L’oro
del Reno
Capitolo 1
Fortuna e gloria
Ora l’oro ti è
stato pagato (disse Loki),
ti è dato come riscatto
ingente per la mia testa.
Non porterà gioia a tuo
figlio:
la morte porterà a voi
due
(Edda Poetica, Canzone di Reginn,
v. 6)
Londra, 1983
Mancavano
un paio d’ore al tramonto e la luce solare filtrava, fioca e
sbiadita,
attraverso le finestre della biblioteca. Claudette[1]
allungò la schiena, stiracchiandosi sulla poltrona. La
stanchezza per l’infinito
lavoro di catalogazione iniziava a farsi irrimediabilmente sentire. I
libri che
doveva visionare, del resto, erano centinaia: volumi di storia, di
mitologia,
di arte e di letteratura, ma qua e là spuntavano anche
cataloghi di mostre,
atti dei convegni, riviste specializzate, miscellanee, appunti.
Registrò con un
sospiro l’ennesimo testo, riportando, con quanta
più perizia possibile, il nome
dell’autore, la casa editrice, l’anno, ma una certa
impazienza faceva sì che la
mano corresse più rapidamente sul foglio. Il compito che
aveva abbracciato con
una nota di entusiasmo stava diventando sempre più oneroso e
difficile da
portare a termine, pensò. La data della mostra si avvicinava
e non era ancora a
metà dell’opera: avrebbe dovuto telefonare e
disdire il cinema che aveva in
programma per quella sera, constatò con una smorfia, o non
avrebbe mai finito
in tempo.
Claudette
sfiorò, con le dita su cui spiccava un vivace smalto rosso,
la copertina in
pelle dell’ennesimo volume che avrebbe catalogato per quel
giorno. Lo aprì con
delicatezza, cercò il frontespizio, trattenne il respiro. Un
foglio ripiegato
di giornale, datato più di sessant’anni prima,
riportava un breve trafiletto e
una fotografia quasi totalmente sbiadita, corrosa dal tempo. Un uomo
alto e
magro, dall’aria severa, la fissava accanto a una donna
bionda e minuta, con la
chioma raccolta e un volume ingombrante tra le braccia. Si rese conto
di non aver
mai visto quella foto e rimase colpita dal modo in cui
l’uomo, seduto su quelli
che, presumibilmente, dovevano essere i tavolini esterni di un bar,
fissava il
fotografo quasi con dispetto. Ne seguì la linea elegante del
braccio che si allungava
possessivo sullo schienale dov’era seduta lei, che guardava
da un’altra parte e
rideva portandosi con grazia le mani alle labbra. Il profilo delicato e
la
corona d’oro dei capelli della donna illuminava
l’istantanea e creava un
contrasto con quelli scuri dell’uomo e con il suo sguardo
pungente, che pareva
attraversare la pellicola. Si soffermò su ogni dettaglio
della fotografia,
cercando di capire dalla siepe dietro la coppia dove fosse situato il
presunto
bar o ristorante, domandandosi con chi stesse ridendo lei, cosa
pensasse lui,
concentrandosi così tanto su quell’immagine
catturata decenni prima, da non accorgersi
del leggero movimento della porta.
“Che
ci fai tu qui? Cos’è questo disordine?”
La
voce allarmata riscosse Claudette. La ragazza sollevò il
capo, trovandosi di
fronte lo sguardo spaesato e vacuo di sua nonna, avvolta in un maglione
di lana
nonostante ormai fosse primavera. L’anziana avanzò
fissando ansiosa gli
scatoloni in cui erano già stati riposti con cura documenti
e volumi e appunti.
“Questi
sono i libri di tuo nonno! Ci sono tutte le sue ricerche,
qui!” boccheggiò,
prendendo con le dita sottili e rovinate dalla vecchiaia e
dall’artrite un
testo che sembrava provenire direttamente da una biblioteca
dell’Ottocento e
stringendoselo con forza al petto. Claudette si alzò rapida
e raggiunse
l’altra, osservando il titolo sbiadito del testo che la donna
proteggeva; La canzone di Reginn, lesse.
“Nonnina,
è per l’Università, ti ricordi?
È venuto qui il Rettore in persona, dopo che ci
aveva scritto,” spiegò con dolcezza, carezzando la
spalla minuta e fragile
dell’anziana. Gli occhi grigi dell’altra la
scrutarono dubbiosi.
“È
il
centenario della nascita del nonno: ci hanno chiesto i suoi appunti, i
suoi
libri – ricordi? – per allestire una mostra.
Istituiranno un fondo in suo onore,
in vostro onore: si
chiamerà
Laufeyson-Van der Vanir. Mi hai chiesto di aiutarti a selezionare cosa
donare,
cosa far vedere alla gente.”
Un
altro sguardo smarrito. Non lo ricordava affatto.
“Sarebbe
un’idea meravigliosa. L’avrebbe adorata,”
mormorò la donna con un tremito. “Ho
perso la mia bussola,” annunciò senza posare il
libro. “Hai visto da qualche
parte la mia bussola?”
Claudette
scosse la testa in segno di diniego, paziente. “No, ma adesso
ti aiuterò a
cercarla. L’avrai messa in un altro cassetto,”
ipotizzò, ma prima di cimentarsi
nell’operazione di recupero, mostrò
all’altra la fotografia che aveva ammirato
fino a pochi minuti prima. “Guarda cos’ho trovato:
com’eravate belli, nonna.”
