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Autore: RoryJackson    19/04/2019    5 recensioni
La vita può prendere dei risvolti inaspettati, spiacevoli, talvolta orrendi. Ciononostante, una volta che tocchi il fondo, puoi soltanto risalire: la cosa importante è saper accettarlo. Lo hanno imparato Vincenzo e Stefania, insieme alla piccola Sofia, che non si può sfuggire al proprio destino.
Settima classificata al contest “Lavoratori allo Sbaraglio” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp
Quarta classificata al contest "Brother, my Brother" di Elettra.C
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La cosa brutta del cibo in scatola è che sa troppo di cibo in scatola. Prendiamo ad esempio le lenticchie: al di là dei conservanti e tutta la merda che le industrie sono solite usare per dilatare il periodo di vita di questi alimenti, le lenticchie in scatola sono insapori e il loro odore ha come un sentore di stantio che neanche se le cuoci per ore, aggiungendoci i più svariati ingredienti, riesci a migliorarne il gusto.
“Sa di piscio di cammello” esclamai, affondando un altro cucchiaio di legumi nel contenitore di latta e ingurgitandoli per non assaporarli troppo. Evitai opportunamente l’occhiataccia di mia sorella Stefania, aspettandomi di lì a poco di essere ripreso. La conoscevo troppo bene, e infatti...
“Sei un animale” esclamò seccata. “Perché? Hai mai assaggiato del piscio di cammello?”
Mi strinsi nelle spalle e feci una smorfia inorridita, dopo aver finito la mia porzione di lenticchie.
“No, ma se penso al piscio di cammello, lo paragono alla brodaglia che ho appena finito di buttare giù” risposi mentre mi alzavo in piedi, dopodiché mi feci spazio tra la folla di uomini, donne e bambini per andare a restituire piatto e posate agli individui che ci avevano servito. Quando ritornai da mia sorella, mi rimisi seduto e, per il solo piacere di prendermi gioco di lei, non mancai di infierire: “E poi fattela una risata, no? Che lagna”.
“Sì… vabbè...” mormorò laconica, mentre distrattamente fissava l’orizzonte con sguardo perso, stringendo a sé la piccola Sofia e rannicchiandosi al mio fianco per lenire il freddo che si avvertiva durante il calar del sole.
Già, come se fosse esistito un orizzonte: una distesa infinita di acqua che a tratti rendeva impossibile capire dove finisse l’oceano e dove iniziasse il cielo. A volte era bello, se avevi abbastanza ottimismo e un pizzico di follia da riuscire a tenerti in vita — o a non sembrare un morto vivente — con la sola forza dello spirito e un piatto di minestra al giorno. Tuttavia le risorse iniziavano a scarseggiare, scoraggiando persino i più temerari e durante le tempeste, sempre più frequenti e turbolente, capitava spesso di perdere qualcuno. Era quasi una fortuna che fossimo ancora così tanti.
Eravamo persi, mia sorella ed io, insieme a una manciata di superstiti accampati su quello che fino a poche settimane prima avrebbero definito un barcone di migranti. Solo che in quel momento i migranti eravamo proprio noi, ammassati su una nave usata per trasportare merce, come se fossimo in attesa di attraccare al porto del commercio degli schiavi. Eravamo in viaggio per l’Africa — anche se non avrei potuto dirlo con certezza — dispersi nel nulla, in cerca di terraferma e altri sopravvissuti al più grande disastro mondiale della storia. O, quantomeno, il più grande tra quelli che conoscevo io.
A proposito, mi chiamo Vincenzo. Le buone maniere non si dimenticano, neanche dopo l’apocalisse. Per cui mi sembra più che doveroso, dopo questa confortante premessa, raccontarvi ciò che ci aveva portati a questo punto.




 
***





 
What about sunrise
What about rain
What about all the things that you said
We were to gain
— Earth Song, Michael Jackson









«Ringrazio le vostre eccellenze, signore e signori e tutti voi distinti ospiti. In qualità di direttore esecutivo dell’European Environment Agency sono onorato di essere qui davanti a tutti voi e parlare a nome non solo dell’intero corpo delle organizzazioni legate all’ambiente, ma di coloro che mi hanno preceduto esprimendo la propria volontà non solo in qualità di esperti, ma come esseri umani… Davanti alle vostre maestranze, mi permetto di essere schietto.
«Si è parlato spesso di sviluppo sostenibile e di protezione ambientale come se fosse una semplice variabile economica. Una variabile che, messa in relazione con altre, potrebbe perdere valore e passare in secondo piano. Perché è proprio nella prospettiva economica tangibile, noi siamo soliti misurare il tenore di vita in base al consumo degli individui. Nei paesi industrializzati ci permettiamo di avere, in media, minimo due auto per famiglia… ma cosa accadrebbe se lo stesso numero di auto che circolano negli Stati Uniti, circolassero anche in India? Quanto ossigeno ci resterebbe per respirare...?
«È possibile parlare di solidarietà e che siamo tutti uniti in un’economia basata sulla concorrenza spietata? Noi tutti ormai viviamo in una società in cui continuiamo ad essere governati dal mercato, anziché governare il mercato. Signori miei, la sfida che abbiamo davanti è di una portata colossale. Negli ultimi cento anni, circa il cinquanta percento delle catastrofi naturali, tra alluvioni, uragani, siccità nei paesi della fascia equatoriale, si concentra tra il 2017 e oggi. L'Italia non è uno dei paesi con la più alta incidenza di trombe d'aria a livello mondiale, tuttavia proprio una manciata di giorni fa, una di queste ha raso al suolo intere abitazioni, spazzato via cassonetti, piegato insegne nei pressi di Milano. E le perdite sono state inestimabili...»

