perché non vi dimentichiate di me.”
Tommy intascò il fazzoletto della dottoressa e lasciò l’ambasciata insieme a sua zia. Non ebbe il coraggio di voltarsi.
 
 
Birmingham, 1923.
Quando si svegliò, la prima cosa che Amabel notò fu il soffitto bianco, leso dagli anni, e terribilmente familiare. Era ritornata a Birmingham, la sua città natale, la sera prima intorno alle ventidue e tutti stavano dormendo, allora si era coricata senza disturbare nessuno. Quella casa, però, sembrava ormai vuota da quando suo padre era morto due anni prima. La madre, invece, era morta dando alla luce sua sorella minore. Erano tre figlie femmine: Amabel di ventisette anni, seguiva Evelyn  di venti e Diana di sedici. Il padre, il dottor Oswald Hamilton, le aveva cresciute da solo con tanto amore e senza far mancare loro nulla. La sua dipartita aveva proclamato Amabel il nuovo capo-famiglia. Ecco perché aveva fatto ritorno quando l’ospedale di Birmingham le aveva offerto un posto. Era necessario che si prendesse cura delle sue sorelle, lo aveva promesso a sua madre sul letto di morte. La porta della camera si aprì e il viso rotondo di Bertha sbucò nella penombra. Era la governante che lavorava per loro dalla nascita di Amabel, l’unica che si occupava della casa.
“Amabel, come sono contenta di vedervi!” esclamò la donna per poi stringerla tra le braccia.
“Anche io sono contenta, Bertha.”
Bertha si scostò e la esaminò come fa uno scienziato con la propria cavia.
“Fatevi guardare un po’. Siete troppo magra, signorina! Andiamo, vi aspetto in cucina per una colazione abbondante.”
“Non prepararmi il thè, lo detesto!” si raccomandò Amabel, poi si dedicò ad un bagno caldo e si vestì.
Quando raggiunse la cucina, due esili braccia si avvinghiarono alla sua vita. Diana la stava abbracciando con la guancia premuta sul suo petto.
“Mi sei mancata tanto, Bel.” mormorò la ragazzina mentre la sorella le baciava la testa.
“Mi sei mancata anche tu. E Evelyn dov’è?”
“Eccomi qui!” esordì una voce allegra alle sue spalle. Evelyn era minuta, ma aveva i capelli più lunghi e più chiari adesso, era cresciuta. Le tre sorelle di abbracciarono e si baciarono, finalmente erano tornate insieme.
“Allora, Evelyn, un uccellino mi ha detto che frequenti un ragazzo.” Disse Amabel, sorseggiando il suo caffè caldo. Diana addentò un biscotto e ghignò.
“Su, Evelyn, raccontale tutto!”
“Taci, piccola peste!” rispose l’altra, colpendo la più piccola col tovagliolo. Amabel sorrise per quei battibecchi che stranamente le erano mancati.
“Sì, raccontami tutto. Sono curiosa di sapere chi ha conquistato il tuo cuore.”
“Si chiama Jacob Cavendish, è il figlio del sindaco. Suo fratello Dominic veniva a scuola con te. Ci siamo incontrati in chiesa, lui mi ha porto il libro dei canti che mi era caduto di mano e due settimane dopo mi ha invitato a fare una passeggiata. Stiamo insieme da quattro mesi. Oh, Bel, sono follemente innamorata!” disse Evelyn  con fare sognante, portandosi le mani sul cuore e sbattendo le ciglia. Amabel ricordava bene Dominic, ai tempi era un ragazzo spocchioso, superbo e maleducato, sempre pronto a tuffarsi in una rissa. Per il bene della sorella simulò un sorriso, non c’era motivo di farla preoccupare.
“Bene. Mi fa piacere. Avrò di certo modo di conoscerlo nelle prossime settimane. E sentiamo, come procedono gli studi?”
Bertha di colpo sussultò come se quella domanda fosse stata letale come un proiettile. Evelyn e Diana si scambiarono l’occhiata fugace di chi condivide un segreto.
“Oh, no. Che cosa avete combinato?”
“Ecco … zia Camille mi ha consigliato di interrompere l’università e di iscrivermi ad una scuola di buone maniere. Dice che, ora che sono impegnata con Jacob, devo imparare a comportarmi come una vera donna.” Spiegò Evelyn .
“E noi da quando ascoltiamo i consigli di zia Camille? Per la miseria, Evelyn ! Papà ci ha insegnato ad essere donne indipendenti, astute, capaci di cavarsela senza un uomo, e soprattutto ci ha insegnato che è fondamentale essere noi stesse. Una vera donna è questo, è libertà, intelligenza, rispetto per se stessa, è coraggio.”
“Zia Camille ha ragione. Jacob non mi sposerà mai se mi comporto come una zingara!”
“E cosa c’è di male nel comportarsi come una zingara? Ti ho sempre detto che devi rispettare le persone a prescindere dalla loro origine e dalla loro condizione sociale.”
Amabel aveva sbattuto le mani sul tavolo e un po’ di caffè si era rovesciato sulla tovaglia bianca. Evelyn teneva il capo chino sul piatto e giocava nervosamente con l’orlo del vestito.
“Tu e le tue folli idee sulla donna siate maledette! Non perderò Jacob per colpa tua. Non studierò per diventare insegnante, non mi importa. Io voglio essere una brava moglie e una brava madre!” strillò Evelyn , dopodiché corse nella sua stanza.
“I miei studi, invece, vanno bene.” Mormorò Diana. Amabel prese un respiro e le sorrise, almeno lei non era cambiata.
“Questo mi rende molto felice. Vuoi ancora imparare a suonare il pianoforte?”
“Sì! Mi insegnerai?”
“Certamente. Ti allenerai due ore al giorno ogni sera. Vedrai, ci divertiremo.”
“Non vedo l’ora. Adesso vado a prepararmi per la scuola. Ci vediamo più tardi.” Disse Diana, le baciò la guancia e andò a vestirsi.
“Io vado allo studio di papà. Non torno per pranzo. Ci vediamo a cena. Buona giornata, Bertha.”
“Buona giornata a voi, signorina.”
 
