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Autore: Dida77    20/04/2019    3 recensioni
Stava tornando a New York per la prima volta dopo settant'anni. Dopo aver combattuto in guerra, esser caduto da un treno in corsa ed esser quasi morto. Dopo esser stato catturato dall'Hydra. Dopo le torture, il lavaggio del cervello, il condizionamento. Dopo esser scappato ed esser stato braccato e ferito. Dopo esser stato salvato da Steve.
Dopo tutto questo, stava tornando a New York con lui e con una squadra dello S.H.I.E.L.D. a far da scorta.
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Questa storia è il seguito della mia "The end of the line", ma può essere letta anche da sola.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2 febbraio 2015

Stava tornando a New York per la prima volta dopo settant'anni. Dopo aver combattuto in guerra, esser caduto da un treno in corsa ed esser quasi morto. Dopo esser stato catturato dall'Hydra. Dopo le torture, il lavaggio del cervello, il condizionamento. Dopo esser scappato ed esser stato braccato e ferito. Dopo esser stato salvato da Steve.
Dopo tutto questo, stava tornando a New York con lui e con una squadra dello S.H.I.E.L.D. a far da scorta.
 
Non appena atterrati con il quinjet lo avevano portato in una clinica privata super segreta dove, a detta di Tony, nessun agente dell’Hydra lo avrebbe mai potuto trovare. La situazione era tranquilla di qua dall’oceano, ma la sicurezza non era mai troppa, soprattutto per un paranoico come Tony e per uno Steve ancora troppo scosso per tutto ciò che era successo negli ultimi giorni.
 
Bucky avrebbe di gran lunga preferito andare a casa. Odiava gli ospedali, li aveva sempre odiati, fin da prima della guerra quando andare in ospedale significava praticamente essere già morti. Adesso, dopo settant’anni di esperimenti di ogni tipo sotto il controllo dell’Hydra, il suo odio per gli ospedali aveva raggiunto livelli patologici.
Quindi avrebbe di gran lunga preferito casa, ma alla fine aveva acconsentito ad andare. Per tranquillizzare Steve, vero, ma anche perché francamente sapeva di non avere le forze necessarie per scontrarsi con la testardaggine del capitano.
 
Lo avevano sottoposto ad una serie infinita di esami ed accertamenti. Steve accanto a lui, tutto il tempo. Non si capiva bene se per rassicurare Bucky o se stesso.
Avevano medicato di nuovo la ferita, gli avevano fatto un'altra flebo e, una volta vista la situazione generale, avevano deciso di ricoverarlo per tenerlo sotto osservazione, almeno quella notte.
 
Bucky sapeva che era la cosa giusta da fare, non riusciva ancora a far più di pochi passi da solo. La sua parte razionale lo sapeva e dava loro ragione. Ma, malgrado tutte le attenzioni da parte dei medici per non spaventarlo e per farlo sentire a proprio agio, lui si sentiva sempre e comunque una cavia da laboratorio. Era stanco di sentirsi così. Voleva uscire di là il più presto possibile. Non pensava ad altro che ad uscire da quell'ospedale dove lo portavano avanti e indietro a loro piacimento su un lettino con le ruote, dove l'aria sapeva di disinfettante, le persone andavano a giro con i camici, le luci erano troppo forti e le pareti delle stanze erano troppo strette.
 
Steve si era reso conto della situazione, vedeva come gli occhi di Bucky schizzassero da una parte all'altra della stanza, in cerca di una via di fuga, fino a quando non si agganciavano ai suoi e, per un attimo, si fermavano supplicandolo silenziosamente di aiutarlo e di portarlo via di lì.
 
Una volta terminati gli esami, quando rimasero finalmente soli nella camera singola che gli avevano assegnato, Steve si armò di tutta la pazienza di cui era capace per convincerlo a passare almeno una notte in ospedale. Sapeva cosa avesse passato in quegli anni e sapeva quanto fosse difficile per lui. Ma riportarlo a casa contro il parere dei medici era fuori discussione.
 
“Solo per stanotte Bucky, per stare tranquilli. Resto anche io, non me ne vado.”
 