Sigyn
Van der Vanir inforcò i sottili occhiali da vicino che
portava perennemente
appesi al collo, facendo tintinnare la catenina d’oro che li
reggeva, assottigliando
gli occhi, per mettere meglio a fuoco la vecchia istantanea. La sua
mente
sfilacciata si smarriva nel passato recente, rimanendo, invece, ben
ancorata agli
anni, ormai lontanissimi, della sua giovinezza. Con un gesto istintivo
che la
nipote le aveva visto fare tante volte, si sfiorò la fede
nuziale ormai larga,
che non s’era mai tolta dalla mano sinistra e tormentava ogni
volta che una
nube si affacciava all’orizzonte.
“Avevo
la tua età quando mi prese come sua assistente,”
ricordò accennando un sorriso
leggero.
Claudette
rimase in silenzio, in attesa. Aveva sentito tante, tantissime storie
su suo
nonno, perché Loki Laufeyson non era stato solamente uno
storico e un
archeologo di fama, ma anche un eroe di guerra fucilato dal regime
mentre
gridava Viva la libertà[2].
Una
fine tragica, da romanzo, che aveva velato per sempre di dolore gli
occhi grigi
di sua nonna, togliendole luce persino quando, dopo anni di articoli
pubblicati
sotto uno pseudonimo maschile, era riuscita a ottenere proprio la
cattedra che
era stata dell’indimenticato e amatissimo marito e a curarne
le opere postume.
In
ogni casa ci sono storie che vengono raccontate e altre che, invece,
vengono
taciute. In ognuna delle fotografie che ritraevano il professor
Laufeyson,
questi appariva carico del fascino stropicciato
dell’avventuriero e con uno
sguardo glaciale e, allo stesso tempo, fiero. Sembrava un principe invincibile. Sigyn
accarezzò il ritratto, perché il dolore
e la nostalgia le laceravano il cuore da quarant’anni, senza
sosta, né lei
aveva mai voluto né cercato di calmare quel dolore.
“Me la
regalò lui, la
bussola. Era sua.”
♥
Sigyn
Van der Vanir avrebbe collocato l’inizio
della sua tragica e romantica storia d’amore quando, in un
freddo pomeriggio
del Quattordici, il giovane e arrogante professor Laufeyson le
allungò la sua
relazione finalmente corretta; era piena zeppa di punti interrogativi e
chiose
a margine scritte con una malcelata nota beffarda che la indispettirono
per una
serie di ragioni, prima tra tutte che nelle frasi del brillante
archeologo
c’era un fondo di verità lampante. Si maledisse
mentalmente, perché, trovandole
impresse sul foglio di carta opaco, le intuizioni di Laufeyson erano
pungenti,
argute; in un’altra parola, esatte.
Ma lui era questo: uno studioso di fama, un pioniere, celebre per aver
partecipato a degli importantissimi studi in Egitto quand’era
solamente un
ragazzo. Solo che, con gli anni e con la fama, il suo interesse era
deviato per
un punto della storia che non interessava nessuno e per una leggenda
più fioca
e inverosimile di quella che aveva portato alla scoperta della
città della
perduta Troia, la tanto cantata Ilio[3].
Sigyn, i capelli biondi tenuti a stento da un fermaglio di tartaruga,
gli
occhiali poggiati sulla punta del naso grazioso, gettò
un’occhiata al
complicato disordine che regnava nello studio. Nonostante fosse
mattina, una
bottiglia di crema di whisky campeggiava sulla scrivania ingombra di
carte,
appunti, libri, altre relazioni. Accanto, una tazza di caffè
probabilmente già
vuotata.
Il
professor Laufeyson appoggiò le spalle alla bella sedia in
pelle, increspò le
labbra ironiche e sottili in un sorriso affilato come una lama. Sigyn
sentì un
brivido scorrerle lungo la schiena, perché c’era
qualcosa, nell’archeologo, che
la metteva a disagio. La sua voce era calda, avvolgente, appena
arrochita, ma
il suo sguardo aveva la freddezza dei ghiacci eterni. Colpa della
trasparenza delle
sue iridi glauche.
“Un
lavoro discreto, signorina Van Der Vanir,” fu il suo commento
asciutto,
accompagnato da un movimento elegante delle mani. Aveva il dono
d’irretire chi
lo ascoltasse, di trascinarlo nel suo mondo fatto di tesori perduti,
sepolti in
qualche parte dimenticata del mondo. Le sue lezioni erano brillanti e
finivano
sempre troppo presto e Sigyn si era ritrovata più volte,
alla fine dell’ora,
col cuore che batteva e la voglia di porre domande, il timore di non
farne di
abbastanza intelligenti. Si era firmata col solo cognome, limitando il
resto a
una esse puntata che avrebbe dovuto, nella sua testa, far nascere nel
professore un giudizio più oggettivo e severo. Lui aveva
compreso tutto,
ovviamente. Quando lei si era presentata, aveva alzato un sopracciglio
a metà
tra l’incuriosito e il divertito. Non si era pronunciato sul
suo desiderio di
essere equiparata a uno studente di sesso maschile, né aveva
commentato le sue
velleità da suffragetta, come certo avrebbero fatto altri
accademici più rigorosi
di lui. Aveva assottigliato gli occhi, però, scrutandola con
l’attenzione che
dedicava ad alcuni dei reperti che, talvolta, mostrava loro durante le
sue spiegazioni.
“La
sua analisi delle fibule è molto appassionata,”
continuò Loki, allungandosi per
riprendere la relazione che lei, quasi meccanicamente, gli porse e
sfogliando
le pagine dattiloscritte, zeppe di correzioni, “i disegni
notevoli.”
Discreto.
Appassionata. Notevoli. Sigyn, dalla
sua posizione oltre la
scrivania, tentò di interpretare quelle parole. La stava
lodando? Aveva la
bocca drammaticamente secca e una richiesta sulla punta della lingua;
una che
era assurdo fare e che, certamente, il professor Laufeyson non avrebbe
mai
accettato, ma che lei doveva ugualmente arrischiarsi a porre. Mosse un
passo in
avanti, avvicinandosi ancora di più alla scrivania caotica,
agli occhi
dell’uomo ora verdi, ora azzurri – dipendeva,
probabilmente, dal modo in cui li
colpiva la luce – e parlò con una voce sicura,
decisa.