Era il 25 aprile 2025, me ne stavo seduto a un angolo del backstage e la mia stramaledetta gamba destra non la smetteva di tremare. Non ero mai stato un tipo da conferenze, per di più una alla quale partecipavano i presidenti e i più alti esponenti dei paesi, e avrei persino dovuto parlare in mondo visione. Io, Vincenzo Paolucci, un giovane astrofisico appena trentacinquenne, da poco promosso a dirigente di ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica, ero stato scelto fra tutti i miei colleghi per esporre le problematiche che di lì a poche settimane avrebbero afflitto il mondo. Io, che sono cresciuto tra libri scolastici, Star Wars e videogiochi sparatutto, un nerd per eccellenza, avrei dovuto rappresentare la scientifica dell’universo italiana in diretta mondiale.
No, di certo non sono mai stato un tipo carismatico, né mai stato incline ad accattivare le persone. Per di più avrei dovuto espormi dopo una persona in grado di esprimersi così bene da ammaliare persino me, concentrato com’ero sulle mie preoccupazioni.
E, poiché ero agitato come neanche io avrei potuto immaginare, la mia gamba non la smetteva di effettuare un movimento sussultorio e, man mano che aumentava l’attesa, in un moto sempre più esagitato. Non mi vergogno di affermare che stavo tremando come una foglia.
“Ma per la miseria, Vincenzo!” mormorò una voce stizzita, facendomi sussultare per lo spavento. Mi ritrovai Stefania ad un palmo dal naso, con un sorriso beffardo e divertito, dopodiché poggiò le mani sulle mie spalle e cominciò a farmi un leggero massaggio tentando, invano, di rilassarmi. “Sei teso come una corda di violino…”
“Che ci posso fare” dissi, sistemandomi la cravatta e cercando di darmi un contegno. Ero pur sempre il maggiore tra i due: avrei dovuto tenere la testa alta. E così feci, non dopo essermi schiarito la gola. “So di essere troppo affascinante, quindi mi impegnerò a fare la parte del tizio impacciato e del tutto fuori contesto”.
Mi sistemai i ricci, tagliati non troppo corti e acconciati da mia sorella che faceva la parrucchiera in un importante saloon di Bologna. Diversamente da me non volle continuare l’università, per dedicarsi alla sua passione di hair stylist. La guardai riflessa allo specchietto che avevo di fronte e notai quanto quella sera fosse graziosa: vestita con un abito nero sobrio ed elegante che le faceva risaltare il pancione, un velo di trucco e i capelli castani raccolti in uno chignon morbido.
“Uhm, chi è questa bellezza qui che continua a massaggiarmi la schiena?” dissi per burlarmi un po’ di lei, come facevo di solito, “che ne hai fatto di mia sorella? Lei sarebbe capacissima di spezzarmi l’osso del collo se lo toccasse”.
“Ah ah, molto divertente”, rispose alzando gli occhi al cielo, “preferisco non replicare per non marciare sul tuo di per sé precario stato psicologico. Quindi, ringraziami”.
Mi scappò una risata. Erano mesi che non ci vedevamo a causa del lavoro — nonostante abitassimo lontani a poco meno di mezz’ora con l’auto — e cominciavo ad avvertire una certa mancanza della sua lingua biforcuta. Si era sposata all’età di ventisei anni. Di certo si era accasata ancor prima che io riuscissi a trovare una donna.
“Ste’, ma nostra madre?” chiesi quando d’un tratto mi sembrò strano che ci fosse solo lei dietro le quinte a salutarmi.
“È in sala, ha preferito non intrufolarsi qui e di ascoltarsi tutti i discorsi”.
“Rimarrà qui a lungo?”
“Ripartirà subito per Londra, che io sappia”, disse, facendo spallucce, “so che alloggerà in albergo per stanotte e ripartirà l’indomani. Sai com’è fatta”.
Mia madre, Adelina Merlo, era la donna più determinata e testarda che avessi mai conosciuto. Era direttrice e chef del ristorante Madelina’s Maison, un’attività ristorativa di grande successo in Inghilterra. Amava la cucina fusion e il suo lavoro più di qualsiasi altra cosa. Difatti decise di rimanere da sola a gestire il locale, quando Stefania ed io optammo per ritornarcene in Italia — io perché trovai impiego come ricercatore e mia sorella perché era desiderosa di andarsene da lì. In ogni caso, fu una vera occasione quella di averla tra il pubblico, quantomeno avrei potuto salutarla dopo tanti anni. Approfittai di quegli ultimi minuti di tregua, un po’ per curiosità e un po’ per pensare ad altro, per continuare l’interrogatorio.
“E la bambina?”
Mia sorella si accarezzò il pancione e affermò: “Sana come un pesce. Fra quattro mesi diventerai zio, per cui inizia ad allenarti a fare le migliori smorfie”.
Evitai opportunamente di chiederle come stesse senza il suo compagno, per non farle pesare la situazione di dover vivere una gravidanza in solitudine. Germano Landolfi era morto a causa di un incidente stradale, proprio pochi mesi dopo il loro matrimonio. Mia sorella non sapeva neppure che fosse incinta. Ad ogni modo, Stefania mi rivolse uno sguardo accusatore, quasi come se mi avesse letto nel pensiero e stesse cercando di farmi stare buono. Quella donna aveva la forza di un carro armato.
“Signor Paolucci”, mi chiamò una voce maschile alquanto stridula, parlando in inglese. Quando mi voltai, vidi un uomo calvo e bitorzoluto, con un bel paio di occhiali rotondi a montatura sottile e vestito di tutto punto: probabilmente uno dei tecnici dell’evento. Già sapevo cosa stesse per dirmi, ma lo lasciai fare lo stesso, complice la mia tremarella alla gamba.
“Tra pochi minuti deve salire sul palco”, continuò, con un cenno del capo. Io annuii.
“Arrivo subito”.
“Ora tocca a te”, commentò mia sorella, dandomi qualche pacca sulla spalla, “te la caverai benissimo, grazie a te si potranno evitare tante cose”.
E mentre lo diceva, notai che c’era qualcosa nel suo sguardo che lasciava trasparire una latente inquietudine. D’altronde, come potevo biasimarla?
“Non preoccuparti, Ste’”, dissi, per poi alzarmi in piedi e abbracciarla, cercando di tirarle su il morale, “non ci accadrà niente, te lo prometto”.
Ma tutte le volte che promettevo qualcosa, quel qualcosa si trasformava puntualmente in un completo disastro. Ciononostante, Stefania sorrise e annuì, ricambiando l’abbraccio con una delle sue strette spaccaossa.
Quasi sembrava che ci stessimo dicendo addio.

