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Autore: shilyss    11/05/2019    25 recensioni
Loki, spietato comandante al servizio di Thanos, è in cerca di ogni traccia o indizio che riconduca alle Gemme dell'Infinito. Nelle sue esplorazioni finirà per imbattersi in una scoperta capace di sollevare il velo su un ricordo soffocato da tempo...
Così, la parentesi di una notte in cui si erano lasciati travolgere dalla musica allegra dei cantori e dalle danze che festeggiavano la fine di un lungo inverno, si era protratta fino a che non erano stati più capaci, né avevano desiderato, porvi fine. Era come essere ebbri di vino e voler bere ancora. [...] Anche se non avrebbe mai rimpianto nulla, nessuna scelta, neanche una decisione, nemmeno quell’ultima notte strappata tra un bacio salato e un sospiro, irrecuperabile se non nei ricordi o con l’uso del seiðr.
[Thor] [Pre-Avengers] [prequel e stesso universo di: "Come un vizio assurdo" - fandom "The Avengers"] [Loki/Sigyn]
[ ♦ Storia Terza Classificata al contest 'Ave Atque Vale' indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP ♦ ].
[ ♦ Storia Prima Classificata al Contest "With or without you - Con o senza di te" indetto da Emanuela.Emy79 sul forum di Efp e giudicato da missredlights. ♦ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Sigyn
Note: Lime, Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Era solo un gioiello

 

 

 

 

I

 

Eterni vincoli

 

 

 

 

Resta soltanto tutto il rimpianto

perché ho peccato nel desiderarti tanto

ora son solo a ricordare e vorrei poterti dire

guarda che luna, guarda che mare!

(Guarda che luna, F. Buscaglione, 1959)

 

 

 

La grotta, immensa e terribile, si apriva con la sua bocca nera fatta di stalattiti che incombevano come fossero i denti aguzzi di un drago. Loki Laufeyson pensò che una volta c’era finito davvero, dentro le fauci spalancate e venefiche di un simile mostro. Jormungander era il suo nome e si trattava di una bestia spaventosa e, allo stesso tempo, affascinante. Thor era con lui e gli diede la colpa dell’increscioso incidente; per poco non morirono entrambi, ma fu divertente uscire – era sempre terribilmente divertente combattere con lui, spalla contro spalla. Una smorfia gli increspò il viso affilato. S’inoltrò oltre i denti di pietra, con un pugnale affilato in mano e una bolla di luce evocata grazie al seiðr nell’altra. In breve, si distanziò dal drappello, che lo seguiva titubante ed esitava a lasciarsi avvolgere dall’oscurità umida della grotta.

A Loki non interessava che lo seguissero. Provava un disgusto evidente per quella soldatesca prezzolata che non sapeva tenere nemmeno in mano una lancia. Gli Æsir erano un popolo di guerrieri feroci e impavidi, che imparavano a usare le armi quand’erano ancora bambini: non temevano la morte né l’oscurità, così come non lasciavano che, a influenzarli, fossero dicerie, leggende o le forme strane e mostruose assunte, talvolta, dalla natura. Allungò il passo, compiacendosi della solitudine e dell’oscurità che lo circondavano: l’unico che fosse mai stato degno di camminargli di fianco era passato dall’essere fratello a diventare un estraneo, eppure c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui si erano separati: Thor aveva fatto di tutto per afferrargli la manica o un lembo del mantello e tirarlo sul Bifrost spezzato anche dopo averlo combattuto e lui, invece, si era lasciato cadere, preferendo l’oblio alla sconfitta. Ma davvero era andata così?

