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Autore: yonoi    17/04/2019    8 recensioni
Catena dell’Himalaya, tra il regno del Bhutan e il Tibet, a quota 7.570 metri: il Gangkar Punsum, la montagna dei tre Fratelli, è l’ultima vetta al mondo ancora inviolata. Un’improbabile spedizione composta da tre guide alpine, un’archeologa esperta di mummie, due giovani dal passato tormentato e uno studioso di buddhismo tibetano, parte per conquistare la vetta. Eppure il governo del Bhutan ha imposto ufficialmente il divieto di profanare la dimora degli spiriti celesti. C’è di più: a quanto riferiscono gli abitanti del luogo, pare che sia la stessa montagna a rifiutare di essere scalata…
Prima classificata al contest “Lavoratori allo sbaraglio” indetto da Laodamia sul Forum di EFP, a pari merito con "Pene d'amor perduto" di Amor31 e "Sottile come un filo di cotone" di Ayumu7.
Genere: Avventura, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Il Signore del Drago Tonante
 

 
 
Alice: “Volevo soltanto chiederle che strada devo prendere!”
Stregatto: “Beh, tutto dipende da dove vuoi andare!”
Alice: “Oh, veramente importa poco, purché io riesca…”
Stregatto: “Be’, allora importa poco che strada prendi!”



(da “Alice nel paese delle meraviglie”, W. Disney, 1951 )
 
 “L’avventura è soltanto cattiva pianificazione”
 
(Roald Amundsen)
 
1. La montagna dei Tre Fratelli
 

Parete sud del Gangkar Punsum, catena dell’Himalaya, Bhutan settentrionale.
Ore 9:30 del 15 maggio 2018.
 
Il corpo era rannicchiato sotto a una sporgenza, proprio accanto alle corde a cui si aggrappava la spedizione, in fila su una cornice di pochi centimetri.  
Il volto era nascosto dagli occhiali da sole e dal boccaglio ancora attaccato alla bombola, un paio di grossi guanti stringevano il torace nel tentativo di trattenere l’ultimo calore. Pareva che si fosse tirato sulla testa una coperta, perché l’uomo della nicchia era interamente avvolto da uno strato di brina. Visto da lontano, somigliava a un grottesco pupazzo di neve.
Contro alla roccia che formava il suo ultimo riparo, il vento che spazzava a precipizio il pendio faceva un capitombolo e prendeva a fischiare forte: crepitava sugli abiti di quella spoglia immobile, quasi per invitarla a levarsi di mezzo.
L’insepolto intralciava il percorso del vento, ma anche la spedizione: i ramponi tagliavano la strada agli alpinisti in salita, come se quel macabro abitante della parete sud volesse fare lo sgambetto di proposito.
Qualcuno infatti inciampò dando uno strattone alle corde, che vibrarono trasmettendo al resto del gruppo la medesima inquietudine.    
Senza neanche voltarsi, Rabauer incitò i suoi a proseguire:
“Abbiamo circa quattro ore a disposizione per fare vetta. Ricordate che alle due precise, ovunque vi troviate, faremo marcia indietro per rientrare al campo tre. Restate concentrati, siamo già in ritardo sulla tabella di marcia.”
Non c’era altro da aggiungere. La compagnia si era appena imbattuta in un uno degli alpinisti infortunati o dispersi nel corso di una delle spedizioni che in precedenza avevano tentato la scalata al Gangkar Punsum, la Montagna dei Tre Fratelli.
Nel 1996 il governo del Bhutan aveva deciso di vietare le escursioni oltre i seimila metri, per rispetto alla credenza secondo cui gli spiriti avevano la loro dimora sulle vette: ma ancor prima, nessuna missione era riuscita a raggiungere la cima per motivi che ancora restavano da chiarire.   
Indubbiamente, l’uomo della nicchia aveva ceduto allo sfinimento, al mal di montagna o a chissà che altro. Non era stato in grado di proseguire né di scendere a valle sulle sue gambe, e a quel punto i compagni l’avevano abbandonato.
Rabauer lo sapeva: a quelle altitudini, dove ogni passo pesava come una colata di cemento e il debito di ossigeno si faceva sentire, ognuno poteva contare soltanto su se stesso. Lasciare indietro chi non riusciva a proseguire era storia già vista e Rabauer l’aveva visto succedere di frequente durante le numerose spedizioni himalayane che contava all’attivo. L’alternativa era consumare le bombole senza riuscire, in molti casi, a rianimare gli infortunati. Ricondurli a valle lungo un tragitto impervio, che contava passaggi tecnicamente difficili e incertezze legate al clima, era sempre un’impresa in grado di mettere in crisi i rocciatori più esperti.
La stima degli insepolti sulle creste dell’Himalaya, la dimora delle nevi, ammontava a un centinaio. Molti erano disseminati lungo i sentieri più battuti e fungevano addirittura da punti di riferimento.
Per quanto riguardava il Gangkar Punsum, il problema non si poneva: le notizie relative alle ultime missioni erano più che frammentarie e nessuno era a conoscenza di eventuali incidenti. Ufficialmente, non esistevano cadaveri tra le rocce e in fondo ai dirupi dei Tre Fratelli. In seguito, era sopravvenuto il divieto di profanare la casa degli spiriti celesti e la spedizione guidata da Rabauer era stata autorizzata esclusivamente a raggiungere il campo base. Tutt’al più, a sgranchirsi le gambe con un trekking nei dintorni.
