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Autore: Dida77    13/04/2019    5 recensioni
Per tutti ormai è Captain America, ma per Bucky resterà sempre quel ragazzino magro da difendere contro il resto nel mondo.
#stucky
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per la challenge "Opera Easter Advent Calendar" del gruppo Facebook "Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart"

“La situazione adesso è stabile, Capitano, ma ha perso molto sangue. La pallottola ha sbriciolato una costola e ha trapassato un polmone. L’operazione è andata bene e non ci dovrebbero essere conseguenze a lungo termine, ma al suo risveglio respirare non sarà facile. Per le prossime sei ore non possiamo somministrargli altri sedativi o antidolorifici e, considerando il metabolismo del Sergente, credo si sveglierà prima. Purtroppo non sarà piacevole. Normalmente non ammettiamo nessuno in reparto, ma data la particolarità della situazione, stanotte le permettiamo di restare con lui, in modo che non sia solo quando si sveglierà. È importante che resti il più possibile tranquillo e spero che la sua presenza ci aiuti in questo senso. Le infermiere passeranno regolarmente ogni ora, ma per qualsiasi cosa usi il pulsante rosso accanto al letto.”

“Grazie mille dottore. Grazie di tutto.”

Sento la mia voce che risponde al dottore. Vedo la mia mano che si allunga verso la sua e che la stringe con gratitudine. Ma è strano, come se non fossi io a rispondere, ma qualcun altro. Come se guardassi la scena da fuori, solo uno spettatore di una messa in scena che, in verità, non voglio guardare. Perché non voglio credere che oggi ti ho quasi perso. Di nuovo. Non voglio pensare che tu sei qui sdraiato in questo letto di ospedale e che io non posso far altro che star qui e aspettare che tu ti svegli.

Mi siedo su una sedia imbottita che un qualche infermiere pietoso ha preparato vicino al tuo letto. È molto più comoda delle sedie che normalmente si trovano nelle sale d’aspetto di un ospedale. Sono sicuro che non sia un caso, qualcuno deve averla cercata apposta per rendere più facile l’attesa. Una premura per cui non so chi ringraziare e che, in qualche modo, mi scalda il cuore.

La stanza è tranquilla, in penombra, illuminata soltanto da una lampada lasciata accesa sul comodino dall’altra parte del letto. Quel tanto che basta per vederti lì, immobile, con la cannula dell’ossigeno sotto il naso per aiutarti a respirare meglio. Addosso hai solo un camice ospedaliero, che copre le bende lasciate dopo l’operazione. Da lì escono una miriade di fili collegati ad una miriade di macchine che tengono sotto controllo i tuoi parametri vitali. Il loro bip bip regolare è l’unico suono che si sente dentro a questa stanza isolata dal mondo. Ci sarebbe una gran pace, in fondo, se io non fossi qui che aspetto ansioso e terrorizzato il momento in cui ti sveglierai.

Li odio questi camici da ospedale che sembrano fatti di carta, che coprono ma non scaldano. Ho l'impressione che tu abbia freddo con solo quel camice addosso e vorrei tanto tirarti su le coperte fino al mento, ma la paura di farti male e di disturbare il tuo sonno mi blocca. In fondo si sta bene in questa stanza, non c’è freddo, mi ripeto in continuazione. Ma la sensazione che quel camice sia troppo leggero non mi abbandona.

Decido di star qui fermo, su questa sedia, e di guardarti da mezzo metro di distanza, per non disturbarti. Non riesco a rendermi conto che sei lì per colpa mia. Ancora, di nuovo, per colpa mia. Un cecchino, un maledetto cecchino che non ho visto, mentre tu sì. Tu lo hai visto e hai capito che stava per sparare. Perché sei un cecchino anche tu, bravo, maledettamente bravo, e te ne sei reso conto. Ma era tardi per avvertirmi. E allora cosa hai fatto? L’unica cosa che ti sia venuta in mente in quel momento. Mi hai spinto a terra e ti sei messo in mezzo per salvarmi, come hai sempre fatto da quando ci conosciamo. La pallottola, però, era di quelle speciali e stavolta la tuta di kevlar non è servita a molto.

Adesso sono qui che ti guardo e aspetto con il cuore in gola, felice comunque di poter stare al tuo fianco. Ma anche mezzo metro di distanza tra di noi è troppo. Avvicino ancora di più la sedia al letto e ti prendo la mano. È calda malgrado tutto il sangue che hai perso, malgrado il camice di carta, e questo mi tranquillizza. Con la tua mano calda nella mia, il fatto che tu sia vivo mi sembra più reale. Come se al mio cervello fosse necessaria una prova tangibile di non averti perso di nuovo.
È così bella la tua mano. Lo sapevo già, ho disegnato le tue mani molte volte. Ma in questo momento il vederla così bella mi colpisce come una rivelazione. Mi trovo a fissarla con un’attenzione che forse non ho mai avuto, come se imprimermi nella mente ogni più piccolo particolare della tua mano fosse, in questo momento, la cosa più importante del mondo. Non sono più in grado di lasciarla, la tua mano, non la voglio più lasciare andare.

Mi accomodo sulla sedia e dopo un po’ la stanchezza mi piomba addosso tutta insieme. La penombra e il bip bip regolare fanno il resto e chiudo gli occhi.
La tua mano ancora nella mia.



Mi sveglio dopo non so quanto. Sei tu a svegliarmi. Stai iniziando a muoverti e ad agitarti. Il tuo viso, prima disteso, adesso si sta contraendo in una morsa di dolore. Non sei ancora sveglio, non hai ancora aperto gli occhi, ma il dolore sta già prendendo il sopravvento. Controllo l’orologio, altre tre ore prima che possano somministrarti altri sedativi. Solo tre ore. Possiamo farcela.