Loki non lo ricordava[1] e, a dire il vero, non era sicuro di volerlo rammentare. Gli ultimi istanti della battaglia quasi fratricida che aveva combattuto contro Thor sul ponte che collegava i mondi erano ricordi confusi, che si mescolavano tra loro generando incubi. Aveva dimenticato parte di quello che era successo e non ci teneva a rivangarlo. Gli era rimasto addosso altro – le origini controverse, l’inganno subìto, l’ombra della grandezza di Thor che l’aveva offuscato, nascondendo la sua luce. Ecco perché la solitudine gli era cara, in quel particolare frangente della sua vita: aveva trascorso mille anni interi con un fratello che gli era stato rivale, alleato, amico, ma che, alla fine, aveva ricusato per dimostrare di splendere come e quanto lui, se non di più.

 

Alcuni dei servitori di Thanos lo chiamavano principe Loki con deferenza affettata, chinando lo sguardo, tributandogli omaggi solo in virtù della sua crudele inclinazione a tirare scherzi cattivi, a ingannare per il gusto di farlo. Temevano lui, il seiðr e l’influenza che sapeva esercitare, in virtù della sua sagacia e della lingua affilata e arguta, sui potenti, anche quelli più vicini al Titano. Lo appellavano principe Loki, ma ad Asgard quelle due parole avevano avuto un sapore diverso, più puro, e non era solo per il fatto che fuori dei Nove Regni il nome della gente che lo aveva cresciuto veniva storpiato in asgardiani, né perché una parte della mente dell’ingannatore sapeva bene che il trono degli Jotnar gli spettava per diritto di sangue[2]. Suo era il braccio che aveva impugnato Gungnir, la lancia che aveva trapassato la schiena di Laufey. Avrebbe potuto reclamarlo, quello scranno, sì. Rivendicarne il possesso, vantarsi, presso i Giganti di Ghiaccio, di come avesse ucciso il loro sovrano colpendolo a tradimento, alle spalle. La giusta vendetta toccata a colui che lo aveva lasciato morire, perché troppo debole, su un picco di ghiaccio. Nient’altro.

Il ventre di pietra della caverna proseguiva per decine di miglia[3], rivelando cripte, cunicoli e pitture rupestri conservate per un qualche colpo di fortuna dovuto alla particolare atmosfera del luogo. Gli occhi verdi e mobili dell’Ase si soffermarono sulle iscrizioni leggermente sbiadite, sulle figure abbozzate, per poi puntarsi più in basso, sui resti terreni della popolazione perduta che, si diceva, avesse posseduto il segreto delle Gemme forgiate prima del tempo e dello spazio, quando l’universo non aveva ancora un nome. Agli occhi del dio dell’inganno, però, la catacomba sotterranea non sembrava affatto il nascondiglio di un segreto antico quanto la creazione di ogni cosa; gli pareva di più l’eco pallida di un popolo che aveva avuto una rapida ascesa e poi, altrettanto velocemente, era caduto nell’oblio della memoria. Le ossa che spuntavano dalle varie cripte suggerivano un’esistenza che per alcuni era stata piacevolmente serena, per altri breve e tragica. In lontananza, l’Ase avvertì i passi rapidi del drappello giunto, finalmente, alle sue spalle. Lasciò che lo raggiungessero, diede qualche breve, secco ordine. Era qualcosa che gli si confaceva, comandare. Un onere di cui aveva accettato il peso fin da quando la barba non aveva iniziato a pungergli il viso, anche se l’epoca delle scorribande fatte con Thor per il solo gusto di andare a caccia di avversari e sconfiggerli non si era affatto sopita: così, i giochi infantili fatti con spade spuntate o di legno si erano trasformati in qualcos’altro – nella necessità di combattere e vincere sempre, ovunque. Scacciò quel pensiero e tornò a inoltrarsi, solo e altero, tra i cunicoli di pietra. Arrivò in quella che era la parte più antica della grotta; glielo suggerì l’aria rarefatta, la forma più rozza e ipnotica delle figure dipinte e incise sulle pareti, la difficoltà che iniziava a incontrare nell’avanzare tra i detriti. Si domandò se non fosse il caso di tornare indietro e concludere così l’esplorazione, ma fu trattenuto da una sensazione strisciante, dall’intuito di mago che gli faceva pizzicare i polpastrelli. Forse quello che cercava era davvero in fondo al nero corridoio che, tortuoso, si stagliava di fronte a lui. Attirato da quest’eventualità remota, ma possibile, stirò le labbra in un ghigno, alla scoperta del segreto che l’attirava nelle viscere della terra. Una lastra di pietra impediva l’ingresso: la spostò individuando il meccanismo antico che la bloccava, mentre un ghigno furbo e compiaciuto gli si disegnava sulle labbra beffarde. Senza indugio alcuno, avanzò rischiarando il buio col passo sicuro dell’esploratore, del cacciatore, del predone, persino.