Per gli eventuali infortunati della cordata che in quel momento avanzava con l’anima tra i denti, il riposo eterno tra i ghiacci faceva parte del pacchetto tutto compreso offerto dalla Compagnia per la ridicola cifra di quattromila dollari: un prezzo stracciato in confronto a quanto richiesto dai tour operator per avventurarsi sull’Everest; un costo esorbitante considerato che la missione non era autorizzata, i clienti non fruivano di alcuna copertura assicurativa e prima di partire avevano sottoscritto una mole di documenti per sollevare la Compagnia da qualsiasi responsabilità.
Di fatto, tutti i membri della spedizione erano già dispersi ancor prima di salire sull’aereo che li aveva condotti, attraverso un pittoresco labirinto di scali e coincidenze, fino all’aeroporto internazionale del Bhutan, nella città di Paro dalle colline verdi e i templi che occhieggiavano, bianchi, lungo i crinali.
La spedizione non era assistita da nessun abitante del luogo: né sherpa, né yak.
Con Rabauer a quattr’occhi, e nelle numerose clausole che i partecipanti si erano impegnati a sottoscrivere, la Compagnia era stata esplicita: massima segretezza e nessun contatto con i locali. Solo in caso di successo, sarebbero state avviate le opportune trattative per ottenere dal governo la revoca del divieto ad accedere al Gangkar Punsum. Tramite una particolareggiata documentazione supportata da file video, la Compagnia contava di riuscire a convincere quel piccolo reame di bambini superstiziosi a mettere in piedi un business analogo a quello che già esisteva sull’Everest. 
Scopo della missione guidata da Rabauer era dimostrare che il Gangkar Punsum era accessibile e che gli spiriti, ammesso che ci fossero, non avevano nulla contrario a far salire gli escursionisti. Il Bhutan aveva solo da guadagnarci permettendo ai ricchi occidentali di andarci a spasso.
Ovviamente, ciò che il governo avrebbe ricavato dal business sarebbe stato un pugno di riso, in confronto ai profitti che la Compagnia contava di realizzare organizzando tour per ogni tipo di tasche, ma questa era un’altra faccenda. O meglio, questo era il succo dell’intera questione.
La spedizione che in quel momento affrontava la scalata utilizzando le corde che Rabauer fissava avanzando con piccozza e ramponi, era composta da tre guide e quattro clienti: un’archeologa esperta in tecniche di mummificazione, uno studioso appassionato di buddhismo e due ragazzotti con l’aria dei ricchi vagabondi.
Rabauer si voltò un istante a guardarli: prima della partenza neppure li conosceva, e quanto al loro livello di esperienza e allenamento, anche quello rientrava nel novero delle responsabilità che i singoli partecipanti si erano dovuti accollare, in cambio del privilegio di essere i primi a far vetta sui Tre Fratelli.
L’unica faccia nota era quella di Peter Moroder, un altro altoatesino che vantava parecchi ottomila nel suo curriculum. In quel momento si trovava al centro della fila che procedeva a testa bassa lungo il pendio: il suo compito era aiutare i clienti a salire, controllando al contempo la tenuta delle bombole ed eventuali piedi in fallo. Controllare le bombole era completamente inutile, dal momento che sul Gangkar Punsum non esistevano punti di rifornimento, ma dal punto di vista di Moroder quelle verifiche puntuali rappresentavano una forma di scaramanzia. Finché c’era ossigeno c’era vita, e finché c’era vita c’era anche la speranza di arrivare in cima tutti quanti e senza grane.
In retroguardia saliva l’uomo della Compagnia, la terza guida. Un tizio dall’aria lugubre il cui compito era essenzialmente quello di reggere la videocamera e riprendere le varie fasi della scalata. All’inizio Rabauer si era rivolto a quella specie di gufo sperando di ottenere qualche informazione in più: quali risorse contava il campo base e quanto era distante dalla cima vera e propria, il cosiddetto Fratello Maggiore.
Ben presto tuttavia, Rabauer si era accorto che di alpinismo e soprattutto del Gangkar Punsum l’uomo della Compagnia ne sapeva quanto i due ragazzotti in gita di piacere: praticamente zero, con l’aggravante che il gufo era cinico e disfattista per carattere e per principio.
“Non esistono altri avamposti oltre al campo base, lei dovrebbe saperlo.”
“Non ci sono punti di rifornimento lungo il tragitto, non c’è il satellitare, non è previsto l’elisoccorso.” Pareva che il gufo ci godesse un mondo a descrivere a fosche tinte una situazione che peraltro lo riguardava direttamente, essendo anche lui un componente della cordata.
Pur non essendo superstizioso, Rabauer era giunto presto alla conclusione che l’uomo della Compagnia, invece di esser d’aiuto, avrebbe portato iella all’intera spedizione.