“Vorrei
diventare la vostra assistente. So che ne state cercando uno.”
L’archeologo
inclinò leggermente la testa bruna, come per guardarla
meglio. “Cerco un assistente,”
confermò, scandendo ogni
parola con lentezza, “ma non sono sicuro che voi
possiate ricoprire il ruolo, miss
Van der Vanir.[4]”
“È
perché sono una donna?”
“Anche.”
Un guizzo negli occhi chiari e indagatori dell’altro la fece
sobbalzare. “Sarebbe
ipocrita dire il contrario. Ma non è solo questo.
È una questione di… come
dire? Reputazione.” Loki si mise più comodo sulla
sedia, inumidendosi le labbra
sottili. “Immagino conosciate ciò che si dice su
di me, nell’ambiente. Quello
di cui mi hanno accusato…”
“Lo
so.” Sigyn rispose in fretta, interrompendolo.
“Dicono che siate un ladro di
tombe, ma questo si dice di buona parte degli archeologi,”
sostenne fiera,
alzando il mento quasi volesse sfidarlo. “Non mi importa di
quello che è successo.
Siete uno studioso brillante, mi basta questo,” aggiunse.
Il
professor Laufeyson prese una penna e la fece roteare tra le belle dita
lunghe
ed eleganti. “Si dice anche altro,”
ghignò. “Vuole davvero essere la mia fedele assistente, miss Sigyn?”
Il suo
sorriso aveva un che di feroce e crudele. “Pensa di avere le
qualità
necessarie?”
Fu
l’inizio di un legame destinato a durare, con fasi alterne,
per tutta la vita.
Nel tempo mutò forma e finì per chiamarsi con una
serie di altri nomi, ma la
sostanza rimase inalterata: lei gli aveva donato la sua fedeltà
incondizionata e l’archeologo, da parte sua, si era
ripromesso
di trattarla come la studiosa che aspirava a essere, senza risparmiarle
nulla.
Nei
primi mesi della loro collaborazione, Sigyn lo chiamava professor
Laufeyson indugiando leggermente sul titolo e guardandolo
da sotto le ciglia scure. Non poteva dire di essere immune al suo
fascino; quando
Loki le si avvicinava, si ritrovava a trattenere il respiro per non
lasciare
che il suo profumo di cuoio e pelle e tabacco la scuotesse facendole
accelerare
il battito cardiaco. La bellezza dell’archeologo era
sfacciata, esibita,
tagliente come le sue frasi spesso troppo crudeli, perennemente venate
da una
nota di divertito sarcasmo. Sulla carta, i compiti di Sigyn dovevano
essere
quelli di aiutare Loki a preparare le lezioni, correggere gli elaborati
degli
altri studenti, gestire la sua agenda universitaria e fare per lui
altri
piccoli lavori utili alle sue ricerche, ma nel giro di poche settimane
le sue
mansioni aumentarono di numero e d’importanza.
L’archeologo era entrato nella
sua vita portandosi dietro tutta l’impetuosità e
la sregolatezza che lo
contraddistinguevano, pretendendo da lei una devozione assoluta alla
sua causa
e ai suoi molti, ambiziosi, progetti. Di fronte alla voce graffiata e
roca di
quell’avventuriero con i modi di un Lord, allettata dalla
possibilità di
pubblicare le sue ricerche, anche se sotto falso nome, Sigyn si
lasciò
trascinare in quel mondo d’ombra, illuminato dal sorriso di
fiera di Loki
Laufeyson e dalle sue ricerche più segrete e quasi folli,
perché, come la ragazza
si accorse ben presto, la soddisfazione
non era nella sua natura.
♥
“Professor
Laufeyson, Lord Borson.”
Sigyn
porse due tazze di tè fumante allo studioso e al suo ospite
e fece per
allontanarsi, ma un’occhiataccia del primo la
inchiodò dov’era.
“Tu
non bevi il tè? Siediti, riguarda anche te. Sei la mia
assistente, no?” la
rimproverò caustico.
La
ragazza avvampò. La settimana prima, Loki l’aveva
mandata fuori dallo studio
senza tante cerimonie per parlare di chissà che losche
questioni con un tizio
barbuto che giungeva da Ankara e ora, invece, la voleva lì.
Presa
in contropiede, lo rimbeccò piccata. “Siete
terribilmente volubile, sapete?”
Non
era la prima volta che l’accusava di cambiare idea troppo in
fretta e di essere
scostante; i miei piani variano di minuto
in minuto, sosteneva Laufeyson, e lei incrociava le braccia e
scuoteva la testa,
carica di disappunto, perché Loki si comportava come un
principe e pretendeva
da lei una fedeltà assoluta, totale, terribile.
Aveva
accettato che ricoprisse un ruolo di prestigio che altri le avevano
negato, ma
il prezzo da pagare si era rivelato essere un tributo alto da versare,
forse
troppo. Desiderava stargli accanto il più possibile. Cercava
di far parte della
sua vita.
Lui
la ripagava con certe occhiate troppo lunghe e una serie di sorrisi
sbiechi e
affascinanti che le facevano scorrere troppo spesso un brivido lungo la
schiena,
mettendola a parte dei segreti di quella disciplina nuova che
l’aveva stregata,
correggendo con spietata severità i suoi appunti. Certo, da
studentessa si era
lasciata incantare mille volte dallo sguardo quasi trasparente del
bell’archeologo e, nei primi tempi della loro relazione
lavorativa, il respiro
le si era mozzato nel petto ogni volta che lui si chinato verso di lei
per
mostrarle il dettaglio di un reperto, suggerirle il significato
secondario di
un termine latino o greco, sincerarsi della correttezza del suo
operato. Bugia, era accaduto ogni volta che Loki le si era avvicinato.