«… La crisi dell’acqua, la crisi dell’aggressione ambientale non sono una causa. La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo costruito e che abbiamo il dovere assoluto di rivedere. Perché lo sviluppo, il progresso, la scienza e l’innovazione non possono essere gli artefici della distruzione dell’uomo, perché essi esistono a favore della felicità dell’uomo.
«Grazie a tutti».

Come luogo della conferenza era stata scelta l’Italia in seguito alla scoperta fatta proprio dall’INAF, presso la quale lavoravo da quando ebbi finito la specialistica universitaria. Fu il Presidente della Repubblica italiana a chiamarmi, per cui, dopo aver salutato mia sorella, mi apprestai a lasciare le quinte e, dopo aver stretto la mano del precedente oratore — un signorotto anziano dall’aria arzilla e giovale — mi avvicinai al leggio.
Guardai la platea composta da centinaia di individui, i cameramen e le altre persone di servizio che dirigevano la manifestazione. Dopo una lesta occhiata, riuscii persino a scovare, seduti in seconda fila, mia madre e mia sorella fissarmi in attesa. Per la misera, quanti ne erano in quella sala...
Mentre sistemavo il microfono, mi schiarii la gola e, solo quando mi accinsi a parlare, mi resi conto di quanto la mia bocca fosse disidratata. Porco cane, avrei dovuto quantomeno bere un sorso d’acqua.
“Buona sera a tutti, signore e signori illustri, ringrazio il Presidente della Repubblica per aver accettato la mia umile presenza e il Direttore dell’INAF, presso il quale attualmente ricopro il ruolo di dirigente, per avermi permesso di fare da portavoce. Sono a dir poco onorato di essere qui, di fronte a tutti voi, per parlarvi di un qualcosa di cui spesso si è sentito parlare, su cui si è largamente discusso — non solo in questa sede — e che, ad ogni modo, fa parte della sfera vitale di qualsiasi individuo.” Presi un profondo respiro prima di continuare, ma mi imposi di non sembrare un pappamolle. Non potevo sfigurare, non agli occhi di mia madre, benché meno di Stefania. “È vero, il progresso ha portato l’uomo a scoperte e invenzioni sensazionali. Cose che fino a qualche decennio prima sembravano di natura fantascientifica. Ciononostante, il fenomeno del consumismo ha ottuso, schiacciato, sviato la piega degli eventi, causando i problemi dei quali il precedente conferenziere ha annunciato.
“Io sono qui oggi non per parlarvi di problemi ambientali, cambiamenti climatici, causati dalla mano dell’uomo, ma di un problema che, sommato alla mano dell’uomo, può portare a conseguenze di dimensioni epocali. E solo con il nostro agire, guidati dalla nostra coscienza, possiamo cercare di evitare.
“Noi studiamo la cosiddetta fisica dell’universo, dei corpi celesti. Cosa li spinge a muoversi in un certo modo, perché avvengono determinate reazioni. È ciò che sta accadendo al nostro sole quest’oggi”.
Guardai mia madre che mi sorrideva con orgoglio. Lei non sapeva ancora niente delle mie ricerche. Quanto dolore potevo provocare con poche, semplici parole? Continuai a parlare, cercando di modulare bene la voce.
“All’assottigliamento dell’ozono, all’effetto serra e a tutto ciò che concerne la natura antropica dei fenomeni che scatenano l’aumento della temperatura terrestre, da un po’ di tempo va a sommarsi con l’attività solare, fautore naturale del cambiamento climatico…”
I miei occhi vagavano da una parte della sala, all’altra, nel tentativo di scorgere le espressioni di chi avrebbe udito quelle notizie. E ci volle poco affinché gli occhi di mia madre si riempissero di angoscia.