“Ormai la febbre è andata via e possiamo sempre tornare nei prossimi giorni per continuare gli esami.”
 
“Ma ti reggi a malapena in piedi...”
 
“Adesso va molto meglio e riesco tranquillamente a camminare. Prima sono riuscito anche ad andare in bagno da solo.” Aggiunse con un sorriso tirato, tentando di dimostrare che rimanere una notte in ospedale era, ovviamente, un'assurdità.
 
“I dottori dicono che è meglio se passi la notte qui. Quindi passerai la notte qui, Bucky. Basta discussioni.” La testardaggine di Steve non era cambiata in quei settant'anni e Bucky, alla fine, si dette per vinto. Forse avevano ragione loro. Anche solo quella stupida discussione lo aveva lasciato senza forze, svuotato, sfinito. Le lacrime pungevano dietro le palpebre e decise che, al diavolo, potevano anche scendere.
 
Quando Steve lo vide capitolare in quel modo, con gli occhi pieni di lacrime, un grosso nodo prese possesso della sua gola. “È solo per una notte Bucky, solo per una notte” ripeteva come un mantra mentre si era seduto sul bordo del letto e gli accarezzava i capelli, nel tentativo di calmarlo. Era giusto così, era stupido opporsi alla decisione dei medici. Sarebbero rimasti una notte, cosa poteva mai essere una notte in ospedale in confronto a tutto ciò che avevano passato… e allora come mai sembrava un'impresa così difficile non farlo felice portandolo via da lì subito?
 
“Portami a casa, Stevie. Ti prego.” La voce di Bucky lo riportò alla realtà.
 
“Ma certo che ti porto a casa, cretino. Appena i dottori ci danno il via libera torniamo a casa. Dai, fammi spazio che vengo accanto a te. Così sono sicuro che stanotte non cercherai di scappare.” Il tentativo di alleggerire l'atmosfera funzionò. Bucky si fece da parte e riuscì a tirar fuori un mezzo sorriso sincero. Forse, con Steve accanto, poteva anche passare la notte in quella stanza di ospedale.
 
Il biondo allora si tolse le scarpe, si sistemò sul letto accanto a lui e aprì le braccia invitando Bucky a prender posto sul suo petto.
E così si ritrovarono un'altra volta a passare la notte stretti in un letto troppo piccolo per due uomini della loro stazza.
Stretto tra le braccia di Steve, che non accennavano a lasciare la presa, Bucky si sentì di nuovo al sicuro. Adesso, stretto tra quelle braccia, nessuno lo trasportava più avanti e indietro a proprio piacimento su un lettino con le ruote, l'aria aveva l'odore familiare della pelle di Steve, non c'erano più in giro persone con il camice, la luce era soffusa e le pareti delle stanze non erano più così strette. Adesso, stretto tra quelle braccia, l’indomani mattina non sembrava poi così lontano.
 
“Adesso dormi, Sergente.” Gli sussurrò tra i capelli. “Domani usciamo di qui e torniamo a casa.”
 
Un timido sorriso illuminò il volto di Bucky e lì rimase anche dopo che si fu addormentato. Steve non mollò la presa per tutta la notte.
 
Il mattino dopo, quando gli infermieri passarono per il controllo di routine delle 6.00 li trovarono ancora così. Bucky che dormiva con la testa appoggiata sul petto di Steve e Steve che dormiva con le braccia strette attorno alle spalle di Bucky.
 
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La mattina sembrava non finire più. I medici erano passati a visitarlo, avevano voluto fare altri esami, gli avevano medicato di nuovo la ferita, gli avevano messo un'altra flebo. Poi, finalmente, quando ormai non ci sperava nemmeno più, un medico era entrato nella stanza e gli aveva detto che poteva tornare a casa.
 
“Mi raccomando, è necessario medicare la ferita ogni due giorni e, soprattutto, riposo assoluto per almeno dieci. Poi, se la situazione si evolverà come speriamo, potrà tornare a lavoro nel giro di un mese. Operativo tra due.”
 
