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Autore: InsertACasualUsernameHere    19/05/2019    1 recensioni
Ma la luna s’è nascosta, forse stanca anche lei, come lui, come tutti loro, di guardare il mondo bruciare, di guardarne gli ingrati figli distruggerlo, smembrarlo, martoriarlo con la brutalità d’assassini incuranti, peggiori d’ogni demone ed ogni mostro.
Forse è stanca di guardare il mondo soffrire dall’alto, ma non importa, non ha più importanza adesso, nulla ne ha.
[ Partecipa al contest "Salvatore Quasimodo Contest" indetto da katniss_jackson sul forum di EFP ]
Genere: Angst, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sangue.
Sangue, fango e sudore.
Stenta a riconoscerlo, quel volto, il suo volto, brutalmente sporcato dalla guerra, riflesso nelle estranee iridi, vitree di scura morte, nere come il cielo notturno che li avvolge.
Ha ancora le labbra dischiuse e le palpebre dilatate, nello sgomento d’esser stato baciato dall’angelo della morte.
Giace esanime,  nella giungla, nella terra bagnatasi del sangue del proprio popolo.
Gli è così vicino che può già sentirne l’acre odore della decomposizione, o forse è la propria stessa carne, laceratasi, spezzatasi e strappatasi nell’impatto coi proiettili, a puzzare.

La bocca ha il ferroso sapore del sangue, sputa saliva e grumi cremisi, tossendo l’ossigeno che fatica a risalire le compromesse vene e raggiungere i polmoni, altrettanto danneggiati.
È il ritratto della morte, la profezia della propria, incombente, morte, che vede riflesso nelle iridi d’un ragazzo, né più, né meno, giovane di lui, perito con l’unica colpa d’indossare un’uniforme differente dalla sua, colori diversi; ma il sangue, che ancora ne tinteggia le labbra, è rosso come il suo.

Chissà se, anche lui, tremò la prima volta che udì l’eco di spari, levarsi dal folto dei secolari arbusti?
Chissà se, anche il suo animo, s’è lacerato dei tagli di colpe che mai, neppure la morte, riuscirà a rimarginare?


 
“quanti cazzo sono, Animal¹? Quanti cazzo sono?”

“che cazzo ne so, Ace², cristo sono dappertutto, fottuti musi gialli!”


Sparano, ovunque, in cielo, in terra, tra le fronde degli alberi.
I proiettili si conficcano nelle cortecce, volteggiano nell’aria, fendono foglie, ramoscelli rinsecchiti.
È una pioggia, una maledetta pioggia di piombo.


“cazzo, Cherry³, reggi quel fottuto fucile!” 


Il rimbombare di esplosioni, degli scarponi nel fango, nelle pozze d’acqua stagna, sovrasta le urla di Ace.
Gli è affianco, il verde berretto smarrito chissà dove e chissà quando, nella disperata fuga per la vita.


“sparate, sparate, cazzo!”


Grida ordini, ad un plotone già dimezzatosi.
Tex¹*, era dietro di lui, è scomparso minuti, forse ore, fa. 
Lockhart¹*, gli era al fianco sinistro, l’ha perso di vista, cento, forse più, passi fa. 
Snow-white¹*, bestemmiava, metri più avanti, in testa al plotone, è crollato al suolo diecimila, o più, battiti di ciglia fa; un vaffanculo spezzato, mozzato nell’ultimo respiro, i piedi caduti nel tranello d’una mina inesplosa.
È diventato carne, pezzi d’arti, per gli animali selvaggi, masticato e sputato.
Faranno la stessa fine, moriranno, adesso, oggi, domani, il giorno dopo ancora.
Moriranno in questa maledetta giungla, che li inghiotte come fossero dannate noccioline, nel palmo d’un pigro obeso, dalle fauci perennemente spalancate.



“non vedo una sega, da dove cazzo sparano?”

“giù, giù, testa bassa, cazzo! A terra! Strisciate a terra!”


Ace continua ad impartire ordini, continua a spronarli, a guidarli, a lottare con loro per guadagnarsi un altro giorno, un altro giorno ancora, da vivo; ma non riesce a sentirlo.
Gli echi degli spari sovrastano ogni altro rumore, gli risuonano nei timpani, s’insinuano nella mente.
Non sa più dove sta andando, cosa sta facendo, le mani traballano serrate all’impugnatura del fucile, preghiere tremano tra le labbra, patina salmastra ne offusca la vista, le iridi sgranate cercano un senso, una ragione, un motivo, uno solo, al brutale massacro che li circonda.
Cosa stanno facendo? Dove stanno andando, loro, tutti loro?
Una mano l’afferra, stringendogli il polso, gli strattona il braccio, inclinandone la postura.
Nel fugace istante d’un respiro incontra le cristalline iridi di Ace, v’è impresso il medesimo terrore che agita le proprie, lo vede, in quell’effimero attimo.


“giù, Cher-“


Rosso, tutto diviene rosso.
Ogni suono si tramuta in ronzio e nell’effimero attimo, che precede la caduta dell’esanime corpo vede, in quelle iridi di cieli estivi, il proprio volto chiazzatosi di cremisi pittura e cade, cade come cade Ace.
Trascinato al suolo dal peso d’un corpo morto, per lui, per colpa sua.
Un altro, ennesimo, morto nel nome d’una patria che l’ha già dimenticato, che l’ha sfruttato, come ha sfruttato tutti loro.
Non sono eroi, non sono valorosi difensori dei valori della libera democrazia.
Sono solamente piedi stranieri sopra i cuori degli innocenti, scarponi che schiacciano vite come se fossero inutili formiche.
 