Molti
anni dopo, nella solitudine di una casa ormai vuota, Sigyn Van der
Vanir si
sarebbe domandata con un sospiro quale era stato il momento esatto in
cui il
groviglio di emozioni e sensazioni che le scatenava Loki Laufeyson si
era
trasformato nella consapevolezza di
esserne disperatamente innamorata. Ritta in piedi, nello studio troppo
ordinato
che si era ritrovata ad abitare dopo che la guerra che glielo aveva
strappato
via senza darle nemmeno la consolazione di una tomba dove poterlo
piangere, il
ricordo di lui avrebbe avuto il
colore delle cose perdute e mai dimenticate. Sarebbe stato bianco come
la
ciocca di capelli che si attorcigliava attorno al dito, come le ossa
mescolate
ad altre dell’uomo con cui aveva diviso la giovinezza, ma che
non era vissuto
abbastanza per vederla sfiorire. Le parole di Loki le sarebbero uscite
dalle
labbra pallide come una nenia triste, cariche del disincanto di colui
che le
aveva pronunciate quando l’Europa già tremava
sotto i colpi di tensioni
antiche, ma ancora inesplose. Una
sepoltura degna è ciò che l’uomo ha
sempre desiderato per se stesso,
diceva, solo che, per ironia della sorte, lui non ce l’aveva
avuta, una tomba
che uomini nati secoli dopo di lui avrebbero trattato con rispetto. Gli
era
toccata la triste fine dei guerrieri e dei pirati – le sue
spoglie si erano
perse. Sì, l’ormai rinomata archeologa conosceva
esattamente il punto della sua
vita dove doveva scavare per recuperare il ricordo che le serviva, in
verità
mai dimenticato. Aveva capito d’essersi innamorata nel
pomeriggio lontano in
cui portò un tè a Lord Borson e a Loki, per
sedersi poi assieme a loro con un
certo malcelato disagio. Questa consapevolezza le avrebbe fatto
spuntare sulle
labbra il principio di un sorriso dolce e nostalgico, ma
un’altra le avrebbe
velato il cuore: nello stesso momento in cui lei si era innamorata,
Loki
Laufeyson, con quei suoi occhi brillanti e il sorriso astuto dipinto
sulle
labbra sottili, aveva firmato la sua condanna a morte. Solo, non lo
sapeva
ancora. Non lo sapeva nessuno.
♥
“Sei
in cerca di fortuna e gloria, Odino?” Loki si era messo
ancora più a suo agio
sulla poltrona, facendo aderire perfettamente le spalle allo schienale,
ma
c’era, in lui, il disordine che avrebbe avuto il principe dei
furfanti assiso
sul proprio trono.
Un
guizzo divertito illuminò l’unico occhio di Lord
Borson, mentore
dell’archeologo. Li accomunava la medesima passione per la
retorica: entrambi
erano soliti usare nei loro discorsi frasi complesse e sottintesi
incredibilmente pungenti – persino troppo – e
adoravano invischiarsi in
intrighi e piani e ricerche assurde, che spesso traevano la loro
origine dai
miti e dalle leggende. E, in quel preciso istante, proprio un testo che
parlava
delle antiche storie dei vichinghi troneggiava sul tavolo, accanto alle
tazze
di tè. Sigyn abbassò gli occhi sul dorso in pelle
consunto, sulle macchie
giallastre che si intravedevano sulle pagine.
“Deve
essere qui. La leggenda parla di un tesoro enorme nascosto sotto una
cascata e
sorvegliato da un mostro terribile, forse un drago,”
spiegò Odino puntando il
dito nodoso sul foglio. “Si tratterà della
sepoltura di un capo guerriero, di
un re leggendario.”
“L’oro
di Asgard,” mormorò Loki e gli occhi verdi
s’illuminarono di una luce terribile.
“La canzone di Reginn
parla di un
tesoro maledetto che causò la morte di due fratelli e di una
guerra che coinvolse
addirittura otto re,” ricordò asciutto.
“Ne parla anche Beda il Venerabile[5].”
Durante
le sue lezioni, era solito spiegare che l’archeologia,
nonostante Ilio
dissepolta e strappata dalle nebbie del mito, non era una scienza che
studiava
le fiabe, né si occupava di andare a caccia di tesori. Era
un lavoro fatto d’indagini
e pazienza, che si basava su prove e fatti, null’altro.
Occorreva scavare
necropoli e studiare le sepolture e, da lì, con rispetto e
metodo, carpire le
testimonianze di un passato remoto, svanito, di cui talvolta non
restava che
qualche fibbia, l’elsa di una spada con la sua lama ormai
rovinata e cocci
sparsi di ceramica.
Protetto
dalle quattro pareti del suo caotico studio, però, Loki
Laufeyson abbandonava
definitivamente la maschera del compassato e preciso studioso per
rivelare la
sua parte più selvaggia e, forse, sincera: ascoltandolo
nella penombra di un
pomeriggio inglese, Sigyn si ritrovò a pensare con un
brivido che il confine
tra un archeologo e un predatore di tesori per l’uomo fosse
decisamente labile,
forse persino troppo.