Sperava prima, sinceramente sperava prima. Soprattutto dieci giorni di riposo assoluto gli sembravano un'eternità. Ma avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa pur di uscire di lì in fretta. Quindi, sotto l'occhio vigile di Steve, promise solennemente al medico che avrebbe seguito tutte le indicazioni. Sapeva che Steve non gli avrebbe permesso alcuno sgarro. Non in questo caso, dove c'era in ballo la sua salute. Non dopo averlo trovato quasi morto su un tetto di un palazzo in un quartiere della periferia di Bucarest.
 
Ma doveva essere onesto con se stesso. Tutte quelle attenzioni da parte di Steve lo facevano star bene, lo facevano sentire al sicuro e protetto. Gli facevano capire che c'era qualcuno che si interessava davvero a lui, a lui come persona e non a lui come arma. Una sensazione che non provava da così tanto tempo. Troppo tempo. No, decise che avrebbe fatto il bravo. Avrebbe davvero seguito i consigli dei medici senza far venire i capelli bianchi a Steve, cercando di farlo preoccupare il meno possibile. Gli doveva almeno questo…
 
“Ehi Bucky. Tutto bene?” Le parole di Steve lo portarono alla realtà.
 
“Sì, scusa. Tutto ok. Mi ero solo fermato a pensare che stiamo per andare a casa. Stavolta davvero. È una vita che non vedo New York.” Stranamente, adesso che era arrivato il momento di tornare a casa, si sentiva un po’ intimorito.
In quei giorni sembrava che tutto lo intimorisse e lo toccasse nel profondo, facendogli salir le lacrime agli occhi per un nonnulla. Come se i colpi che la vita gli aveva inferto fino ad allora si fossero fatti sentire tutti insieme. Si sentiva esposto, senza protezione contro gli orrori del mondo. Sentiva il bisogno di avere qualcuno accanto che lo proteggesse e lo facesse sentire al sicuro, di un rifugio dove nascondersi dal mondo. A volte, sentiva addirittura il bisogno di avere accanto qualcuno che prendesse le decisioni al suo posto, che gli dicesse cosa fare.
 
Steve, pensò alzando lo sguardo.
Per fortuna c’era Steve.
 
“Dai su, adesso vestiti. I ragazzi ti hanno portato un cambio pulito. Credo che Clint sia già qua fuori che ci aspetta in macchina. Hai bisogno di una mano?”
 
“No, grazie. Ce la faccio.” Rispose mentre si stava già dando da fare con i vestiti.
 
“Se ce la fai da solo, allora vado a prendere una sedia a rotelle per arrivare fino alla porta.”
 
“NO.” Disse con un tono che fece sobbalzare Steve, che rimase sorpreso da quella reazione inaspettata. Dato che aveva usato un tono più brusco di quanto avrebbe voluto, fece un profondo respiro e, più calmo, continuò. “Scusa, non volevo essere brusco. Vorrei provare senza. Ti prego. Se poi non ce la faccio mi fermo e la prendiamo. Ok?” Chiese quasi supplicandolo.
 
Steve sapeva quanto fosse importante per Bucky uscire dall’ospedale sulle proprie gambe. Non avere autonomia di movimento e dover ricorrere all'aiuto di qualcun'altro per muoversi lo faceva andare letteralmente fuori di testa. Aveva visto la sua insofferenza nelle ultime ventiquattro ore in cui era stato portato avanti e indietro su una sedia a rotelle o su un lettino. Era stato bravo. Non aveva mai intralciato il lavoro dei medici, ma aveva visto lo sforzo di volontà a cui aveva dovuto ricorrere. Decise quindi che, ok, per stavolta potevano anche fare uno strappo al “riposo assoluto” dei medici e potevano provare ad arrivare alla macchina camminando.
 
“Ok Buck. Proviamo.” Disse alla fine e fu ripagato da un enorme sorriso. Di quelli che Bucky faceva prima della guerra. Di quei sorrisi che quando arrivavano spazzavano via le nuvole e riportavano il sole nella sua vita. “Forza. Appoggiati a me. Vediamo di non strafare.”
 