Fu allora che la vide. La luce che teneva in mano aumentò d’intensità, consentendogli di ammirare una camera naturale scavata nella grotta e, soprattutto, ciò che si trovava al suo centro. All’interno di un grande cerchio, c’erano due scheletri vicini: sembrava che la morte li avesse colti nel sonno, ma non era così. Si trattava di una sepoltura rituale, come testimoniavano gli oggetti deposti accanto ai resti. Il mancato re, figlio d’un sovrano spietato come il più glaciale degli inverni e cresciuto da un pirata che aveva ricoperto d’oro la sua casa, non avrebbe dovuto posare ulteriormente lo sguardo su una simile tomba. La ragione imponeva che si voltasse per andarsene, o proseguisse senza alcun indugio. Qualcosa, invece, lo trattenne lì; cos’era? Il bisbiglio quasi impercettibile di un fantasma desideroso di raccontare la propria storia, il guizzare di un’ombra immaginata grazie ai nervi tesi e all’erta, una percezione del mondo visibile e dell’invisibile, accentuata dal seiðr, mera curiosità? Perché fermarsi? Per quale ragione chinarsi e rimuovere, con un’onda leggera d’energia – guai a toccare con le proprie dita eleganti la polvere millenaria che dimorava in quel luogo – i detriti finissimi lasciati dal tempo?[4]

L’Ase si ritrovò a osservare l’ultimo vessillo di un amore antico, perduto. Abbassò lo sguardo per valutare ognuno degli indizi che i due scheletri gli offrivano. Lui era un guerriero nel fiore degli anni, morto per via di una ferita alla testa. Piegò le labbra in una smorfia appena accennata, si tirò su, girò attorno alla piccola fossa per farsi raccontare i dettagli di quella tragica fine. Il defunto era stato un soldato, sì. Lo riconobbe dalle placche di metallo all’altezza delle giunture, da certi segni sulle ossa riconducibili a degli scontri antichi. Al suo fianco, quasi stretto contro il suo petto, c’era un altro corpo, più minuto. Una donna, decise il dio degli inganni. Giovane, dedusse dalla dentatura perfetta, morta per ultima, rimasta a vegliare i resti dell’amato fino a che quello non aveva chiuso gli occhi per sempre. Il ritrovamento non avrebbe dovuto sorprenderlo né sconvolgerlo, in effetti. Era un’usanza antica, ma certo non rara, quella di seppellire insieme due coniugi, due amanti. Loki lo aveva appreso nei libri di storia e dalla bocca dei sapienti, ma c’era un dettaglio, in quella scena d’amore e di morte, che lo costrinse a tenere gli occhi incollati sui due crani vicini. La donna indossava dei gioielli, al momento della sepoltura. Tra questi, c’erano degli orecchini con una pietra verde, incredibilmente simili a quelli che aveva visto brillare su un altro volto. Uno dimenticato da troppo tempo, forse.