Rabauer detto il Kaiser amava passare le serate nei rifugi ingollando grappini in grado di scaldare l’anima e il sangue, giocando sanguinose partite a scopone e imprecando come un mandriano nel caso in cui le carte fossero a suo sfavore. In parete teneva sotto un controllo ferreo ogni dettaglio, dall’equipaggiamento agli umori del cielo e della montagna. Per quanto riguardava i compagni di scalata, anche quando si trattava di clienti paganti l’ultima parola spettava sempre al Kaiser:
“Il capo cordata ha tutte le responsabilità. Quindi, sta a me decidere chi è in grado di salire e chi invece è meglio che resti a valle a prendere il sole, a far foto alle mucche e a mangiare strudel. Non voglio gente con le vertigini, nessuno che si faccia venire gli attacchi di panico e soprattutto nessuno che abbia l’intenzione di far di testa propria.”
Eppure, per qualche strana ragione che si spiegava solo col fascino della conquista, gli era toccato di finire in capo al mondo a scalare una vetta circondata dal nulla, insieme a una zavorra di gente sprovveduta o addirittura propensa a portare scalogna.
L’unico di cui si fidava era appunto Peter Moroder, un compaesano che il Kaiser aveva coinvolto non senza resistenze da parte della Compagnia:
“Sia chiaro, Rabauer: date le circostanze, la spedizione ammette un numero ristretto di partecipanti. A titolo esclusivamente dimostrativo abbiamo selezionato dei clienti, ma non stiamo organizzando una gita turistica. Il compenso del suo collega sarà lei a pagarlo, dal momento che insiste per portarselo dietro.”
“Sarà meglio portarsi dietro qualcuno che sappia come cavarsela,” s’era impuntato Rabauer. “Non mi pare si possa dire lo stesso dei vostri clienti.”
Al Kaiser era bastato dare un’occhiata alle schede dei partecipanti per far diagnosi con assoluta sicurezza: “Questi qua, al massimo, avranno scalato le montagne russe del luna park.”
La Compagnia, per bocca di un non meglio precisato responsabile delle spedizioni, aveva replicato che un loro uomo di fiducia avrebbe partecipato all’impresa. Dopo aver conosciuto il gufo, Rabauer si era convinto una volta di più che la presenza di Moroder avrebbe giocato un ruolo fondamentale: se non altro per evitare che tutto il gruppo scomparisse in un crepaccio, mentre lui era impegnato ad aprire la via in salita.
Moroder e Rabauer si conoscevano dai tempi in cui una fortunosa spedizione sulla Marmolada aveva corso il rischio di essere spazzata via da una valanga, come una fila di birilli su una pista da bowling.
Moroder guidava gli allievi della sua scuola di roccia, Rabauer s’era trovato in coda sulla cengia durante una delle sue frequenti salite in solitaria. Il ghiacciaio stendeva una passatoia da processione solenne tra i pilastri che si ergevano come isole in mezzo al mare, e quella mattina scintillava come un gioiello. La luce era così limpida che cadeva sulla spianata rompendosi in mille pezzi: accendeva bagliori azzurri sulla neve e scrocchiava sotto i passi come se il mondo fosse ancora nuovo di zecca.
A un certo punto Moroder, tendendo l’orecchio, aveva udito una vibrazione che iniziava a crescere man mano d’intensità. Aveva ordinato al gruppo di fare dietrofront e Rabauer s’era trovato a dover fare marcia indietro a sua volta. Il ghiacciaio contava numerose grotte già utilizzate durante la prima guerra mondiale come depositi di artiglieria dagli Austriaci. Dentro a una di queste, gli escursionisti erano riusciti a trovare riparo: appena in tempo per vedere quella colata turbinosa di detriti e lastroni che si abbatteva con la potenza di un fiume in piena, rompendo gli argini del ghiacciaio, spezzando in due le rocce e trascinandole a valle.
Con un lavoro certosino di ore le due guide erano riuscite a riportare alla luce tutti i quindici sbigottiti allievi della scuola, rimasti intrappolati da un muro di neve che aveva ostruito l’ingresso. Con la sensazione di essere catapultati sulle scene di un film catastrofico, Moroder e il Kaiser avevano scavato un cunicolo a mani nude. Infine, erano riusciti a condurre fuori l’intero gruppo mentre ancora gli elicotteri del soccorso giravano a vuoto. Il fruscio delle pale scalfiva appena il silenzio che era calato improvviso, dopo il boato che aveva scosso fin nelle viscere il ventre del ghiacciaio.
Dopo quell’esperienza, gli allievi rocciatori era tornati alle loro tranquille occupazioni di impiegati, ragionieri e geometri, con l’unica accortezza di organizzare le ferie al mare per il resto dei loro giorni.
Rabauer e Peter Moroder avevano tirato il collo all’ansia trascorrendo intere serate nelle stube a scolare pinte di birra, a giocare interminabili partite a carte e a ripercorrere daccapo le loro traversie. In base al tasso alcolico i racconti si arricchivano di particolari, di angosce mai rivelate, di strani presentimenti e visioni immaginifiche che avevano il solo scopo di accrescere il sollievo una volta giunti all’immancabile lieto fine. Durante quelle lunghe sedute psicoanalitiche sulle panche della stube, i due rocciatori avevano trovato il tempo e l’occasione per gettare le basi di un’amicizia di ferro.