Piano piano, con la testa che girava un po’, le ginocchia poco stabili e qualche colpo di nausea, riuscirono ad arrivare alla macchina senza troppe fermate. Clint aspettava in piedi accanto alla macchina, insieme a Natasha. Non appena li videro arrivare aprirono lo sportello posteriore e li aiutarono a salire in macchina.
“Bentornato a New York, Sergente. Come va oggi?” Chiese Clint voltandosi indietro una volta sedutosi al posto di guida.
 
“Meglio. Molto meglio, grazie. Ma chiamami Bucky. Solo Bucky.” Rispose mentre Clint aveva messo in moto la macchina ed era uscito dal parcheggio. Bucky aveva il naso già appiccicato al finestrino a guardare fuori la città che sfrecciava via veloce. Sembrava un bimbo che vedeva per la prima volta un enorme parco giochi, mentre Steve lo guardava in silenzio per non rovinare quel momento magico.
 
Bucky era rimasto senza parole dalla meraviglia per quella nuova New York. I grattacieli, le luci, le macchine. Tutto lo affascinava e lo atterriva al tempo stesso.
Istintivamente, senza nemmeno voltarsi, aveva cercato la mano di Steve. La mano del biondo non si era fatta attendere e adesso stringeva la sua, rassicurante. Avrebbero potuto affrontare tutti gli orrori del mondo così, semplicemente mano nella mano, in silenzio, seduti vicini sul sedile posteriore di un'auto. In quel momento non serviva nemmeno guardarsi negli occhi, entrambi sapevano esattamente quale fosse l'espressione sul volto dell'altro.
Rimasero in silenzio, mano nella mano, fino a quando Clint non fermò la macchina nel parcheggio sotterraneo dell'Avengers Tower.
 
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In pochi minuti avevano salutato gli altri nella sala comune ed erano saliti nell'appartamento di Steve. La porta finalmente chiusa dietro di loro. Finalmente soli. Finalmente a casa.
 
Steve spezzò quell'atmosfera un po’ strana che si era creata nel momento in cui avevano chiuso la porta. “Letto o divano? Cosa preferisci?”
 
“Direi letto. L'idea di una dormita non è per niente male. Sono sfinito. Tu che fai?” Più che una dormita lo attirava l’idea di mettersi a letto, di nascondersi per sempre sotto le coperte e non uscirne più. Un rifugio. Aveva bisogno di un rifugio per sentirsi al sicuro e per mettere ordine in quel turbinio di emozioni diverse che si scontravano dentro di lui. Ancora non si capacitava di come fossero cambiate le cose in una settimana. Adesso era al sicuro, sapeva di esserlo. Ma stava iniziando a capire che fra il sapersi al sicuro e il sentirsi al sicuro c’era molta differenza. Sapeva di essere al sicuro, ma non si sentiva al sicuro. I suoi occhi erano costantemente in cerca di vie di fuga e si spostava sempre in modo da avere la miglior visuale possibile della stanza in cui si trovava. Sapeva che era una cosa inutile, stupida, ma non poteva farne a meno.
 
Steve lo riportò alla realtà. “Approvato. Vada per il letto. L'idea di dormire un po’ prima di cena non dispiace nemmeno a me. Vieni ti mostro la camera.”
 
Ma, una volta arrivati sulla porta, Steve si fermò e iniziò a grattarsi la nuca, come faceva sempre quando era imbarazzato o nervoso. “Ecco… io pensavo… Ma non so se…”
 
“Steve, cosa c’è?” Chiese Bucky allarmandosi subito per quella strana reazione. “Cosa hai visto?”
 