 
***




Non posso affermare con certezza quando cominciò. Certo è che la Terra aveva subito e subisce tuttora cambiamenti, siano che essi riguardino il clima o le specie viventi che la popolano. Nonostante io possa ritenermi un giovane scienziato, non posso confermare con certezza come tutto ciò avvenne, o perché era successo. Sono un semplice astrofisico, io.
So solo che, nel mio immaginario, ero pienamente consapevole, come inconsciamente lo erano tutti, della piega che gli eventi stavano prendendo. Tuttavia non posso assolutamente assicurare di essere stato preparato a una tale reale evenienza. Ciò che posso dire, però, è che non potrò mai dimenticare ciò che accadde, proprio quattro mesi dopo la — ennesima — conferenza di Roma sulla protezione ambientale.
Quella mattina mi svegliai di soprassalto, nonostante la mia camera da letto fosse ancora immersa nel buio. La causa fu la mia brontofobia, dal momento che un intenso tuono cadde a poche centinaia di metri dalla mia abitazione, il quale quasi non mi squarciò i timpani. Trentacinque anni e avevo ancora paura dei temporali. Dico io: poteva esserci qualcosa di più ironico di un astrofisico timoroso di un fenomeno atmosferico?
Mi alzai dal letto avvicinandomi alle persiane napoletane di legno che tenevo serrate, cercando di spiare da una delle fessure: frattanto che focalizzavo l’attenzione verso l’esterno, compresi all’istante perché la stanza a quell’ora non fosse sommersa dalla luce del mattino. Il cielo era nero di nugoli, cumulonembi e nembostrati che sembravano minacciare pioggia fino alla fine dei tempi. Un’intensa perturbazione dai paesi asiatici si era spostata verso i paesi europei, creando caos ovunque. Soprattutto in Italia, che per due gocce sembrava stesse cascando il mondo. Ad ogni modo, nonostante fosse ancora agosto, andava così da giorni e la cosa iniziava sul serio a preoccuparmi.
Comunque ormai mi ero svegliato, per cui, poiché avevo ancora abbastanza tempo per oziare prima di andare a lavoro, decisi di andare a prepararmi un caffè quando sentii lo squillo del cellulare. Risposi senza neanche guardare chi fosse sul display tanto ero intronato.
“Vincenzo, l’hai saputo?”
La voce squillante di mia madre mi intontì ancora più di quanto già non fossi. Alzai gli occhi al cielo: per quanto le volessi bene, non ho mai sopportato le persone che, dopo tanti mesi, disturbano di primo mattino senza neanche dare il buongiorno. Sospirai.
“Ma’, che diavolo succede?” dissi, mentre mettevo la moka sul fornello. “E, poi, per favore, potresti abbassare di qualche tono la tua voce? Grazie”.
“Tua sorella ha partorito stanotte”, continuò a urlare imperterrita al telefono, come se fosse la cosa più normale del mondo, ignorando come al solito la mia richiesta, “ancora non te l’ha detto? Comunque sto venendo a Bologna, ho prenotato un volo per oggi, alle 15:35, il primo che potevo”.
“Sì, va bene, mi fa piacere” commentai, ringraziando il cielo — anche se sembrava stesse collassando — che fosse pronto il caffè. Ero un caffeinomane patentato, lo diceva spesso Stefania quando ancora vivevamo sotto lo stesso tetto, in Inghilterra. Senza quello non mi svegliavo, assumendo le sembianze di un morto vivente.
“Allora devo staccare prima per venirti a prendere?” chiesi, dopo aver bevuto la mia bevanda in un solo sorso e contemporaneamente cercare di mettere un punto alla tiritera di mia madre sulle sembianze della piccola Sofia — il nome scelto da mia sorella per la bambina —, su cosa comprarle come regalino e altre sciocchezze.
“Ah, no, tranquillo, non c’è bisogno” disse, “prenderò un taxi e andrò direttamente all’ospedale!”.
Annuii e, finita la conversazione, ci salutammo. Prima di pensare alle nuove informazioni ricevute, non potei non meditare su quanto fosse esasperante mia madre e di come fossimo dotati, mia sorella e io, di una pazienza infinita. Tutt’a un tratto ero diventato zio: era assurdo a dir poco, contando che, fino a pochi anni prima, ci bisticciavamo come due adolescenti.
Il tempo passa e il mondo cambia. È una verità universale.
Decisi che, anziché telefonarle, sarei andato a trovarla una volta staccato: a quell’ora era solita riposare ancora e sapevo quanto diventasse irascibile se avessi anche solo provato a svegliarla. Quella scema non mi aveva neanche detto di avere le contrazioni, quando le avevo detto espressamente di chiamarmi ogni qualvolta avesse avuto bisogno.
Guardai l’orologio sulla parete, constatando che avevo ancora molto tempo a mia disposizione, quindi mi preparai in tutta calma per andare a lavoro. Tanto, sull’asfalto sotto casa mia, si era formato un pantano alto dieci centimetri di acqua piovana e di sicuro avrei trascorso un’ora in auto, bloccato nel traffico della superstrada. L’ora più noiosa di tutta la mia vita. E tutt’oggi la rimpiango, perché, se grazie a essa fossi riuscito a non andare a lavoro, forse non mi sarei sentito tanto responsabile.