I
volti di Loki e Lord Borson erano solo parzialmente illuminati e
ciò rendeva la
scena degna d’un quadro fiammingo. Le vennero in mente certe
fotografie
raffiguranti gli splendidi gioielli trovati in alcuni scavi in Asia
Minore[6],
ripensò alle parole severe di suo padre quando aveva deciso
di dedicarsi
all’archeologia: che era una scienza nuova e strana; che
assomigliava troppo al
latrocinio immondo perpetrato dai profanatori di tombe; che i morti non
andavano disturbati. Ma Sigyn aveva letto i lavori di Schliemann[7]
e di Flinders Petrie e si era messa in testa di iscriversi proprio
nella
facoltà di archeologia perché desiderava
squarciare il velo tra passato e
presente e conoscere ciò che era stato, toccarlo con mano,
instaurando un
circolo capace di connettere passato e futuro.
A
lezione e nelle conferenze, sia Loki Laufeyson che Lord Borson
proclamavano a
gran voce e con decisione che la loro professione non era andare a
scavare tesori,
ma rintracciare reperti e studiarli: capire il passato, attraverso la
storia
particolare di uomini e donne che l’avevano costruito, per
rintracciare le
proprie origini. Solo la sera prima, entrambi gli studiosi avevano
partecipato
a un animato dibattito che si era tenuto in un circolo ristretto, per
poi
discorrere con altri insigni colleghi della novità
rappresentata dalla
possibilità di eseguire degli scavi stratigrafici: un metodo
sperimentale, che
offriva la possibilità di compiere ricerche sempre
più metodiche e accurate. Il
giorno dopo, invece, i due uomini erano lì, di fronte a lei,
a raccontarsi una
fiaba vecchia di secoli, a cercare un modo per renderla reale,
sorridendo alla
maledizione che l’oro di Asgard si tirava appresso, incuranti
e sfrontati
com’erano.
Lord
Borson mascherava con più abilità
l’espressione del predatore sotto la pelle
abbronzata dal sole dell’Egitto e dell’Asia Minore.
Merito di un modo di fare
che lo rendeva ancora affascinante nonostante gli anni, ma chi lo
guardava da
vicino poteva cogliere la durezza del suo sguardo celeste e intuire
cosa si
nascondesse nel suo spirito inquieto.
Loki,
animato dalla stessa febbre, aggiungeva nozioni a nozioni, connettendo
tra loro
gli antichi scritti di monaci che avevano consumato la vista alla luce
delle
candele di qualche scriptorium
altomedievale, ripercorrendo, con la sua bella voce
d’incantatore, le epopee di
quanti avevano cercato invano l’oro
del
Reno. Fu lì, mentre l’archeologo si
appassionava a quella storia antica e
progettava di trovare la tomba di Reginn, che Sigyn
s’innamorò definitivamente
del suo profilo affilato e bello, della trasparenza degli occhi verdi,
delle
labbra sottili perennemente arcuate in un mezzo sorriso sghembo, della
voce
leggermente roca. Con i gomiti poggiati sul tavolo ingombro di carte e
mappe di
quella parte dell’Europa che, di lì a qualche
mese, sarebbe stata sconvolta da
una guerra lunga e logorante, muoveva le mani eleganti da prestigiatore
per
illustrare al proprio mentore e a lei dove e come trovare i
finanziamenti
necessari per approntare la spedizione, quale fosse il punto in cui era
più
ragionevole iniziare la caccia a un tesoro maledetto, sepolto, come non
se ne
erano mai visti, colorato del fascino di un mito noto a pochi. Si rese
conto di
essersi innamorata di lui mentre la fioca luce che li circondava
rendeva anche
lei, incantata ad ascoltarli, parte della scena ritratta da un pittore
ispirato.
Erano
elementi della storia anche loro: i mille anni che li separavano dal
gruppo di
re guerrieri divenuti leggenda che si erano combattuti fino alla morte,
ammirati come fossero dèi e messi sul loro stesso piano, si
annullarono
improvvisamente.
Loki parlava,
spiegava, ipotizzava. Afferrata una penna, si era messo a tracciare
segni sulla
cartina sotto lo sguardo compiaciuto di Lord Odino Borson e Sigyn, col
cuore
che batteva al ritmo di una consapevolezza che la rendeva leggera e
cupa
assieme, avrebbe ricordato quel momento fino al giorno lontano in cui
sarebbe
morta. Gli ultimi pensieri nitidi della sua vita, già
corrosi dall’inesorabile
perdita di lucidità cui la malattia, alla fine,
l’aveva costretta, le avrebbero
concesso di rivivere, per un solo momento, quella strana serata,
facendole
ritrovare la bellezza elegante di Loki Laufeyson e il suo sguardo di
lupo.
Subito appresso, il pensiero sarebbe volato irrimediabilmente allo
spiazzo
dietro un edificio grigio dove il nemico di una vita intera si era
vendicato di
un torto antico, dando l’ordine di sparare al petto
dell’archeologo. Luogo
dell’esecuzione che lei, alla fine, aveva visitato mentre il
figlio la teneva
sottobraccio, la figlia si asciugava orgogliosa una lacrima traditrice.
Del suo
brillante marito dal sorriso laterale e lo sguardo chiaro non era
rimasto
niente, tranne quegli occhi verdi accanto a lei che scrutavano furiosi
la terra
battuta, il broncio fiero che, poco distante, soffocava un singhiozzo
represso.
Ma questa è un’altra
storia[8].
♥
Claudette
non aveva idea di dove sua nonna avesse riposto
l’indispensabile bussola.