Fu proprio durante una di quelle serate che Moroder accettò di andare a impelagarsi in quella missione balorda organizzata dalla Compagnia ai confini del mondo.
Dopo aver prosciugato il terzo boccale, Rabauer aveva riassunto il nocciolo della questione: “Il gruppo dei clienti è tutta gente inesperta, salire sulla montagna è vietato dal governo, se capita qualche incidente la galera è assicurata, se riusciremo a fare vetta nulla esclude che in galera ci finiremo lo stesso.”
Moroder aveva fatto segno alla fraulein di portare altre due birre, prima di commentare: “Le premesse sono ottime. Tu, come mai hai accettato?”
“Fascino dell’avventura o demenza senile,” aveva riso il Kaiser. “Un modo come un altro per chiudere in bellezza. A cinquantasei anni è arrivato il momento di appendere la piccozza al classico chiodo e mettere la testa a posto. Mi dedicherò a portare a passeggio i clienti dell’albergo dei miei, tranquille gite per famiglie e vecchietti fino al primo rifugio dove mangiare spätzle. Prima, però, non mi dispiacerebbe fare vetta sull’unica montagna ancora inesplorata e magari chiamarla cima Rabauer. Passare alla storia è un buon modo per fare il pienone anche in bassa stagione.”
“E io cosa ci guadagno?”
“La mia eterna riconoscenza, la metà del compenso e la garanzia che il passaggio più rognoso verrà intitolato ferrata Moroder. Posso aggiungere un piatto di spätzle insieme ai miei nonnetti. Quando sarai anche tu un nonnetto rimbambito, avrai qualcosa da raccontare ai tuoi nipoti nelle sere d’inverno. Una volta uscito di galera, naturalmente.”
Moroder aveva accettato e ora si trovava in fondo alla fila, impegnato ad aiutare uno dei clienti - a occhio e croce, il dottor Zampetti - a superare lo sgambetto dell’uomo della nicchia senza troppi timori.
Il Kaiser gli fece cenno, il collega alzò la mano per confermare che non c’erano problemi. La spedizione procedeva e fino a quel momento tutto filava liscio. Rabauer attese di essere raggiunto dal resto del gruppo, prima di attaccare l’ultimo tratto che li avrebbe condotti dritti fino alla vetta.

 
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Colle Isarco, sede locale della Compagnia, alcuni mesi prima
  
Lo scalpore legato all’episodio della valanga e al salvataggio operato da Moroder e Rabauer era rimbalzato come un’eco per le valli, fin sulle prime pagine dei quotidiani nazionali. L’albergo degli anziani genitori del Kaiser aveva registrato il tutto esaurito per almeno due stagioni. La scuola di Peter Moroder aveva ingrossato le file grazie a un altro manipolo di impiegati e bancari che cercavano il brivido dell’adrenalina in quota. Dulcis in fundo, quando la Compagnia l’aveva contattato, il Kaiser aveva trovato un vecchio articolo ritagliato con cura, conservato come una prova a carico dentro a un dossier a suo nome.
L’ufficio in cui era stato convocato pareva, a una prima occhiata, più un magazzino che la sede di un tour operator. Mucchi di scatoloni erano impilati fino a un soffitto da cui pendevano un paio di lampadine, che stentavano a far luce sotto a strati di polvere. Alle pareti non era affisso nessuno dei manifesti tipici delle agenzie: sagome in chiaroscuro di vette al tramonto, mucche pezzate al pascolo e mappe dei sentieri escursionistici per i rifugi. La scrivania del responsabile era un semplice banco di scuola, che pareva piazzato là in maniera del tutto provvisoria.
Dietro al banco c’era addirittura una lavagna con tanto di gessetto appeso a una cordicella.
Il tizio incaricato di fare gli onori di casa esibiva un’aria da trafficante, accentuata da un continuo sfregarsi le mani: il che poteva essere un semplice segno di nervosismo, o il campanello d’allarme di una fregatura in vista.
Fu a quel punto che Rabauer si rese conto di non avere la più pallida idea di cosa si occupasse la Compagnia. Di più, non l’aveva mai sentita nominare malgrado conoscesse più o meno tutte le imprese che operavano in zona nel settore turistico.
Di punto in bianco, durante uno dei rari periodi di riposo trascorsi a far da guida ai clienti dell’hotel Enzian in Val di Fassa, aveva ricevuto una comunicazione che lo invitava a presentarsi il tal giorno alla tal ora a Colle Isarco sul Brennero, presso l’agenzia di quella fantomatica multinazionale che, sulla carta intestata, elencava filiali soprattutto nelle zone franche del mondo: Bahamas, isole Cayman, Panama, Singapore.
“La presente per proporle il ruolo di guida in spedizione estera che richiede elevate capacità tecniche”, recitava sintetica la missiva, “compenso da definire.” La firma era poco più di uno scarabocchio sotto alla dicitura “Il responsabile dell’ufficio spedizioni”.
“Abbiamo pensato a lei perché è indiscutibilmente il migliore sulla piazza,” aveva esordito il sedicente responsabile, sfregandosi ripetutamente le mani. “Ciò che le proponiamo, cambierà la sua vita in maniera definitiva.”