Il drappello che lo seguiva era ancora intento a cercare artefatti magici che potessero indicare dove fossero le Gemme, mentre lui era lì, a fissare il sonno eterno, ma non per questo meno dolce e lieve, della coppia forse non così sfortunata, dedusse. Inclinò il capo da un lato, cercando di ricostruire meglio gli ultimi istanti del guerriero e della sua sposa. Il loro abbraccio perenne li aveva uniti in un disegno dai contorni indefiniti: pareva, però, che lei, negli ultimi secondi passati nel buio del sepolcro, gli avesse accarezzato con le dita la guancia, avesse baciato le labbra senz’altro già fredde del suo amante per un’ultima, disperata, volta. Quali parole poteva avergli sussurrato sulla bocca chiusa? I due teschi vicini raccontavano l’esito di una passione che certo non fece accelerare i battiti del cuore del dio degli inganni. Decise che gli orecchini della donna non gli interessavano ed erano ben poca cosa, rispetto alle sepolture razziate dalla soldatesca di Thanos in quelle ultime settimane. Semplici monili di giada che era bene restassero lì, con la loro legittima proprietaria, ma un pensiero, aguzzo come una freccia, gli si conficcò nella testa.

Lei gli era stata fedele fino alla fine del tempo.

 

Si voltò per riunirsi alla sua squadra, le cui voci echeggiavano chiassose e sempre più nitide sotto le alte volte di pietra. Non desiderava che vedessero la tomba; era certo che, se l’avessero trovata, senz’altro non si sarebbero fatti scrupoli nel violarla, giocando con i resti dei misteriosi amanti, beffandosi della morte come già aveva visto loro fare in altre occasioni.

Arricciò le labbra sottili, segnate da una cicatrice antica. Gli Æsir che lo avevano cresciuto erano un popolo di predoni e di pirati. L’oro che ricopriva Asgard fino alla sommità delle sue guglie non si era trasportato da solo nel fiordo di Ásaheimr, ma era stato depredato e razziato quando Odino era giovane e, prima di lui, ai tempi di Bor il Grande. Conquistatori sagaci, dunque, senz’altro brutali, che, però, avevano sempre trattato con una sorta di doveroso rispetto i defunti. Mentre il rumore secco dei propri stivali echeggiava sotto la volta della caverna, Loki Laufeyson ripensò a certi sontuosi riti funebri visti da bambino, osservati con gli occhi asciutti e una serietà nel volto che si specchiava in quella di Thor. Per loro era impossibile, a quel tempo, capire la pietà e la tragedia che l’interruzione di una vita portava con sé. La morte era qualcosa di lontanissimo, vago, nebuloso, che certo non li riguardava né li avrebbe riguardati a lungo: erano ancora benedetti dall’illusione di essere intoccabili, invincibili, immortali come nemmeno nelle leggende di Midgard riuscivano a essere. Gli Æsir seppellivano i guerrieri caricandoli di armature e gioielli e preziosi: tesori occultati con le loro insegne per rendere il passaggio nel Regno di Hel più facile e agevole, perché l’accesso alle sale del Valhalla, forse, doveva essere persino pagato. Toccare reliquie di tal fatta era qualcosa che Odino in persona, spesso, non si era vergognato di compiere nei confronti dei suoi avversari più temibili; Loki non era così ipocrita da non ammetterlo a se stesso, eppure raggiunse il sentiero di fioca luce solare che lo avrebbe portato all’uscita con le sopracciglia aggrottate e il volto pensieroso. Quegli orecchini. Nient’altro che due pendenti di giada, ma d’un verde intenso, brillante.

 

Lei ne aveva un paio simili, quasi uguali. Li indossava una delle ultime volta in cui si erano visti, quando l’aveva fissato con quel suo sguardo altero solo all’apparenza, ma in realtà grigio, liquido e dolce, evidenziato dal trucco. Sarebbe stata l’ultima volta in cui ne avrebbe fatto sfoggio, ma questo Loki non poteva saperlo. Due trecce laterali, appuntate con grazia sul capo, lasciavano scoperto il collo sottile e i monili scintillanti, tenendo a bada la cascata d’oro dei suoi capelli.

Non era bella più di altre, Sigyn, affatto. Esile e minuta, si muoveva per lo studio svelta, cercando l’ingrediente giusto per una pozione. Di cosa avevano parlato, in quell’occasione? Di libri, di eventi politici, di una guerra imminente, di incantesimi, di loro. Di ogni cosa e nessuna.