“No, niente, tranquillo. Non c’è niente di cui spaventarsi.” Rispose veloce rendendosi conto di averlo spaventato. Poi continuò “Pensavo solo che… Ecco… ho solo un letto nell'appartamento… Mi domandavo se ti andasse di dividerlo con me… Lo davo per scontato, ma mi sono reso conto di non averti mai chiesto se tu fossi d'accordo. Certo, se non sei d'accordo lo capisco, dopo tutto questo tempo…”
 
“Steve, non fare il cretino. Ok?” Gli rispose Bucky dandosi dello stupido per aver pensato istintivamente che si trattasse di una minaccia. Mettendogli una mano sul braccio per cercare, in qualche modo, di arginare quel fiume di parole, continuò. “Certo che voglio dividere il letto con te. Non ho molti ricordi di ciò che è stata la mia vita prima dell’Hydra, ma ho alcuni ricordi di prima della guerra. Mi ricordo quanto ci piacesse dormire insieme su quel vecchio materasso pulcioso, nel nostro vecchio appartamento…” Si fermò un attimo, come per seguire un pensiero, poi continuò. “Dormivamo insieme qualche volta anche durante la guerra, vero? Quando riuscivamo a condividere la branda senza che nessuno ci scoprisse...”
 
“Sì Bucky, ci provavamo anche durante la guerra.” Rispose Steve con un nodo alla gola.
 
Un grosso sorriso illuminò il volto del moro, come se nel ricordare quel frammento della sua vecchia vita avesse ritrovato un tesoro ormai dato per perso. “Sono sicuro che ci piacerà anche adesso.” Rispose, accigliandosi subito dopo.
 
“Sei sicuro?”
 
“Certo che sono sicuro. Però Steve… non mi ricordo da che parte dormivo.” Rispose imbarazzato.
 
“A sinistra. Hai sempre dormito a sinistra. Sei sempre stato irremovibile su quel punto. Tu a sinistra, io a destra. Sempre.” Si soffermò un attimo, poi riprese. “Sai… non sono mai riuscito ad utilizzare la tua parte del letto… non ce l’ho mai fatta.”
 
Ci vollero alcuni secondi prima che Bucky comprendesse appieno il significato di quelle poche parole. Lacrime calde, inaspettate, gli salirono nuovamente agli occhi. Ciò che Steve aveva detto era, forse, la frase d’amore più bella che lui avesse mai sentito in tutta la sua vita. E quel cretino l’aveva buttata là così, senza preavviso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
 
“Ma ero morto. Sapevi che non sarei più tornato...” Fu l’unica cosa che riuscì a rispondere.
 
“Ma ero morto.” Aveva detto Bucky.
Lo sapeva che era morto. Certo che lo sapeva. Lo aveva visto morire sotto i suoi occhi.
I ricordi lo colpirono come una doccia gelata. Poteva ancora sentire nelle orecchie il suo urlo mentre cadeva giù nel crepaccio. Poteva ancora vedere l'espressione nei suoi occhi, il terrore. Poteva ancora vedere la sua mano rivolta verso di lui in una muta richiesta di aiuto. Aveva quella scena così viva nella mente che avrebbe potuto disegnarla.
Lo sapeva che era morto. Certo che lo sapeva. Ma non era mai riuscito ad accettarlo.
Era più facile sentirsi morti con lui piuttosto che ammettere che avrebbe dovuto continuare e andare avanti da solo. Da solo.
 
Ma poi alzò gli occhi e lo vide davanti a sé. Vivo. E quell'immagine spazzò via tutto, il freddo, il dolore e l'angoscia di un'attesa senza fine.
 
“Ti avrei aspettato comunque.” Rispose.
 
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Si svegliarono qualche ora più tardi. Ognuno nella propria parte del letto, ma con le gambe che si toccavano, come per sincerarsi che l’altro fosse ancora là, che fosse reale. Rimasero a poltrire, nella luce di un pomeriggio che volgeva ormai alla sera. La sensazione delle lenzuola pulite sulla pelle, il materasso morbido, la trapunta che manteneva il caldo dei loro corpi. Non esisteva un motivo abbastanza valido per alzarsi.
Bucky strisciò dalla parte di Steve e gli si accoccolò tra le braccia. Il suo rifugio, la sua casa.
 
“Sai, non c’è più bisogno di nascondersi.” Gli sussurrò ad un tratto Steve tra i capelli.
 
“Cosa vorresti dire?” Chiese Bucky puntellandosi su un gomito per guardarlo meglio negli occhi.
 