Ricordava a malapena l’oggetto, ma era abbastanza convinta
che si trovasse
nella consolle in camera da letto, magari insieme ai gioielli e ai
documenti
che l’anziana teneva nella stanza. Fino a pochi anni prima,
la mente
dell’illustre professoressa Sigyn Van der Vanir era stata
pronta e vigile, ma
negli ultimi anni le dimenticanze e le leggere distrazioni erano
diventate
sempre più profonde. Claudette ricordava ancora quando,
bambina, talvolta
andava a trovare sua nonna nello studio che occupava con fierezza
all’università. Adorava sedersi sulla poltrona in
pelle color cuoio che
troneggiava dietro la scrivania e sfogliare alcuni degli stessi libri
che ora
stava inscatolando per la mostra in onore di suo nonno. Sigyn allora le
sorrideva, energica e vitale, affascinandola con storie di popoli
perduti e di
città nascoste che dormivano sotto la sabbia e degli uomini
e delle donne che,
animati da una passione incontrollabile, avevano riportato alla luce
case e
sepolture, vie e piazze. Quando lei si meravigliava della sua bravura e
si
mostrava entusiasta, l’altra increspava le labbra in un
sorriso leggero e,
abbassando il tono della voce, aggiungeva che, se ci fosse stato ancora
il nonno
con loro, ogni spiegazione o leggenda sarebbe apparsa ancora
più bella, perché
lui aveva il dono, con la sua lingua
d’argento, d’incantare chi lo ascoltasse.
Forse, immaginò Claudette, era
allora che aveva visto per la prima volta sua nonna sfiorare con un
tocco
leggero la bussola dal coperchio intarsiato che teneva sulla scrivania.
Un moto
di tenerezza la invase vedendo la figura sottile dell’anziana
archeologa che
s’affannava nella ricerca dell’oggetto.
“Proviamo
a vedere se è in questo cassetto, nonnina?”
♥
Il
piano per rintracciare il favoloso oro
del Reno rimase su carta, destinato a non trovare compimento,
per lungo
tempo. Era come se la maledizione scritta nell’alfabeto
runico, che Sigyn aveva
finito per apprendere, avesse impregnato i loro cuori, macchiandone
persino le
anime. Poche settimane dopo l’incontro serale tra Loki e Lord
Borson, scoppiò
un conflitto che si sarebbe combattuto nelle trincee scavate nella
terra, tra
il fango che inzaccherava il filo spinato. Anche il professor Laufeyson
vi prese
parte. Partì col grado di ufficiale che gli spettava per
rango, privo
dell’illusione che si trattasse di una guerra giusta,
ammantato del disincanto
cinico che contraddistingueva molte delle sue idee politiche e del
dispetto per
essere stato costretto ad abbandonare le sue ricerche in un momento
fondamentale: quello in cui, assieme al suo mentore e amico, che
considerava
alla stregua d’un padre e che ammirava sopra ogni cosa, stava
iniziando a
raccogliere fondi per preparare l’ambiziosa spedizione.
Un’idea folle che si
era tramutata in ossessione, perché Loki non era capace di
accontentarsi di
niente: la soddisfazione non era nella sua natura e Sigyn lo sapeva, lo
aveva
capito fin dai primi, tumultuosi, giorni in cui era iniziato il loro
sodalizio
professionale, in cui si consumava gli occhi per sottoporgli
precisissime
riproduzioni fatte a matita dei corredi funebri che
l’archeologo aveva scavato
in qualche remoto villaggio del Cumberland da allegare alle sue
ricerche e,
contemporaneamente, con uno sbuffo, gli sistemava una delle giacche
eleganti
che gli calzavano comunque a pennello[9].
Il
primo conflitto mondiale spazzò via la routine di un
continente intero e anche
di più, ma, soprattutto, incrinò definitivamente
buona parte dei rapporti
personali di Loki o, perlomeno, i più importanti, creando
una profonda frattura
persino nei confronti di Sigyn, che col duro lavoro e la sua
intelligenza viva
e pungente era riuscita faticosamente a guadagnarsi la sua stima.
Dalla
guerra l’uomo tornò spezzato, furioso, arrabbiato.
La brama
di scoprire l’ignoto, che l’aveva sempre
caratterizzato, si era unita a
qualcosa di spiacevole, che gli orrori dei campi di battaglia potevano
spiegare,
sì, ma solo in parte. Era una sete, un’arsura, che
poteva essere letta come il
bisogno di vendicarsi del mondo intero consegnando il proprio nome alla
gloria
non solo – o non più – per il bisogno di
donare agli uomini il fuoco della
conoscenza, ma per un
crudele tornaconto personale, per pareggiare dei torti che aveva
subìto. Nessuna
ferita visibile gli deturpava il fisico asciutto e nervoso, ma i suoi
occhi
chiari e quasi trasparenti mostravano una traccia evidente
d’inquietudine.
Colpa
del tradimento che gli era stato inflitto, lungo una vita intera,
iniziato nel
momento in cui, ancora in fasce, aveva gridato il suo disappunto per
essere
venuto al mondo.
Sigyn
scoprì il mutamento nel peggiore dei modi, nel periodo di
una breve licenza
dell’archeologo, quando, dopo quasi due anni passata ad
attenderlo – a sognarlo
– se lo ritrovò finalmente davanti con un
bicchiere di whisky in mano e la
divisa da ufficiale ancora indosso. Sarebbe falso dire che quella vista
la
colse impreparata: l’aveva cercato. Alcuni compiaciuti
colleghi che mal
tolleravano le intemperanze di Laufeyson,
all’università, si erano messi a
raccontare di come Loki fosse tornato dal fronte furioso e avesse
deciso di
mostrare il suo disappunto all’intera Londra nel
più plateale e scenico dei
modi, così come si confaceva al suo animo altero e
orgoglioso: aveva raggiunto
Lord Borson al circolo, gli si era parato davanti e, puntandogli una
pistola, si
era messo a gridare che sapeva tutto. Si trattava, come presto avrebbe
scoperto
a sue spese anche Sigyn, di un segreto noto a troppi, che solo il
diretto
interessato ignorava ancora. Stando ai racconti dei presenti, Odino
Borson
stava leggendo un quotidiano con un sigaro che gli pendeva dalle
labbra. A
quella vista, l’anziano studioso aveva abbassato leggermente
il giornale fissandolo
con quel suo unico occhio che Sigyn immaginò terribile
eppure triste. Pare che
non disse nulla, né si mostrò sorpreso di fronte
all’arma.