 
***




Era buffo immaginare che ciò che aveva portato al graduale, latente disastro mondiale era stato l’aumento della temperatura terrestre di soli tre gradi Celsius, dovuto all’assottigliamento della stratosfera per mano dell’utilizzo smodato e illegale di clorofluorocarburi, per la produzione di colle, agenti refrigeranti e spray, da parte di alcuni leader del mercato — i quali, tra l’altro, vennero scoperti dalle autorità garanti solo dopo anni di mancati controlli. Si venne a sapere che esisteva un vero e proprio mercato nero, nel quale venivano venduti questi prodotti a prezzo stracciato.
Tre era il doppio dei gradi che, durante il Summit della Terra del 1992 a Rio de Janeiro, le nazioni che parteciparono avevano promesso di non superare. La dissolvenza delle particelle di ozono, dovuto all’inquinamento, produceva calore e quel calore rimaneva intrappolato dai gas serra prodotti dagli uomini.
Erano bastati per aumentare il processo di scioglimento dei ghiacciai, a causa del quale la luce solare, trovando una superficie riflettente di dimensioni sempre più ridotte, non veniva più proiettata verso lo spazio e questo causava un ulteriore aumento della temperatura a livello globale. Bastò davvero poco affinché liquefasse più del trenta percento delle calotte dell’Antartide. Il livello del mare si alzò di ben dieci centimetri, incominciando a sommergere intere spiagge, lambendo le città costiere. L’Italia stava seriamente temendo per Venezia, che sembrava stesse iniziando a sprofondare negli abissi marini, come Atlantide.
Furono mesi davvero difficili quelli dopo la conferenza di Roma, durante la quale parlai dell’aumento spropositato e imprevisto dell’attività solare.
Quando quella mattina, dopo aver lasciato mia madre ed essere andato a lavoro, accadde ciò che anni e anni di ricerche e osservazioni, nonostante fossero riuscite a prevederne l’evento, purtroppo non ci permisero di arrestarne il corso.
Mi apprestai a entrare nel mio laboratorio, trovandovi all’interno alcuni dei miei assistenti ricercatori e dottorandi, chi seduto di fronte al proprio computer ad annotare processi e cambiamenti del sole e chi, invece, studiava la spettroscopia e la fotometria del corpo celeste più importante della nostra vita. E non lo dico perché io sia un chissà quale romantico: senza esso oggettivamente non saremmo mai esistiti.
Ad ogni modo, ciò che ci aveva messi in allarme fu l’aumento lampante dei tumori alla pelle, causati dall’intensificazione delle radiazioni provenienti dal sole, e di tanto in tanto anche del danneggiamento di satelliti e sistemi radio dovuti alle macchie solari, che sfociavano sempre più spesso in brillamenti emettenti delle immense scie di energia elettromagnetica. Fortunatamente eravamo dotati di sonde spaziali, in grado di fornirci le immagini più nitide e complete in tempo reale. Inutile dire quanto fosse essenziale essere a conoscenza di ogni minimo mutamento, soprattutto in un'epoca come la nostra, dove qualsiasi avvenimento prendeva un risvolto mediatico.
Mi ritrovai quasi a rimpiangere di aver rivelato quali sarebbero state le conseguenze di una pioggia solare più intensa di quelle già avvenute nei mesi precedenti. Le mie teorie vennero tutt’a un tratto rigettate ed esposte come un quadro, disperato ed esasperato, di un'ipotetica apocalisse.
Nulla era cambiato.