“Vorrei dire che sono passati più di settant’anni e adesso è una cosa normale. O almeno… quasi normale. Sicuramente è una cosa normale qui in casa, con i ragazzi. Ne sono sicuro, ne abbiamo parlato spesso. Non ci prenderebbero per pazzi e non cercherebbero di curarci.”
 
“Stai cercando di dirmi che… che… che potremmo tenerci per mano in pubblico?” Chiese Bucky sbalordito.
 
“Oh sì certo. Ad esser sinceri potremmo anche baciarci in pubblico. Ma quella parte preferirei tenerla per noi, se sei d’accordo.”
 
Mentre lo diceva, Steve si rese conto che, da quando lo aveva ritrovato, non si erano ancora baciati. Prima la febbre, le ferite, la preoccupazione, poi il viaggio sul quinjet, la clinica. Non aveva avuto tempo e modo per pensarci. Portare Bucky al sicuro era stato il suo unico pensiero.
A dir la verità, anche prima e durante la guerra si erano baciati raramente. Non che non lo volessero, ma erano giovani e sentivano il peso del giudizio della società su di loro. Non erano mai riusciti a vivere liberamente, e ad esternare, ciò che sentivano l’uno per l’altro. Il loro rapporto era fatto di pacche sulle spalle, sguardi, abbracci, notti passate vicino, qualche carezza, pochi baci. Era fatto di una materia invisibile agli occhi. Era fatto della fede, assoluta e incrollabile, nel fatto che ci sarebbero sempre stati l'uno per l’altro. Sempre. Era fatto della convinzione di essere inscindibili, come due facce della stessa medaglia.
Ma adesso aveva accennato a quella cosa sul baciarsi in pubblico e Bucky lo stava guardando come se avesse visto un fantasma. Un groppo di panico lo attaccò allo stomaco. Aveva rovinato tutto…
 
Bucky percepì la tensione improvvisa nei muscoli di Steve. Subito all’erta, si sedette rapido sul letto in modo da poter valutare la situazione. Appena si rese conto che non si trattava di una minaccia esterna, si abbassò su di lui e gli appoggiò la mano destra a coppa sulla guancia, per calmarlo. Il biondo chiuse gli occhi e spostò la testa di lato per cercare di aumentare il contatto.
Nella mente di Bucky quel gesto si confuse con uno stesso identico gesto compiuto da Steve settant’anni prima. Si ricordò di loro due a letto, esattamente nella stessa posizione. Steve sdraiato e lui seduto lì accanto, a gambe incrociate, con le mani attorno al suo volto. Occhi negli occhi, come adesso. Si ricordò di quella scena, che terminò con il loro primo bacio. Come poteva aver dimenticato? Come potevano avergli portato via anche quello?
Ma adesso erano lì insieme e potevano ricominciare. Bastava trovare il coraggio…
 
“Se sei d’accordo… vorrei baciarti. Posso?” Chiese titubante.
 
Steve lo guardò come se stesse vedendo un miracolo. Non aveva voce per rispondere, semplicemente annuì, imbarazzato. Bucky allungò allora anche la mano sinistra e gli prese il volto tra le mani come settant’anni prima, con attenzione, quasi con il timore di fargli del male.
 
Steve si ritrasse istintivamente quando sentì la mano metallica sul volto, ma Bucky si fermò, lasciandogli il tempo necessario per abituarsi alla sensazione del metallo freddo sulla pelle. Quando sentì Steve rilassarsi di nuovo sotto le dita, si fece più vicino e finalmente appoggiò le labbra sulle sue. Fu solo una carezza, un respirare la stessa aria. Fino a quando Steve non alzò le braccia attorno alle spalle di Bucky e socchiuse la bocca per permettere alle loro lingue di toccarsi e danzare insieme.
 
Quando si staccarono, molto tempo dopo, appoggiò la testa sul petto di Steve e questi lo avvolse di nuovo in un abbraccio protettivo. Il moro fu il primo a rompere il silenzio. “È stato facile, no?” Per un attimo, il vecchio sorriso sghembo sulle labbra.
 
“Sì, è stato facile.” Rispose Steve, sorridendo.
   
 
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