Lui era rimasto poggiato contro lo stipite della porta, le braccia incrociate sul petto, l’aria divertita e sorniona, e lei aveva fatto di tutto per non incontrare il suo sguardo e mantenere intatto il proprio contegno, sforzandosi di mostrarsi occupata. Aveva pensato fosse bella, ma quella riflessione limpida e chiara non era nuova: aveva già attraversato la sua mente una notte lontana, quella in cui aveva lasciato che il caos lo travolgesse, in cui le sue dita di mago avevano slacciato, abili e impazienti, il corsetto dell’abito di lei, che indossava alle braccia gioielli tintinnanti ed era ancora accaldata per aver danzato con altre ragazze attorno a un falò. Ricordò la curva dolce del seno piccolo e bianco, la morbidezza della sua pelle, il profumo inebriante che si confondeva col tocco incerto delle sue dita sottili su di lui, a volte timide, altre audaci.

Canti lontani li avvolgevano con le loro melodie d’amore e di morte appassionate e lei gli aveva offerto le labbra e se stessa; Loki l’aveva avuta e gli era piaciuto sentirla vibrare a ogni suo tocco, aveva goduto nel possedere, anche se per una notte, il cuore e il corpo dell’altrimenti intoccabile Sigyn, che lo guardava da sotto le ciglia scure e non cedeva quasi mai al gusto di raccogliere le sue provocazioni argute né alla sua corte sfacciata, ma non abbastanza serrata perché il suo interesse potesse essere scambiato per una cosa seria. Così avevano creduto entrambi, e invece.

 

“Quanta preoccupazione nella tua voce, mia cara Sigyn. Si direbbe che tu non abbia fiducia nelle mie capacità,” le aveva detto, caustico e crudele. Presto sarebbe dovuto partire per una campagna militare poi rivelatasi lunga e spossante, vinta dagli Æsir solo grazie a un espediente.

A quella frase, lei finalmente si era fermata in mezzo alla stanza: era rossa in volto e stringeva tra le mani un’ampolla.

“Avere fede nelle tue capacità di guerriero non significa ignorare i pericoli cui andrai incontro.” Aveva scosso la chioma bionda, delusa che lui non capisse e fosse così cieco e orgoglioso. Frase che lei gli ripeteva spesso, nel letto in cui finivano per trascorrere ore troppo brevi strappate alle notti fredde di Asgard o a quelle, più miti e rare, di Vanheim. A volte, il suo tono era divertito e scherzoso; con i capelli biondi sciolti sulla schiena, lo fissava da sotto le ciglia lunghe e nere sorridendogli appena, la voce carezzevole come quello di una gatta, il fine lenzuolo di seta stretto sulle curve dolci del seno. Altre, invece, il suo timbro era amaro, incrinato, desolato persino. Non gli aveva mai chiesto di essere altro da ciò che era, ma, nel segreto della notte, forse, la sua volontà talvolta aveva vacillato, facendole maledire la loro attrazione che, di questo anche Loki era cosciente, come un vizio assurdo e dannoso li teneva avvinti, sì, ma in cosa?

In una storia che non poteva essere altro che quello: sesso consumato tra una battaglia e l’altra, puntellato dal tarlo della gelosia e dal bisogno di averla, di godere della sua preda, di osservarla mentre si perdeva nel caos in cui lui – solo lui – la gettava, di sentirla tendersi dopo averla imprigionata sotto di sé, di avvertire le unghie che gli graffiavano spasmodiche le spalle, di ascoltarne i sospiri rotti, di osservare la testa buttata all’indietro, di baciare fino a farle perdere il respiro le labbra schiuse. E poi, dopo averle assaggiato la bocca, far scorrere la lingua sulla pelle chiara e tremante, liscia e perfetta, sua, finalmente, e, di nuovo, perdersi in lei e con lei, affondando nel desiderio che lo spingeva a cercarla anche quando era ragionevole che non lo facesse, ribadendo il suo possesso, braccandola dopo i banchetti e infilandosi nel suo letto nelle visite sempre più lunghe che lei faceva ad Asgard.