In un attimo sono vicino a te, il mio viso vicinissimo al tuo. Ti chiamo piano.

“Bucky, ehi Bucky. Riesci a sentirmi? Sono Steve…”

Lo ripeto una, due, tre volte, mentre lascio la mano stretta sulla tua e con l’altra ti accarezzo la fronte e ti sposto le ciocche di capelli ribelli dietro le orecchie. Mi sento impotente. Non posso far altro che stare qui, accanto a te, e farti sentire che non sei solo.

“Bucky, ehi Bucky.” Ripeto per l’ennesima volta.

Strizzi gli occhi e sbatti le palpebre. Ti guardi intorno, spaesato, cercando di capire dove ti trovi. Poi i tuoi occhi incrociano i miei e, istintivamente, sorridi.

“Steve…” ti azzardi a dire. Ma una fitta di dolore ti attraversa il petto togliendoti il fiato.

“Ehi ehi, non parlare, ok? La pallottola ti ha fracassato una costola e ti ha trapassato un polmone. Hai perso un sacco di sangue. Te la sei vista brutta. Ma adesso è tutto ok. Non devi far altro che star tranquillo e non parlare.”

Continuo ad accarezzarti la fronte e sembri calmarti al suono della mia voce. Quindi continuo a parlare.

“Per un po’ abbiamo pensato al peggio, ma i dottori hanno detto che adesso sei fuori pericolo e che tornerai come nuovo. Ma per altre tre ore non possono darti altri antidolorifici. Per il momento dovremo cavarcela così... So che fa male, soprattutto respirare, ma è normale. Non c’è niente di cui preoccuparsi.”

Annuisci piano con la testa, l’unica cosa che per il momento ti è concessa. Il dolore non è costante, arriva ad ondate successive, ad ogni respiro. Strizzi gli occhi quando il dolore si fa più forte e stringi forte la mia mano, come se fosse la tua ancora di salvezza.

“Respira piano Bucky, tra un po’ passa. Respira con me… piano, così. Bravissimo.”

Respirare insieme a me sembra allentare un po’ il dolore. Non so perché succeda, ma funzionava anche per me durante le mie interminabili polmoniti di settant’anni fa e, grazie al cielo, sembra funzionare anche stanotte, a ruoli invertiti.

Controllo di nuovo l’orologio. Ancora due ore e mezzo. Non pensavo che tre ore potessero essere così lunghe. Star qui a vederti soffrire mi distrugge dentro, ma lasciarti qui da solo, anche solo per una manciata di minuti, è un pensiero che nemmeno mi sfiora. Continuo a stringerti la mano, ad accarezzarti la fronte, a guardarti negli occhi e a respirare con te. Non posso fare altro, ma questo posso farlo. Posso farlo per tutta la notte e per tutto il giorno se necessario.

Il dolore allenta la sua morsa su di te e tu ti concedi un sorriso tirato che, in questo momento, sembra illuminare la stanza. Poi aggrotti le ciglia, come colpito da un pensiero improvviso e, prima che possa bloccarti, parli di nuovo.

“S… sei arrabbia..to?” mi chiedi raccogliendo tutte le forze di cui sei capace. Il tuo volto diventa una maschera di dolore per la fitta al petto provocata da quelle poche parole. Il dolore ti mozza il fiato e io mi alzo di nuovo dalla sedia su cui mi ero seduto per avvicinarmi subito a te.

“Shhh. Tranquillo. Non devi parlare. Ok? Devi cercare di star tranquillo.” Rispondo immediatamente, prima che il mio cervello processi le tue parole. Poi, dopo alcuni secondi capisco la domanda e mi rendo conto di quanto sia importante per te.

“No, certo che non sono arrabbiato, cretino. Come puoi solo pensarlo? Per tutti sono Captain America, ma per te resterò sempre quel ragazzino gracile di Brooklin da proteggere dal resto del mondo. Vero? Non è la prima volta che metti al rischio la tua vita per proteggermi… Non sono arrabbiato, però mi sono spaventato a morte. Questo sì. Non farlo più. Ok?”

Tu annuisci piano. Io ti bacio le nocche della mano che non ho più lasciato andare da quando mi sono seduto qui accanto a te. La vista appannata da lacrime che non voglio far scendere. La verità è che vorrei solo perdermi nel tuo abbraccio, sentire la tua voce che mi dà del cretino e che mi dice che, in fondo, non è successo niente e che siamo ancora insieme. Ci sarà tempo anche per quello. Ormai lo so. Quindi trattengo le lacrime. Le piangerò tutte insieme quando starai meglio. Per adesso il mio dolore e la mia paura non contano. Per adesso conti solo tu.

“Dai, su. Adesso non pensare a queste cose e respira insieme a me. E no, se è questo che stai pensando. Non ti lascio. Resto qui con te.”

Di nuovo quel sorriso tirato sulle labbra. Non manca molto, ormai. Solo un’ora. Solo un’ora di noi due che ci guardiamo negli occhi e respiriamo insieme. Ogni respiro è una sofferenza, ma non manca molto ormai…



Puntuale come le ore precedenti, un’infermiera entra nella stanza.

“Possiamo fare l’antidolorifico.” Dice professionale con la fiala e la siringa già in mano. “Dovrebbe fare effetto in pochi minuti.”

Annuisco piano non lasciando andare il tuo sguardo nemmeno per un momento.

“Grazie.” Rispondo, mentre lei armeggia già con la cannula della flebo.

In pochi minuti il dolore allenta la sua morsa e le tue palpebre si fanno pesanti. “R…resta qui.” Mi chiedi subito prima di addormentarti.

“Ma certo.” Ti rispondo subito. Solo il tempo di sorridermi che ti sei già addormentato.

La tua mano ancora nella mia.
   
 
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