Era già pomeriggio inoltrato quando un mio subalterno osservò un perpetuo aumento della luminosità in alcune zone del sole, mentre la spettroscopia segnava, attraverso una linea crescente su carta, un innalzamento dei raggi UV diretti verso la Terra.
Tramite le immagini riprese in tempo reale, in un batter d’occhio tutti notammo che c’era qualcosa che non andava: le fotografie scattate sembravano sempre più sfocate e contemporaneamente potemmo vedere un disturbo delle riprese video inconsueto e sempre più reiterato.
“Dottor Paolucci, guardi qui!” mi chiamò un assistente, indicandomi ciò che non avrei voluto fosse vero. In quel preciso istante stava avvenendo un intenso brillamento solare che, nel più probabile dei casi, sarebbe sfociato in un’espulsione di una buona parte della massa coronale. L’unico problema fu che non potevamo ancora sapere con precisione di quale grandezza stessimo discutendo.
“Oh, cazzo!”
Guardai l’orario solo per constatare che erano le 16:30: dato il fuso orario inglese, supposi che mia madre dovesse essere sicuramente già seduta in aereo, in attesa che partisse. Mancavano cinque minuti e c’era la possibilità che avesse già il cellulare spento. Presi lo smartphone e pigiai sulla cornetta del suo contatto in rubrica, bestemmiando e pregando Iddio che fosse ancora raggiungibile. Non sapevo neanche più cosa pensare.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre.
“Porco cane, rispondimi!” inveii a bassa voce, alzando gli occhi al cielo, per poi iniziare a passeggiare su e giù per l’ufficio sotto gli occhi attoniti dei presenti. L’unica cosa positiva in quel momento era che il cellulare continuava a squillare. Finalmente rispose.
“Vincenzo, cosa succede?” chiese a bassa voce, in tono alterato.
“Ma’, dove sei?”
“Che domanda stupida è? Sono in partenza, prima non ti ho risposto perché ho aspettato che l’hostess se ne andasse”, disse lei, lasciandomi il tempo di tirare un sospiro di sollievo.
Non le permisi neanche di continuare a parlare che subito esclamai: “Mamma, scendi subito da lì! Sta per arrivare un’immensa tempest...”
“Cosa? Uh, sì, mi perdoni” disse mia madre, probabilmente rivolta all’hostess di prima. “Tesoro, scusami, ma devo proprio riagganciare. Stiamo partendo”.
“Ma’! Fai fermare immediatamente l’aereo! Non capisci che sei in pericolo?!” continuai quasi urlando, senza rendermi conto, però, che aveva staccato la chiamata senza darmi il tempo di finire.


Inizialmente vi ho detto di non sapere quando cominciò o per quale motivo. Dal mio punto di vista, la fine del mondo iniziò con una meravigliosa aurora boreale, che colorò i cieli di tonalità verdastre e blu, in grado di penetrare persino le nuvole che da giorni coprivano il cielo italiano.
Era un evento spettacolare, per il quale le persone sarebbero state disposte a pagare per assistere a una tale naturale bellezza: riuscire a vedere il cielo tinto di sfumature tanto inusuali in luoghi come Washington o Madrid, situate in zone pressoché centrali del pianeta. Tutti uscirono di casa per vedere quello spettacolo, soprattutto chi di notte era ancora sveglio e aveva avuto il piacere di gustarsi il fenomeno nel suo pieno splendore.
Ci volle ben poco, forse circa un quarto d’ora, affinché le città cadessero nel caos totale. Giusto il tempo di accorgersi che le luci di casa avessero incominciato a tremolare, le televisioni a non prendere il segnale, i cellulari a non avere più campo, il sistema GPS smise di funzionare. Infine, il black-out mondiale.
L’aereo sul quale viaggiava mia madre non poté ricevere più le coordinate dalle stazioni radio e finì per schiantarsi contro un altro velivolo ad alta quota, creando una pioggia di frammenti di metallo, schegge di vetro e brandelli di carne, che cadde al confine tra l’Italia e la Svizzera.
Lo sapemmo solo due giorni dopo grazie a un corriere, quando cominciarono a ripulire quel disastro. Del corpo di mia madre, così come quello della maggior parte dei passeggeri, non trovarono nulla: erano talmente sfregiati e spappolati da risultare irriconoscibili. Solo i documenti, pezzi di cartastraccia, potevano parlare per lei.