Rabauer si sforzò di fare del suo meglio per accomodare un metro e novantacinque centimetri per ottanta chili di peso sulla sedia da scolaretto che gli era stata offerta. Posta in quei termini, l’offerta assumeva i contorni velati di una minaccia.
“Si metta comodo, Rabauer,” sorrise il responsabile esibendo una chiostra di denti da caimano e un’altra poderosa sfregata di mani. “La nostra Compagnia intende proporle un’impresa a dir poco eccezionale: scalare l’unica vetta che nessun uomo è ancora riuscito a conquistare. Le offriamo di entrare a pieno titolo nella storia dell’alpinismo, ovviamente dietro lauto compenso.”
La questione del compenso era di marginale interesse per il Kaiser, che nella sua romantica visione del mondo tutto si considerava fuorché un arrampicatore prezzolato. Fu piuttosto quella strana proposta a sorprenderlo. Conosceva tutte le vette del pianeta, quanto meno di nome se proprio non le aveva scalate personalmente. A meno che la Compagnia non intendesse spedirlo sulla Luna, non esisteva cucuzzolo al mondo su cui l’uomo non avesse mai messo piede.
“Dove si troverebbe questa montagna sconosciuta?”
“Si tratta di conquistare le vetta principale del Gangkar Punsum,” azzardò il responsabile. “Sulla catena dell’Himalaya a quota 7.570 metri.”
Rabauer non cadde dalla sedia soltanto perché questa era praticamente rasoterra.
Chiunque fosse pratico dell’Himalaya sapeva che le spedizioni sul Gangkar Punsum erano vietate da più di vent’anni. L’intera faccenda cominciava a puzzare d’illegalità lontano un miglio.
Eppure, di lì a poco Rabauer si risolse a firmare non solo un accordo sulla cui validità qualsiasi studente di legge avrebbe avuto da ridire, ma una quantità di liberatorie che, via via che i fogli si ammucchiavano sul banco, assumevano sempre più i connotati di un capestro in piena regola, anzi contro ogni regola.
All’inizio aveva sollevato qualche obiezione, ma il caimano aveva sfoderato la sua migliore aria da imbonitore: “Lasci a noi le questioni politiche. A lei interessa scalare e questo è esattamente ciò che le proponiamo. Non le chiediamo semplicemente di accompagnare dei clienti, ma di aprire una nuova via che, se tutto va bene, potrà anche essere intitolata a suo nome. Se le cose andranno come devono andare, lei sarà il primo a mettere piede su quella vetta.”
“Chissà perché ho l’idea che se finirò in galera, voi non vi prenderete il disturbo di venire a levarmi le chiappe dalla graticola.”
“Questo è affar suo, Rabauer: si attenga alle indicazioni che noi le forniremo e non correrà alcun rischio.”
Dopo un’altra energica sfregata di mani il tizio aveva cavato fuori una serie di foto, mettendole sotto al naso diffidente del Kaiser: “Tanto per cominciare, ho il piacere di presentarle il Gangkar Punsum.”
Le immagini ritraevano un paesaggio di infinita suggestione, un’autentica calamita per gli occhi e per l’anima: tre picchi solenni ammantati di neve contro a un cielo di smalto, alle pendici di una foresta colma di ombre.
La struttura ricordava quella remota montagna degli Stati Uniti d’America con i volti dei Presidenti scolpiti nel granito. Alla stessa maniera, le tre cime gemelle volgevano lo sguardo verso l’osservatore, impassibili e neutre. Molto probabilmente, se qualcuno si fosse avventurato a scalarle, avrebbero chinato i loro pinnacoli per scrutare quella minuzia, prima di ributtarla a valle e a gambe all’aria con una sola scrollata dei loro mantelli.
“La Montagna dei Tre Fratelli spirituali: questo è il significato del nome Gangkar Punsum,” aveva spiegato il responsabile, guardando di sottecchi il Kaiser. “Quasi ottomila metri ancora incontaminati, al confine tra il regno del Bhutan e il Tibet.”
“Quindi, l’alternativa è tra finire in carcere nel Bhutan oppure in Cina. Buono a sapersi.”
Rabauer aveva brontolato tanto per dir qualcosa, perché tutta la sua attenzione era assorbita dallo spettacolo dei tre incappucciati.
“Secondo i locali la montagna rifiuterebbe di essere scalata, ma queste sono solo  superstizioni. A quanto ci risulta, la seconda delle tre cime è stata conquistata da una spedizione giapponese nel 1999. Un certo Suzuki ottenne il permesso di salire dal versante cinese, ma all’ultimo momento dovette ripiegare sul Liangkang Kangri, il secondo dei Tre Fratelli, per una bega di confine tra la Cina e il Bhutan.” Il caimano aveva scosso il capo, come di fronte a un battibecco tra vicini di casa particolarmente piantagrane. Col dito aveva tracciato un ideale percorso che dal secondo torrione arrivava direttamente alla cima più alta: “Secondo i giapponesi, raggiungere il Fratello Maggiore è tecnicamente possibile. Contiamo su di lei per aprire una via sicura ai nostri clienti.”