Forse
se lo aspettava, se lo era aspettato per una vita intera, che quel
momento
giungesse. Alcuni raccontarono di come Lord Borson si fosse alzato in
piedi,
altri che aveva preferito rimanere lì, sulla poltrona
rivestita in pelle, in
attesa di un colpo che non sarebbe arrivato mai.
Era
stato Loki a parlare per primo. “Cosa sono?”
Domanda
secca, fatta a bruciapelo, con gli occhi lucidi.
Odino
si era concesso un sospiro e aveva parlato con lentezza, come quando,
durante
le lezioni che teneva all’università tra
un’esplorazione e l’altra, voleva
assicurarsi che i suoi ragionamenti si sedimentassero nelle menti degli
allievi
di fronte a lui. “Il mio miglior studente, il mio socio.” Aveva sospirato di
fronte all’altro che scuoteva la testa. “Un
brillante archeologo.”
“E
cosa più di questo? Sir Thor
non è
l’unico bastardo che hai avuto, vero?”
Loki
incalzava, furioso, furibondo.
Odino
aveva continuato a sostenere lo sguardo spaventoso che gli era di
fronte. “Lasciai
sua madre per la tua. Fu una storia breve anche quella,”
aveva ammesso.
“Perché?
L’hai sempre saputo. Perché?”
“La
famiglia di tua madre non gradiva la mia presenza.”
“No,
no.” La risposta non era stata giudicata abbastanza esaustiva
dal brillante
professor Laufeyson, che doveva certi colpi di fortuna proprio
all’interessamento e alla raccomandazione dell’uomo
di fronte a lui. Il braccio
non si era abbassato, né la mano aveva tremato.
“Tu mi hai mentito fino a ora
per un motivo. Qual è? Dimmelo!”
Lo
aveva detto gridando, a denti stretti, carico di
un’esasperazione per una
scoperta atroce, emersa, del tutto casualmente, una sera, al fronte. E,
dinanzi
a quell’ira cocente, Lord Odino, alla fine, aveva ammesso il
ragionamento fatto
quando, dopo anni di disinteresse, aveva preso sotto la sua ala
protettrice
quel ragazzo dagli occhi verdi e la risposta sempre pronta che aveva il
suo
stesso sangue nelle vene.
“Pensavo
che avresti rifiutato di aiutarmi nelle mie ricerche se avessi saputo
la verità,
ma le mie preoccupazioni, ora, non hanno più
importanza.”
Era
calato il silenzio, nella sala. E, forse, qualcuno aveva chiamato la
polizia
per evitare che Loki sparasse.
“Allora
non sono altro che questo: un mezzo, utile per raggiungere cosa? Fortuna e gloria?”
“Perché
deformi le mie parole?” Una domanda pronunciata con voce
stanca, disincantata, destinata
a scontrarsi, ancora, con una furia impossibile da domare.
“Avresti
potuto rivelarmi chi ero dall’inizio. Perché non
l’hai fatto?”
“Tu
sei mio figlio. Ho solo cercato di proteggerti dalla
verità.”
Alla
fine, Odino Borson l’aveva detto: Loki era suo figlio, come
Thor.
♥
Sigyn
venne a sapere tutto questo e mascherò il disagio per quella
rivelazione più
abilmente che poté, in pubblico, ma si avviò a
passo svelto a casa del
professor Laufeyson per mille ragioni e nessuna. Il rumore dei suoi
stivaletti
sul marciapiede accompagnò il ricordo di tutte le volte in
cui i due studiosi
si erano ritrovati insieme, complici l’uno delle scoperte
dell’altro.
Ragionavano allo stesso modo, agivano seguendo i medesimi schemi e si
stimavano
in maniera feroce e orgogliosa. L’oro
del
Reno era l’ultimo dei loro grandiosi progetti, ma
non il primo, né il solo:
sarebbe stato l’unico irrealizzato, però.
Stringendosi nel semplice paltò di
lana per proteggersi dal severo inverno londinese, Sigyn
pensò che l’antica
maledizione del tesoro vichingo si fosse abbattuta, a distanza di
secoli, anche
su di loro che avevano solo osato ipotizzare di riportarlo alla luce.
La
cosa peggiore nel trovarsi di fronte Loki non
fu capire cosa gli fosse successo cercando di interpretare le ombre
scure
dietro le sue pupille mobili e inquiete, chiare e sempre acutissime,
né
sopportare il cinico sarcasmo che le riversò addosso con una
smorfia sghemba
delle sue labbra sottili, segnate da una cicatrice nuova. Lui era caos
e lei se
ne era accorta dal giorno in cui si era proposta come sua assistente.
Loki si
sentiva tradito e pareva un animale in gabbia. Era vissuto dentro un
inganno,
si era illuso di essere stato scelto per merito, invece il vecchio Lord
Borson
si era semplicemente pentito di aver abbandonato l’ennesimo
frutto delle sue
relazioni amorose, anzi, peggio: aveva fatto del proprio figlio
bastardo
l’assistente perfetto, sfruttando l’ammirazione
accademica che il più giovane
provava per lui, negandogli una verità dovuta,
perché, in fondo, tutti
meritiamo di sapere chi siamo e da dove veniamo. È un
desiderio legittimo[10].
Loki
l’accolse squadrandola dall’alto in basso e
piegando le labbra in una smorfia
tirata, perché lei sapeva – come tutta Londra, del
resto. Non l’invitò a
restare, ma Sigyn osservò la bottiglia di whisky e il
bicchiere con due dita di
liquore dentro e disse che bere non sarebbe servito.