 
***





Quella mattina mi svegliai a causa del pianto acuto e incessante della piccola Sofia e dalle urla di protesta da parte di alcuni dei superstiti, ancora bloccati sul battello. Mi stropicciai gli occhi, sentendomi il viso dolorante e ruvido, ustionato dai raggi del mattino, nonostante avessi spalmato non sapevo quanta crema solare su tutta la faccia.
Prima di partire, facemmo le compere necessarie per sostenere il viaggio, sebbene le nostre scorte sembrassero non bastare mai. Eravamo da quattro giorni in mare e tuttora non avevamo toccato altro suolo al di fuori di quello freddo e ferreo della navetta. Quando puntai lo sguardo nel punto dal quale proveniva quel suono, vidi mia sorella all’impiedi alle prese con la figlia, mentre, tenendola in braccio, cercava di calmarla. Oscillava sul posto pressoché in un moto frenetico e stanco, cantando una canzoncina per bambini nel tentativo di farla tranquillizzare. Non era mai stata un asso con i bambini, ma dovevo ammettere che si stava dando da fare.
“Dai, dalla a me”, dissi, mentre le andavo incontro, “riposati un po’”.
“Come se potessi”, rispose, lasciando che io prendessi Sofia in braccio, “fa un caldo infernale, qui, in Africa”.
Mi guardai intorno e notai — Dio solo sa con quanto piacere — di essere in un porto circondato da una quindicina di navi e barche simili alle nostre. Il mare era torbido a causa delle ultime perturbazioni e dai residui dei carburanti navali rilasciati in acqua. La puzza era infernale, soprattutto se unita al nostro sudore. La maggior parte di noi, l’ultima doccia se l’erano fatta poco prima della pioggia solare, avvenuta esattamente dieci giorni prima. La tempesta geomagnetica aveva messo fuori uso le centrali elettriche, per cui l’acqua smise all’improvviso di scorrere nei condomini. Per lavarci avremmo dovuto immergerci in un lago o addirittura in mare, oppure, se ne avessimo avuto la possibilità, avremmo dovuto acquistare l’acqua in qualche negozietto o prelevarla da qualche fontana.
Tuttavia, con la fusione dei trasformatori di energia elettrica, vi fu l’arresto immediato di tutte le attività commerciali, sia che essi si trattassero di grandi multinazionali o del salumiere sotto casa mia. Gli ospedali avevano smesso di operare. I reparti di rianimazione non funzionavano più. Le persone non ricevevano più nessuna assistenza medica e i malati, soprattutto quelli dipendenti dalle macchine, erano lasciati alla morte.
L’economia mondiale fu congelata in uno stato catatonico di sole perdite: le banche non potevano più rimborsare i piccoli risparmiatori e i soldi avevano perso quasi del tutto il loro valore negli stati — paradossalmente quelli più sviluppati — più colpiti. Molte persone persero la vita, alla vista di tutti i loro sacrifici andati in fumo e, onestamente, per un primo momento anche io mi trovai a non sapere cosa fare. Non avere più un lavoro, l’impossibilità di vivere nelle proprie case, il non poter più mangiare se non grazie ad alcune comunità che si interessarono del sostentamento dei propri quartieri e, infine, il vandalismo e le aggressioni causati dalla fame, furono le principali ragioni che portarono alla decisione di trasferirsi altrove.
Se mi fossi visto allo specchio, in quelle condizioni, di certo avrei stentato a riconoscermi. Non potevamo più vivere così.
“I barcaioli poco fa hanno detto che non potremo sbarcare in Marocco e gli altri si stanno lamentando” spiegò mia sorella, mentre incanalava in un unico sospiro tutto lo sfinimento, la rabbia, la tristezza, la delusione e il dolore che stava provando da tanti giorni, ma che non aveva la forza di esternare a parole. “Tutte le città sono ormai sovrappopolate e, prima di noi, già sono in lista per lo sbarco una decina di navi… ci stanno offrendo solo del cibo e dell’acqua per proseguire il viaggio”.
La sua voce si incrinò, intanto che Sofia si acquietava tra le mie braccia. Posai una mano sulla spalla di mia sorella, nel tentativo di infonderle un po’ di coraggio, tenendo con l’altro braccio la bambina. In fondo, per quanto fosse forte, anche lei era un essere umano. Non potevo non ammettere che la notizia aveva lasciato l’amaro in bocca anche a me, ciononostante, con Stefania in quelle condizioni, non potevo buttarmi giù pure io.
“Non preoccuparti, Ste’”, dissi con un mezzo sorriso, cercando di essere quanto più ironico possibile, “non è la prima volta che affrontiamo una trasferta. Ce la caveremo anche stavolta”.
Mi guardò di sbieco, squadrandomi inebetita, quasi alienata. Poi scosse il capo, incredula, mentre fissava Sofia dormire dolcemente tra le mie braccia.
“Ma come fai?” sospirò intanto che incrociava le braccia, quasi per abbracciarsi, quando vidi l’ombra di un sorriso sulle sue labbra. Mi strinsi nelle spalle.
“Lo sai che il fascino dello zio…”
“A parte questo” sbottò seccata, ma al contempo lieta che cercassi di tirarle su il morale. Sbuffai, mentre cominciavo a passeggiare qui e lì per la nave, per affacciarmi leggermente verso la terra: eravamo vicinissimi alla costa, tanto che se mi fossi tuffato avrei raggiunto la struttura portuale con poche semplici bracciate. Non era salutare per i miei nervi fissare con troppa insistenza verso quella parte, dunque decisi di rivolgere tutte le mie attenzioni a Sofia. Era la fotocopia di sua madre: due gocce d’acqua. Me lo ricordo come se fosse ieri il momento in cui presi in braccio quella peste di mia sorella, all’età di sette anni. Ne erano passati tantissimi da allora… e chissà quanti ne dovranno passare ancora, in attesa che la vita ritorni quella che era. Ma i miei pensieri, in quell’istante, erano rivolti principalmente a Sofia, a come sarebbe cresciuta, alla persona che sarebbe potuta diventare.
Quando la nostra imbarcazione ripartì con l’intento di circumnavigare il continente africano alla ricerca di un posto che ci potesse ospitare, ritornai da Stefania, la quale nel frattempo si era seduta accanto a tutti i nostri bagagli e averi. La vidi stringere tra le mani una vecchia foto, ritraente nostra madre da giovane: l’unico e solo ricordo di lei.
Mi sedetti al suo fianco, non proferendo alcuna parola.
Mia sorella abbassò lo sguardo. “Come può un evento così bello poter sconquassare l’esistenza degli uomini? Mi sembra di aver ricevuto una punizione... non so, forse sarà la giustizia divina”.
“Non dire sciocchezze, Ste’” dissi, “né tu, né Sofia meritavate questo”.
“Se fosse stata qui, si sarebbe rimboccata le maniche e si sarebbe messa a dettare legge” disse, con lo sguardo basso.
“E ci avrebbe tirato le orecchie, raccontandoci le cose più assurde” risposi, ma per la prima volta non ero ironico.