Il Kaiser ascoltava con un orecchio solo: più che seguire la lezione impartita dal responsabile dell’ufficio spedizioni illegali, non riusciva a staccare gli occhi dai Tre Fratelli avvolti nel loro manto regale di neve.
Per lui, non esisteva voce più irresistibile di quella delle altezze. Da quando era bambino e saliva protetto dalla solida retroguardia di suo padre, ogni montagna era una promessa di meraviglia, uno scrigno offerto in cambio di una paziente fatica.
Scalare esigeva una forte concentrazione: piantare i chiodi e far passare le corde, prestare attenzione a dove si mettevano i piedi, ripetere ogni volta la stessa operazione rischiava addirittura di diventare noioso. Ma una volta giunti alla meta, ci si sentiva un’aquila sulla vetta del mondo.
A ogni passo il panorama mostrava nuovi dettagli: un massiccio si trasformava in una cattedrale di guglie, un monte che da lontano pareva tutto d’un pezzo si apriva come un ventaglio. Le valli scomparivano e si spalancavano le dimore di un altro mondo: deserti abitati soltanto dalla voce del vento, dalle aquile in volo che creavano ombre improvvise sulle rocce.
I ghiacciai si stendevano come veli di spose nel giorno delle nozze. A calpestarli, si aveva l’impressione che le vette voltassero per un istante il capo, per vedere chi osava andarsene a spasso sul loro strascico.
Salire il più possibile fino a raggiungere luoghi che non sono più di questa terra, i regni delle cime che sovrastano altre cime, che emergono dal ghiaccio, dalle nuvole e dal silenzio; il senso di soggezione che coglie l’alpinista una volta giunto in vetta, al cospetto di quei pinnacoli che sembrano reggere la volta del cielo: di fronte a tutto questo la fatica scompariva e qualsiasi compenso pesava sulla bilancia quanto un dito di polvere.
Quando il Kaiser alzò gli occhi dalle immagini dei Tre Fratelli, nella voce e nell’anima aveva una sola domanda:
“Per quando è stabilita la data della partenza?”
Il trafficante specializzato in vette himalayane espresse la sua soddisfazione con un’altra vigorosa sfregata di mani.

 
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Aeroporto di New Delhi, 4 aprile 2018
 
Durante il viaggio aereo, negli scali interminabili sotto ad altoparlanti che recitavano avvisi in lingue sempre più incomprensibili, Rabauer si era dimenato tra mille dubbi: sempre più convincendosi che quell’impresa l’avrebbe condotto dritto in galera, e che le prossime cime le avrebbe viste da dietro alle sbarre di qualche infernale prigione cinese.
Per sottrarsi a quei pensieri s’era guardato intorno, scandagliando i viaggiatori che seguivano la medesima rotta: tra ricche donne in sari che trascinavano trolley seguite da bambini e odori forti di spezie, giapponesi in bermuda e bivacchi di italiani attorno a pizze al taglio, aveva frugato in cerca di qualche faccia in grado di combaciare con le schede dei clienti della Compagnia.
Esaminando quei moduli che recavano nome, cognome ed esperienze alpinistiche precedenti, si era reso conto una volta di più di avere a che fare con un’armata Brancaleone di inesperti.
All’aeroporto di Delhi, il gruppo dei passeggeri che attendeva l’imbarco al gate della Druk Air[1] si era notevolmente assottigliato. Accanto a una coppia di monaci tibetani e a una famiglia indù che banchettava a riso e masala, un gruppo di occidentali spiccava come un pugno nell’occhio. Ciò che spiccava era soprattutto il fatto che la comitiva pareva più adatta a una gita in moscone sull’Adriatico che a una spedizione sull’Himalaya.
“Sono loro, non c’è dubbio.” Rabauer cominciò ad agitarsi sulla poltroncina del gate come una lepre in trappola. Si rivolse a Moroder, che addentava un panino con würstel scovato chissà dove: “Tu cosa ne pensi? Più sprovveduti di questi, non li troveresti neanche a cercarli col lanternino.”
Moroder era impegnatissimo a evitare che corposi schizzi di senape colpissero i presenti nel raggio di due metri. “La bionda non è male,” si limitò a commentare, “quanto agli altri, vedremo.”
La bionda in questione era una tizia allampanata e dai lineamenti così sottili da sembrare senza volto. Spiccava per l’altezza vertiginosa in mezzo alla combriccola impegnata a consultare documenti di viaggio, a scambiarsi pareri e divorare pizzette che una monumentale figlia dei fiori offriva in giro, insieme a un tintinnio di braccialetti e zaffate di patchouli. Sul vassoio di tranci ai funghi e carciofini volteggiava come un rapace un tipo col pizzetto che indossava un camicione dai colori sgargianti. Ciarliero e incontenibile, faceva l’effetto di uno strano uccello esotico, un grosso pappagallo che catturava con le sue chiacchiere l’attenzione di tutti. In quel momento era intento a spiegare alla truppa usi e costumi tipici del Bhutan: come se in quel Paese di cui gli altri a malapena conoscevano l’esistenza, il pappagallo col pizzetto ci fosse nato. 
Poco in là, ostinatamente isolato dagli altri, un ragazzotto s’era tolto le scarpe e contagiava il vassoio con un fetore ammorbante di calzini sudati.  