“E
cosa mi servirebbe, invece miss Van
der Vanir?” chiese ironico. La chiamò per nome
assaporandone le sillabe sulle
labbra sottili e lei tremò sentendo il tono roco e
freddamente divertito
dell’archeologo, perché quel modo di pronunciare
il suo nome era troppo, troppo
simile a una carezza fatta sulla pelle. Non parlarono mai di quello che
aveva
significato, per Loki, scoprire le circostanze della sua nascita e la
paternità
di Odino. Il professor Laufeyson era bravo a custodire i propri segreti
e non
li avrebbe condivisi con nessuno, nemmeno con lei, neppure mentre le
posava
davvero le labbra sulla pelle. Le sue certezze si erano infrante, la
sua
esistenza e parte della sua carriera si era rivelata una menzogna, una
truffa,
e allora tanto valeva prendersi ciò che aveva desiderato, ma
fino a quel
momento aveva scelto di non prendere.
Nello
studio avvolto dalla penombra, Sigyn si ritrovò con le
spalle contro la
libreria che aveva messo in ordine mille volte e la bocca
dell’archeologo che
sfiorava con infinita lentezza il suo collo, come se volesse
assaggiarla,
respirando il suo profumo. La strinse per la vita e lei
lasciò che lo facesse,
perché aveva sognato e sperato che una cosa simile
avvenisse, vergognandosi per
un simile desiderio. Si morse le labbra, sperando che
l’esplorazione sempre più
rapace non terminasse, odiandolo, perché le sue carezze
audaci la scuotevano,
ma lui continuava a negarle il piacere di un bacio sulla bocca. Allora
Sigyn
gli accarezzò i capelli scuri, ghermì le spalle
larghe e robuste, si tese
contro il corpo asciutto e tonico dell’uomo per cui lavorava
e che le era
mancato ogni giorno di quella guerra vicina eppure troppo lontana.
Finirono
per fare l’amore sul divano di quello stesso studio dove, un
paio d’anni prima,
avevano ipotizzato insieme di trovare il tumulo sotto cui era custodito
l’oro del Reno. Loki le
sciolse i capelli,
le tolse dal naso gli occhiali dalla montatura rotonda, le disse che
era bella,
ma Sigyn non commise l’errore di chiedergli che cosa
significasse quel momento
di passione non trattenuta, né cedette al medesimo impulso
dopo, quando la
convinse a spogliarsi del tutto e a rifarlo nel suo letto.
Sfiorò le cicatrici
leggere che aveva sulle spalle, si addormentò cingendogli la
schiena,
ascoltando il battito del suo cuore, domandandosi se
quell’amore l’avrebbe
consumata. Non si pentì di aver scelto di unirsi a lui,
quella notte e le
altre, troppo brevi, della licenza, ma non gli diede la soddisfazione
di
farglielo sapere, mai, così come si rifiutò di
versare anche una sola lacrima
davanti a lui quando Loki dovette tornare al fronte. Immobile alla
scrivania
della sua casa natale ormai vuota, con la famiglia decimata dal
conflitto e un
padre troppo malato per poterne vedere la fine, lo maledisse per tutte
le
lettere cui lui non si degnò mai di rispondere.
Sentì di essersi spezzata. L’oro
del Reno li aveva maledetti prima
ancora che la sua ricerca divenisse realtà.
La bussola
non le apparteneva ancora: era di Loki, che l’aveva comprata
qualche anno prima
in una vecchia bottega d’antiquariato. Sigyn
l’aveva notata molte volte, mentre
era nel suo studio, ma non l’aveva mai nemmeno sfiorata. Una
sera, vestita solo
di una sua camicia che le copriva interamente i fianchi, si era
avvicinata per
osservarla meglio: splendeva dentro a una vetrina e pareva un gioiello.
Aveva
aperto il mobiletto guardandola ammirata, certa che Loki non la stesse
osservando, ma lui, invece, l’aveva notata.
[1]
Volevo un nome moderno, per questo personaggio la cui funzione
è quella di
traghettare il lettore verso la narrazione. Molti hanno scelto
espedienti
simili per raccontare una storia. È solo un personaggio e
non mi veniva proprio
un altro nome in mente.
[2]
La figura di Loki in questa umile minilong AU è fortemente
ispirata alla
personalità dello storico medievista e padre della moderna
Storia Medievale
Marc Bloch (1886-1944). Vi invito a leggere la sua biografia e a
perdonare la
leggerezza di voler accostare, sia pur marginalmente, il dio degli
inganni
all’autore de L’apologia
della storia.
[3]
La storia e, soprattutto, l’archeologia medievale, che
sarebbe esplosa decenni
più tardi.
[4]
Loki e Sigyn si danno del voi. Loki sta dicendo che è
orientato verso “un
assistente” di sesso maschile anziché
“un’assistente donna”.
[5]
Storico inglese, monaco del VII secolo. Questa è una licenza
poetica, Beda non
ne parla.
[6]
Mi riferisco agli scavi di Ilio, la città di Troia.
[7]
L’archeologo che scoprì la sopracitata. Il secondo
nome menzionato è quello di
un importante archeologo inglese del primo Novecento.
[8]
Il figlio e la figlia richiamano una mia serie, Tutte le tue bugie/La
tela
degli inganni: si tratta di Vali e Sonje.
[9]
Il Cumberland è un easter egg, visto che siamo in tema:
è la zona dove è situata
Crimson Peak.
[10]
Odino farfallone? Ebbene sì, almeno nel mito. Thor lo ebbe
da Gea, non da
Frigga. Figlio di quest’ultima è solo Balder il
Buono.