 
***





“Li vedi quei sette puntini bianchi?” dissi, benché il mio interlocutore non potesse ben capire cosa stessi dicendo, “quello è il Grande Carro. Non è una costellazione, ma un asterismo: un raggruppamento di stelle che danno origine a un’immagine”.
Sofia gattonò sul lenzuolo, emettendo un versetto gioioso. Io la risistemai al mio fianco, cingendola con un braccio, mentre lei cercava di afferrare il cannocchiale che tenevo tra le mani.
Ci trovavamo nel pressi di un piccolo boschetto poco lontano dalla spiaggia, a Benin, l’unico luogo che ci aveva permesso di sbarcare e di stare tranquilli. Ormai erano otto mesi che abitavamo lì, in una piccola capanna fatta di terra cruda e fieno. E tutto sommato, non era neanche così male: quantomeno avevamo di che mangiare e bere, con i prodotti che la terra ci offriva. Grazie alla popolazione rurale, stavo imparando la coltivazione di frutta e verdura, delle palme da olio e dei fiori di cotone, nonché a pescare. Inutile dire la vita di campagna era oltremodo diversa dalla vita che conducevo in qualità di dirigente, ma mi scoprii apprezzare anche questo genere di attività. Inoltre, non ero solo: avevo ancora la mia famiglia e sapevo che un giorno sarebbe tornato tutto alla nostra normalità. O magari anche meglio, chi lo sa.
“Hai finito di fare l’astrofisico con mia figlia?” chiese mia sorella, con quella solita lingua biforcuta che si ritrovava, dopodiché si sedette accanto a noi sul lenzuolo “le farai venire i capelli bianchi prima ancora che compia cinque anni”.
Io sorrisi.
“Guarda le stelle, e da loro impara. In onore del Maestro devono tutte girare, ciascuna nella sua orbita, senza un suono, in perenne memoria della ragione di Newton” mormorai, guardando il cielo stellato così come non l’avevo mai visto a occhio nudo. Di certo, qualche mese fa, a causa dell’inquinamento luminoso, non mi sarei mai sognato che se ne potessero vedere tante.
Stefania alzò lo sguardo e disse: “E chi l’ha detta ‘sta cosa?”
“Mah, un certo Albert Einstein” risposi, fingendomi noncurante “formulò la Teoria della Relatività Generale, un tizio qualunque”.
“Sì, vabbè… un tizio che puoi trovare all’angolo della strada” borbottò lei frattanto che scuoteva il capo, per nascondere un sorriso, “io ne conosco una migliore”.
“Allora spara, Seneca”.
Lei si guardò intorno, rimirando la piantagione di tigli e fiori di zenzero poco lontani.
“Tre cose ci sono rimaste del Paradiso: le stelle, i fiori” disse mentre ritornava con lo sguardo verso Sofia e le accarezzava lievemente i capelli riccioluti, “e i bambini”.
“E chi l’ha detto?” esclamai, beffardo. Proprio non volevo smetterla di burlarmi di lei. Stefania fece spallucce.
“E che ne so io?”











 
 
Angolo dell’autrice: buonsalve a tutte le gentili donzelle e i baldi giovini. Comincio col dire che le teorie, per quanto possano essere studiate tramite qualche ricerca mirata su internet, sono inventate di sana pianta. Non sono un astrofisico, non sono uno scienziato, sono una semplice studentessa di economia. Quindi, se qualche studioso venisse qui a leggere questo racconto, è anche probabile che possa scrivere “ma che cacchio ha scritto ‘sta ignorante?”
L’idea iniziale era quella di scrivere qualcosa con un plot diverso rispetto ai normali disastri ambientali. Non volevo che la mia storia sembrasse la sorella scema di “the day after tomorrow”, e per questo devo soprattutto ringraziare il mio ragazzo, con il quale abbiamo fantasticato su “e se fosse una causa esterna a quella terreste, ma che non sia una cosa in sci-fi fantasy style?”
Ho fatto molte ricerche, finché l’occhio non è caduto su due articoli in particolare:

https://www.focus.it/scienza/spazio/tempesta-solare-effetti-conseguenze  

https://ingvambiente.com/2019/02/05/attivita-solare-quanto-influenza-il-clima-terrestre/

Che mi hanno fatto salire un’ansia assurda.
E niente. Spero che, nonostante tutto, abbiate trovato questo racconto godibile, oltre che credibile. Il titolo è una citazione a questa canzone: The Beginning of the End
Un besos,
Ro
   
 
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