“Ci vorranno settimane prima di riuscire ad abituarli all’altitudine, ammesso che sia possibile. Cadaveri sulla groppa non ne voglio neanche uno,” masticò amaro il Kaiser. “Quindi direi che abbiamo due possibilità: andare subito a informarci sul primo volo per l’Italia, e tanti cari saluti alla Compagnia e ai suoi clienti. Questa è la prima opzione.”
“E l’altra, quale sarebbe?” Moroder era impegnato in varie contorsioni per impedire a quattro colate di senape di raggiungere la maglietta, i calzoni, il pavimento nonché di colpire come proiettili vaganti la famigliola indù, che dopo il pasto s’era acciambellata a riposare sopra ai bagagli.
“Misericordia, fai schifo.” Gli ottanta chili del Kaiser scrollarono così forte la poltroncina che l’intera fila vibrò di oscillazioni sismiche. “L’altra possibilità è andare a presentarci all’allegra combriccola. Tanto saremo noi a dirigere la baracca. Se ci accorgeremo che in alta quota questi non reggono, non c’è nessun problema: faremo una bella passeggiata nei boschi, compreremo due bandierine tibetane per ricordo e via diritti a casa. E tanti cari saluti…”
“Piacere, Luigi Norbu Zampetti.”
Colto di sorpresa, il sandwich di Moroder terminò la sua corsa sullo zaino del Kaiser.
Rabauer si trovò di fronte un pizzetto sorridente, un paio di occhiali tondi in bilico su un becco e due grandi occhi sporgenti da uccello. Lo sguardo era così limpido ed esprimeva una tale garbata cortesia che il Kaiser rinunciò ai suoi modi da orso e persino alla sua storica diffidenza nei confronti di tutti coloro che pretendevano di calpestare la montagna senza avere mai visto un rampone.
“Piacere mio, Rabauer. Lei è uno dei clienti della Compagnia?”
L’omino si profuse in un inchino a mani giunte. Una corrente d’aria condizionata sollevò l’estremità del camicione, dando l’impressione che un ventaglio di piume gli uscisse dal sedere, componendo una ruota in onore dei presenti.
“Per servirla, Norbu Zampetti. Orientalista e studioso di buddhismo tibetano. Conosco quattordici lingue asiatiche tra cui dzongkha[2], hindi e cinese. Sono a vostra completa disposizione per farvi scoprire i segreti del Paese che andremo a visitare.”
“Proprio quello che ci serve”, sbuffò il Kaiser, ancora infastidito dall’incidente del sandwich.
Accanto a lui, Moroder sghignazzava. Accovacciato sul pavimento, era intento a ripulire gli esiti del disastro. “Piacere, Peter Moroder. Guida alpina che parla tedesco, italiano e dialetto veneto,” disse, allungando la mano all’altezza del bassoventre del suo interlocutore.
“Da quando parli in veneto?”
“Mia madre la se de Venezia.”
Rabauer riprese il filo del discorso:
“Forse è male informato, dottor Zampetti. Noi siamo appunto alpinisti e lo scopo del viaggio è scalare una montagna, non andare a visitare monumenti.”
“Ne sono ben consapevole, herr Rabauer. La mia voleva essere una semplice offerta del tutto personale e disinteressata. Ho scalato l’Everest sette volte, sette il Nanga Parbat, tre volte il K2 e ho visitato il suggestivo Santuario dell’Annapurna, che la gente del luogo considera dimora degli spiriti celesti.”
“Sicché di superstizioni lei se ne intende.”
Sul volto dello studioso passò un’ombra di disappunto. “Vede, herr Rabauer, quello che spesso noi consideriamo superstizione per altri è senso del sacro, qualcosa che ha a che fare con la storia e l’anima dei popoli.”
Il Kaiser fece marcia indietro, per non impantanarsi in argomenti sui quali era chiaramente impreparato. “Dottor Zampetti, non posso mettermi a discutere con lei di filosofia. Quello che m’interessa è conoscere il vostro livello di preparazione: il suo, e quello degli altri partecipanti. Qui si tratta di salire fin quasi a ottomila metri, e l’organismo umano, molto semplicemente, non è stato progettato per andarsene a spasso a quelle altezze.”
Zampetti gli posò sulla spalla la sua mano sottile da uccello: “Quello che a prima vista sembra impossibile, a volte richiede solo un po’ più di esercizio. Ma ancor prima si tratta di un fattore mentale: se ci mettiamo in testa che non ce la faremo, otterremo esattamente ciò che pensiamo. La paura, non la vetta, è l’ostacolo. Se lo ricordi, capo”.
Più tardi, mentre l’aereo sorvolava pianure polverose e nastri di fiumi lucenti, accanto a Moroder che digeriva il suo würstel russando scompostamente, Rabauer cercò di fare il punto della situazione. Tutti i partecipanti avevano dichiarato di avere all’attivo almeno un ottomila, con la sola eccezione della spilungona bionda e di Calzini sudati. A dispetto della taglia extralarge, Patchouli si era arrampicata sulla cordigliera delle Ande in cerca di mummie inca, era una frequentatrice abituale del Macchu Picchu e aveva tentato l’avventura dell’Everest, salvo tornare indietro a causa di una bufera.