In quel tempo, vivevano una relazione nascosta, segreta, consumata e vissuta dietro le ombre di un braciere tremolante, soffocata nel buio di respiri spezzati, come quella prima notte folle. L’aveva vista danzare, libera e allegra, con quei bracciali tintinnanti alle braccia e alle caviglie e si era messo in testa che dovesse diventare finalmente sua, ma poi, poiché non era capace di rinunciare a niente, a nessuna cosa, era stato incapace di saziarsene, anzi.

Così era iniziata la loro storia, per poi guastarsi e di nuovo aggiustarsi, perché bastavano uno sguardo troppo lungo e una battuta perché tornassero a guardarsi di sottecchi[5].

 

“Temi per la mia vita, adesso!? Ne sono lusingato,” aveva ghignato lui, scostandosi finalmente dalla porta per braccarla, ghermirla, catturarla ancora una volta, per il solo gusto di farla infuriare. Con un gesto fluido l’aveva stretta a sé e lei si era irrigidita, perché le era impossibile non sussultare quando erano troppo vicini, anche se non dividevano più il letto – se lei si ostinava a rifiutarlo. 

Le mani di Loki, allora, avevano preso a carezzare il tessuto liscio e serico dell’abito che aderiva alle sue forme femminili e invitanti, saggiandone la morbidezza. A quel tocco, un sospiro era uscito dalle labbra di Sigyn: aveva socchiuso un momento le palpebre truccate, inebriata da quelle carezze audaci a sfacciate, per poi riprendere il controllo e fissarlo. Gli si negava, ma lo voleva, lo desiderava; doveva sforzarsi con ogni fibra del suo essere, per resistergli. Il dio degli inganni lo sentiva, lo sapeva. E gli piaceva che lei continuasse a essere sua pur non essendo più la sua amante.

“Cosa vuoi da me, Loki? Devozione, fedeltà assoluta, amore?” 

I suoi occhi brillavano carichi di sfida, ma nella sua voce troppo seria c’era una punta d’irritazione di cui l’Ase conosceva bene la natura: aveva tentato di dimenticarla per poi cercarla ancora e questo lei non riusciva a perdonarglielo, né poteva far finta che non fosse successo nulla.

L’aveva stretta a sé con un movimento felino e fluido, infilando una mano tra le sue ciocche color dell’oro per ghermirle la nuca e lei lo aveva lasciato fare, vero, per poi sollevare il mento, fiera e decisa come la regina che avrebbe meritato di essere. Era stato allora che, scostandole parte della chioma con quella carezza leggera e possessiva a un tempo, si era soffermato sul baluginio verde degli orecchini.

“Dici che mi detesti, ma indossi i miei pegni,” le aveva fatto osservare in un sussurro, indugiando con le dita sulla pelle morbida e profumata, sfiorando uno dei pendenti.

“Sono belli.” Un guizzo d’orgoglio le aveva illuminato lo sguardo grigio e liquido, carico di dolcezza. “Sono tuoi, Loki,” aveva aggiunto dopo una pausa breve, esitante. “Fai attenzione e torna da me.”

“Sono il figlio di Odino, il principe di Asgard,” era stata la sua risposta fiera, orgogliosa. “Fa parte dei miei compiti combattere per lei, dare ogni cosa per lei.”

Sigyn si era rabbuiata, tentando invano di liberarsi dalla sua stretta. “Farti catturare volutamente allo scopo di raccogliere informazioni per Padre Tutto è pericoloso, troppo pericoloso.”

Un ghigno vittorioso e soddisfatto gli aveva increspato le labbra beffarde e ironiche. Il cuore della dea della fedeltà era ancora suo. “Voglio che tu sia mia, stanotte. E lo vuoi anche tu.”