 
Una delle tante cose che Thomas Shelby odiava era l’alba. Gli rammentava che un nuovo giorno era cominciato e di conseguenza doveva prepararsi per una nuova battaglia. Camminando per Small Heath con una sigaretta in bocca e il capello in testa, faceva ritorno al suo ufficio. Da quando la loro attività era diventata legale i guadagni erano raddoppiati e c’era sempre molto lavoro da svolgere. Quella mattina c’era qualcosa di diverso, si sentiva giù di morale più del solito, e la Francia sembrava un ricordo assai vivido che neanche l’oppio era riuscito a lenire durante la notte. Tirò fuori dal taschino della giacca un fazzoletto bianco con due lettere incise, ‘AH’, e lo annusò, gli pareva di poter ancora avvertire la dolce fragranza di cedro. Quello era un cimelio della Guerra, glielo aveva regalato la dottoressa che si era presa cura di lui quando si era ustionato il volto a causa di un’irruzione dei tedeschi nella galleria. Non ricordava il nome della donna e aveva un vago ricordo delle sue fattezze fisiche. Freddie gli ripeteva sempre che lei era stata un angelo inviato per salvarli da quell’inferno. Negli anni Thomas aveva conservato quel fazzoletto e lo portava con sé ogni giorno come la prova che era vivo, che sarebbe sopravvissuto a tutte le sfide che Birmingham e la vita stessa gli avrebbero posto sul suo cammino. Thomas Shelby ce l’avrebbe fatta a qualunque costo.
“Tommy, vieni a farti un goccio con noi!” lo invitò Arthur non appena mise piede in casa. Mentre i suoi fratelli bevevano, Polly fumava e Ada leggeva uno dei suoi libri da patita del comunismo.
“Solo un goccio. Dobbiamo restare lucidi, abbiamo del lavoro da fare.”
In quel momento Michael entrò nella stanza con espressione tetra. Era tanto giovane eppure così determinato da essere un elemento fondamentale della società.
“Avete saputo la novità?”
“Di che parli?” domandò Thomas con il sopracciglio inarcato, svuotando il bicchiere in un sorso solo.
“Meyer ha comprato altri tre edifici in centro.”
“Quello svizzero del cazzo inizia davvero a darmi sui nervi!” sbottò Arthur, seduto sulla scrivania intento a fumare un sigaro.
Noah Meyer da mesi stava tormentando gli affari di Thomas. Stava acquistando innumerevoli immobili in tutta Birmingham con il solo scopo di strappare il potere agli Shelby. In meno di un anno aveva conquistato mezza città.
“Non capisco quale sia il suo cazzo di problema! Che cazzo vuole? I soldi? Paghiamolo e leviamocelo di torno.” Propose Arthur lisciandosi i baffi. Polly emise una risatina e spense la sigaretta nel posacenere.
“Meyer è ricco e dei nostri soldi non se ne fa niente. C’è sotto qualcos’altro. Magari uno di voi è andato a letto con sua sorella o con sua moglie.”
“No, - disse allora Thomas – nessuno è stato con sua sorella e Meyer non è sposato. Hai ragione a dire che sotto c’è qualcosa ma il problema è capire cosa sia. Dobbiamo fare qualche ricerca prima che il bastardo ci fotta altri edifici.”
“I nostri hanno preso tre bar in centro e stamattina occuperanno lo studio medico in fondo alla strada.” Comunicò Michael, che aveva pattuito con Thomas la strategia migliore. Tommy annuì e poi si riversò in strada.
 