Quando l’aveva saputo, Rabauer aveva colto la palla al balzo: 
“Vi avverto che qui le regole sono le stesse: in caso di maltempo, e comunque non oltre le due del pomeriggio, rientreremo al campo base. Riguardo a questo, non accetto discussioni. La montagna non si sfida per avere qualcosa da raccontare a casa: se vi farete sorprendere dal buio o da una tormenta, c’è il rischio che a casa vostra non ci tornerete più.”
Patchouli e Zampetti avevano annuito, spaventati a dovere. La spilungona si era limitata a guardarsi le scarpe, il giovane vagabondo aveva sbuffato tutta la sua insofferenza.
“La regola vale anche per te, ragazzo,” l’aveva ammonito Rabauer. “A proposito e se non è troppo disturbo, posso sapere come ti chiami?”
Jumping Frog, signora guida,” aveva risposto il giovane di malavoglia.
“Ti chiami Ranocchio che salta? Mi prendi per i fondelli?” e poiché il ragazzotto non dava segno di volere replicare: “Va bene, Jumping Frog. Per me ti puoi chiamare anche Cavallo pazzo, basta che non fai il pazzo nella mia spedizione.” Aveva alzato il tono, per contrastare l’altoparlante che invitava i passeggeri a procedere all’imbarco:
“Molto bene, signori. Ci ritroveremo tra qualche ora a Paro. Faremo vetta soltanto se ci saranno le condizioni. In caso contrario, vi farete ridare i soldi dalla vostra Compagnia. Detto questo, buon viaggio.”
Accartocciato sulla poltrona naturalmente troppo stretta, Rabauer ripassò per l’ennesima volta le schede dei clienti: come se a forza di leggerle potessero saltar fuori le risposte a tutti i dubbi che puntualmente lo assalivano, non appena si trovava da solo con se stesso.
“Guarda un po’, quel moccioso si è veramente registrato col nome di Jumping Frog. Vorrei proprio sapere cosa c’è scritto sul suo passaporto.”
Jumping Frog, ribattezzato Calzini sudati e la bionda spilungona, tale Leina Morgagni impiegata in un’impresa di pompe funebri: in ogni spedizione c’è sempre l’anello debole, la spina nel fianco. In questo caso, le spine piantate nel fianco del Kaiser erano addirittura due e pungevano senza tregua.
Invece di indicare le eventuali esperienze alpinistiche all’attivo, Calzini aveva elencato un curriculum accademico tra il serio e il grottesco: maturità conseguita col massimo punteggio, laurea in matematica pura con lode, attualmente iscritto a un master in vagabondaggio presso l’Università di Paperopoli.
“Ci mancava proprio il nerd con lo spirito del ribelle,” masticò amaro Rabauer.
Quanto alla Morgagni, si era limitata ad allegare un biglietto da visita dell’impresa Ars moriendi s.r.l. - servizi funerari, allestimento camere ardenti, cremazioni - con tanto di lumino votivo apposto in calce a scanso di equivoci.
“In caso di bisogno, sapremo a chi rivolgerci.” Di gente strana, sull’Himalaya il Kaiser ne aveva incontrata a bizzeffe e ormai non si stupiva più di niente. “Forse anche ai becchini interessa entrare nel business. Pacchetti di viaggio con le esequie comprese nel prezzo.”
Mancava solamente l’uomo della Compagnia, che li avrebbe raggiunti a Paro: sicuramente un altro che la montagna l’aveva vista solo in fotografia, e per di più avrebbe preteso di arrampicarsi con la videocamera in mano.
Il Kaiser cercò nuovamente di assestarsi sopra alla poltroncina, puntando le ginocchia sul sedile di fronte. Uno dei monaci tibetani già intravisti all’imbarco si voltò sorridendo: chinando appena il capo, cercò di far capire a quella specie di orso che gli stava piantando le rotule nelle reni.
Rabauer si sforzò di trovare un’altra posizione. Allungò le zampe nel corridoio: l’idea di fare lo sgambetto a una delle hostess e farsela cadere diritta tra le braccia lo rallegrò un poco.
“Quei due resteranno al campo base quant’è vero Dio.” Sentiva finalmente le palpebre pesanti e ormai prossimo il sonno. “Di più, ci resteranno anche la cercatrice di mummie e l’esperto di buddhismo tibetano. Non voglio grane, lassù. Saliremo io e Moroder, faremo vetta e la Compagnia sarà contenta. Altrimenti, tanti saluti.”
Si addormentò prima di precisare dove la Compagnia e soprattutto il caimano dell’ufficio spedizioni potevano ficcarsi la ricompensa promessa, fino all’ultimo euro.
 

 
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[1] La Druk Air è la compagnia di bandiera del Bhutan, l’unica autorizzata ad atterrare nel territorio nazionale.
[2] La lingua dzongkha, di origine tibetana, è la lingua ufficiale del Regno del Bhutan. La denominazione deriva da kha (= lingua), mentre dzong si riferisce ai monasteri-fortezza diffusi in tutto il Bhutan come centri di diffusione del buddhismo e consolidati a partire dal XVII secolo come avamposti di difesa contro le invasioni tibetane e mongole. 
  
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