 

 

Loki Laufeyson, comandante in capo di una delle squadre di Thanos impegnate nella ricerca di indizi circa le mitiche Gemme dell’Infinito, riemerse dal buio della grotta assieme al drappello che lo aveva seguito. Lui solo si era inoltrato fino alla parte più profonda della caverna tanto simile alla bocca di uno spaventoso drago, per poi annunciare, con voce asciutta, di non aver trovato nulla di rilevante. Si trattava di una mezza verità. Qualcosa, nel buio della terra, l’aveva scovata. L’immagine della sepoltura duplice era ancora impressa nella sua mente e, in tasca, sentiva il peso dell’orecchino che aveva rubato – uno solo, l’altro era rimasto ad abbellire i resti pietosi. Un gesto indegno, compiuto per assecondare il brivido che lo aveva pervaso quando si era deciso a violare un precetto antico quanto l’Yggdrasill, sì, ma perché?

 

Raggiunse a passo spedito l’imbocco della nave che lo avrebbe riportato al quartier generale, senza voltarsi verso l’apertura dentata dell’antro, concedendo solo uno sguardo di sufficienza ai soldati che gli era toccato in sorte di comandare, offeso, una volta di più, dal fatto che non avessero valore, che non fossero alla sua altezza. Lo spettro della caduta s’insinuò nuovamente nel suo spirito fiero e irrequieto, graffiando e mordendo, ma il ricordo di quell’orribile momento si affastellò, nella sua testa, con altre immagini e voci. Si rese conto di non aver più pensato a Sigyn per un tempo lunghissimo. Estrasse dalla tasca l’orecchino trafugato, ne sfiorò con i polpastrelli la pietra lavorata con cura, pensò alle sue labbra, ritrovò, nella memoria, il suono dei bracciali tintinnanti che le adornavano le braccia sottili. Strinse le dita attorno al gioiello. Nel lungo periodo che era trascorso da quando si erano visti per l’ultima volta, era riuscito a soffocare perfettamente il ricordo di lei, nascondendolo dentro una piega nascosta della sua anima, dov’era rimasto all’ombra di pensieri, di considerazioni, di desideri persino, in attesa di riemergere all’improvviso. L’aveva sacrificata all’altare del potere, della brama di conquista che si era impadronita del suo spirito, esasperata dalla continua sfida a senso unico che aveva intrapreso per essere degno di un trono che, in verità, era sempre spettato a un altro.

Riaprì il palmo della mano con lentezza, lasciando scivolare di nuovo lo sguardo acuto e verde sulla pietra del medesimo colore, per poi increspare le labbra sottili in una smorfia carica di dispetto e non solo. Il monile non era uno dei suoi orecchini, ma quello, solo simile, di un’altra donna, che di lei aveva avuto senz’altro lo spirito determinato.

Non l’aveva dimenticata, ma persa.

 

 

Guarda che luna, guarda che mare,

da questa notte senza te dovrò restare

folle d'amore vorrei morire

mentre la luna di lassù mi sta a guardare.

(Fred Buscaglione, Guarda che luna)



[1] La storia si colloca tra il primo film di Thor e The Avengers: soprattutto le battute di Loki del primo film mi sono state utili per la caratterizzazione del personaggio che, nel dialogo con Thor nella foresta, mostra confusione circa gli eventi della sua caduta.

[2] Asgardiano è il termine con cui vengono indicati gli abitanti di Asgard nel MCU: nel corpus scaldico, invece, il loro nome è Æsir. Come sapete, io nel mio headcanon faccio una fusione tra questi due.

[3] Uso miglia perché non mi piace piedi e l’unità metrica decimale è una convenzione midgardiana.

[4] Sepolture di questo tipo – due scheletri abbracciati, una probabile coppia – esistono veramente. :P

[5] Il particolare di Sigyn esperta di pozioni che danza davanti a un fuoco è presente nella mia storia Come un vizio assurdo, di cui questa è un prequel e che è attualmente postata nella sezione The Avengers di Efp ^^.

   
 
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