Dopo aver parcheggiato, Amabel rimase in auto per qualche altro minuto. Respirava a fondo con gli occhi chiusi nella speranza di darsi coraggio. Non entrava nello studio medico di suo padre da quando era partita per la guerra e sentiva il cuore in gola per l’emozione. A passo svelto si diresse verso il palazzo presso cui era ubicato lo studio. Fu travolta dai ricordi: la prima volta che suo padre l’aveva portata lì, i pomeriggi trascorsi a svolgere i compiti nella sala di aspetto, e le prime nozioni di medicina che aveva imparato. Giunta davanti allo studio, anziché essere contenta, il suo viso si contrasse in una smorfia. Due uomini sostavano all’esterno e un terzo stava sigillando la porta con un catenaccio.
“Scusatemi, che state facendo? Quella è proprietà privata!”
I due non le prestarono ascolto, continuavano imperterriti nelle loro azioni.
“Per la miseria! Chi siete e cosa volete?” sbraitò, battendo un piede a terra.
“Vattene, donna.”
“Quello studio appartiene a me! E se non ve ne andate, chiamo la polizia!”
“Hai sentito, Ben? Chiama la polizia?”
I tre uomini scoppiarono a ridere come se le lamentele di Amabel fosse chissà quanto spassose.
“Signorina, questo posto è requisito.”
“Requisito? Chi diamine lo ha deciso?”
“Sì, requisito. Per ordine dei Peaky Blinders!”
Amabel sollevò le sopracciglia e spalancò la bocca.
“E chi sono i Peaky-qualcosa?”
 
Thomas era il tipo di persone che inglobava i pensieri, li accantonava in un remoto angolo della mente e non gli dava più peso. Si concedeva, però, una sola eccezione, un solo pensiero che ogni anno gli balzava alla memoria involontariamente: il medico che l’aveva salvato dalle ustioni in Francia. La degenza era stata lunga, circa un mese durante il quale quel medico era stato con lui giorno e notte. Per più di sessanta giorni aveva dovuto tenere il viso completamente fasciato e il dolore del cambio delle bende bruciava ancora sulla pelle, ma quel medico era in grado di alleviare quelle terribili sofferenze. Vi lascio questo come ricordo perché non vi dimentichiate di me, gli aveva detto il medico per poi regalargli il suo fazzoletto ricamato. Quel suo flusso di pensieri fu interrotto da una donna che irruppe nella stanza con un diavolo per capello. Alle sue spalle Arthur e Michael se la ridevano.
“Siete voi Thomas Shelby?”
Era giovane, con i capelli castani che arrivavano alle spalle, un esuberante cappello rosso e quella che aveva tutta l’aria di essere una valigetta da medico.
“Sono io. Voi siete?”
“Amabel Hamilton, figlia del dottor Oswald Hamilton, nonché proprietaria dello studio in fondo alla strada che per vostro ordine mi è stato requisito! Chi diamine siete voi per appropriarvi di qualcosa che è mio?”
“Sono Thomas Shelby, tesoro.” Rispose Thomas con nonchalance, sfoggiando tutto il suo charme. Anziché restarne affascinata, Amabel aggrottò le sopracciglia.
“Tesoro? E’ così che avete intenzione di giocarvela? Non siete affatto divertente e nessuno vi ha concesso una confidenza tale da affibbiarmi nomignoli affettuosi. Inoltre, il vostro nome non vi autorizza a prendervi il mio studio!”
Thomas rimase interdetto per qualche istante, la dialettica di quella donna lo aveva messo a tacere. Capitava raramente che si facesse togliere la parola da qualcuno.
“D’accordo, vorrà dire che lo comprerò. Quanto volete?”
“Non vi venderò lo studio, signor Shelby.”
“Suvvia, abbiamo tutti un prezzo. Il vostro qual è?”
Amabel drizzò la schiena e strinse le mani intorno ai manici della valigetta un tempo appartenuta a suo padre.
“Lo studio non ha un prezzo perché non è in vendita. Ha un valore sentimentale per me. Mio padre ha lavorato lì dentro per oltre venti anni e adesso lo prendo in gestione io. Se volete, vi pago la somma che avreste speso voi se l’aveste comprato. Qual è il vostro prezzo?”
Thomas si prese un attimo per guardarla bene. Era una donna bellissima, ma c’era dell’altro in lei che lo incuriosiva. Aveva la sensazione di averla già vista diversi anni prima. Dovette elaborare una contro offerta ragionevole per non perdere anche quell’immobile, altrimenti Meyer avrebbe avuto la meglio.
“E se stringessimo un patto? Vi prego, sedetevi, discutiamone.”
Amabel si sedette con fare circospetto, la strana gentilezza dell’uomo ora la stupiva. Doveva ammettere che era un uomo attraente, capelli neri, accattivanti occhi azzurri, e quell’espressione rilassata che tradiva un non so che di meschino.
“Un patto? Ebbene, vi ascolto.”
“Se voi diventaste il nostro medico, lo studio rimarrebbe a voi e io avrei una proprietà in più. Nessuno spende soldi, nessuno perde l’immobile, e nessuno smette di badare ai propri affari. Che ve ne pare?”
“Chi mi assicura che rispetterete il patto, signor Shelby?”
“Depositerò una somma consistente sul vostro conto bancario, quella sarà la vostra assicurazione. Prendere o lasciare, signorina Hamilton. Prendere o lasciare.”
Amabel si passò una mano sulla fronte, era stata messa all’angolo e doveva prendere una decisone in fretta.
“Una somma consistente di denaro non mi assicura che voi rispetterete l’accordo.”
Thomas ghignò, appoggiò la schiena contro la poltrona e iniziò a fumare.
“Infatti. Ciò vuol dire che dovrete fidarmi di me, nonostante non mi conosciate. Vi ripeto: prendere o lasciare.”
“Accetto la vostra offerta.”
Thomas sorrise compiaciuto e allungò la mano destra verso di lei, che titubante la strinse.
“Benvenuta a bordo, dottoressa.”
 
 
Bertha servì il dolce in soggiorno ma Amabel non si unì alle sorelle, rimase in sala da pranzo in piena meditazione. La domestica, che l’aveva vista crescere, sapeva che qualcosa la turbava, lo leggeva nella linea che le aggrottava la fronte.
“Che succede, signorina? Vi vedo preoccupata.” Disse Bertha, riservandole un piattino di torta, che Amabel rifiutò con un cenno della testa.
“Tu sai chi sono i Peaky Blinders?”
Il volto della domestica fu attraversato dalla paura e la solita espressione bonaria cedette il passo ad una più oscura.
“Perché mi fate questa domanda? I Peaky Blinders sono un argomento che deve restare fuori da questa casa.”
“Bertha, per favore, rispondi. Chi sono?”
“Gli Shelby regnano su Birmingham dalla fine della guerra. Controllano, manipolano, razziano, uccidono. Il capo dei Peaky Blinders è Thomas, poi vengono sua zia Polly e il fratello Arthur. Ultimamente si è unito anche il cugino Michael, mentre la sorella Ada si gode perlopiù i loro sporchi soldi.”
“Quindi sono pericolosi.” Concluse Amabel, le mani incrociate sotto il mento, lo sguardo fisso nel vuoto. Bertha annuì, ancora terrorizzata.
“Sono molto pericolosi. Voi dovete stare lontana da loro, portano solo guai e disseminano morte ovunque vadano. Promettetemi che non avrete mai a che fare con loro.”
Gli occhi di Amabel si inumidirono e la gola si inaridì, era come se avesse percorso il deserto a piedi per mesi interi senza un goccio d’acqua. Si era invischiata in un brutto affare e non poteva tirarsi indietro. Udì le risate allegre delle due sorelle e una freccia invisibile le trafisse il cuore. Si rinsavì quando Bertha le toccò la mano.
“Promettete, signorina.”
“Sì, sì. Lo prometto.”
 
 
Salve a tutti!
Questa è il mio primo tentativo di scrivere qualcosa su questa serie tv, perciò spero di essermela cavata più o meno.
La storia non segue l’ordine cronologico né tantomeno degli eventi, spero che non sia un problema per voi.
Questo è solo l’inizio di un viaggio nelle strade di Small Heath.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima.
Un bacio.
 
PS. Tutte le citazioni sono prese dalla colonna sonora della serie.

 
  
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