Da qualche parte, tra gli alberi, nel folto verde della foresta, qualcuno grida l’orrore della guerra.
Da qualche parte, in quel fango imbevuto del sangue di vittime d’un obbligata battaglia, mandati a morie dalle mani d’uomini incravattati, qualcuno respira ancora, bisbiglia parole incomprensibili, balbettate nella fatica di polmoni lacerati; qualcuno si trascina ancora, affondando le unghie nella terra, arpionandosi alla speranza d’esser vivi, domani e domani ancora.

Lui s’è già arreso, striscia al suolo, tra le pozze d’acqua rafferma, poggiandosi al tronco d’un albero, i rami sfiorano il plumbeo cielo, grigie nuvole minacciano pioggia.
Il proiettile si muove ad ogni respiro, incastrato tra le costole o, forse, penetrato nello stomaco, c’è troppo sangue, troppa carne bruciata, troppo dolore, per poterlo trovare; vi pressa i palmi, sporchi di terriccio, per inerzia.

Morirà, lo sa.
Morirà com’è morto quel ragazzo dall’uniforme d’un verde differente, una minima sfumatura cromatica.
Morirà peggio di lui, che ha avuto la fortuna di perire all’istante, neppure il tempo d’esalare ultimo respiro, il proiettile gli ha lacerato la trachea, squarciandone la carotide, vermiglia fontana ne ha bagnato le vesti.
A lui, invece, toccherà la lenta agonia del dissanguamento.

Potrebbe spararsi, gli restano ancora tre colpi in canna.
Gli basterebbe compiere un ultimo sforzo, allungare il braccio ed impugnare la pistola, estrarla dalla fondina e pressarsi la volata alla tempia, premere il grilletto e porre fine a tutto, all’orrore, alla sofferenza; la vista s’appannerebbe sino a cessar di vedere e gli occhi sarebbero liberi, dal macabro scenario dei morti abbandonati, dilaniati dai proiettili.
Eppure le mani tentano ancora, testarde, d’arrestare l’emorragia.

L’istinto d’umana sopravvivenza, la naturale paura della morte, dell’ignoto che attende l’anima espirata dall’esanime corpo, lo ancora alla cieca speranza d’una possibilità che non è reale; che è solamente un mero inganno della mente.
Pochi sono gli uomini che non temono la morte, altrettanto pochi coloro che l’accolgono, nelle ultime ore fatali, distendendo le braccia, invitandola a raggiungerli ancor prima che sia essa a volerlo.
Il suicido contrasta l’umano istinto, insito nel DNA sin dai primi vagiti, di sopravvivere ad ogni pericolo; ma in guerra è diverso, tutto è diverso.
Il suicidio, in guerra, è un disperato atto di protesta, un sofferente grido di libertà, straziante invocazione di perdono.
 

 
Dopey* parlava poco, frasi brevi, per lo più monosillabi.
Nessuno, del plotone, sapeva bene che suono avesse la sua voce, l’udivano così raramente che era difficile ricordarla.
Fu il Sergente Fennell ad affibbiargli il nomignolo col quale, poi, cominciarono a rivolgerglisi, l’aveva fatto per tutti, diceva che i nomi erano inutili, ingombranti, sul campo di battaglia.
Disse che l’aveva scelto perché era come il nano muto di Biancaneve e, esattamente come lui, gironzolava sempre attorno a Snow-white.
Risero.
Forse rise anche Dopey.
Adesso, ripensarlo, fa più male di quanto già non ne facesse due, tre, giorni dopo l’arrivo in Vietnam.
È stato Snow-white a trovarlo, lugubre ironia del crudele destino.
Non lo vide afferrare avidamente, come chiunque altri, la consueta razione di scorte alimentari, provò a chiamarlo, credendolo ancora intento a cercare d’espletare fisiologici bisogni, in qualche angolo nascosto, e non si sorprese nel non udire risposta alcuna.
Andò a cercarlo e lo trovò, tra gli arbusti,  la nuca bruna spuntava dalle fronde d’un cespuglio.
Forse pensò, ingenuamente, che stesse davvero usufruendo del bagno, che madre natura concedeva loro, e forse fu per questo che tornò, sghignazzando come un ragazzino, progettando infantile scherzo.

Sarebbe stato meglio, poterne sentire qualche insulto biascicato, qualche parola balbettata, tutto sarebbe stato meglio di quel che gli impotenti occhi, da minuti, fissano sconcertati.
Dopey, dietro al cespuglio, non ha lasciato un ricordo a concimare la terra, ma sangue, brandelli di cervella e pezzi di cranio fratturato ad impregnarla.


“merda”


Sussurra, poggiandogli l’avambraccio alla spalla sinistra, Tex infilando la nuca tra lui e Lockhart, immobile come statua di pietra, l’accenno d’un empatico dispiacere emerge da una piccola crepa, nella facciata d’impassibile freddezza.
Ace tenta di placare l’isterico agitarsi di Snow-white, urla collera e dolore, pretende l’intervento del dottore e nessuno sa come spiegargli che, anche volendolo, sono tutti impegnati nelle tende dei feriti; così come nessuno riesce ad articolare la verità, che hanno dinnanzi agli occhi.
Dopey se n’è andato come ha vissuto, o per lo meno come loro l’hanno conosciuto, nel silenzio d’un mutismo impossibile da comprendere.
Forse avrebbero potuto fare qualcosa, forse se fossero stati più abili nel leggere parole inespresse, sarebbero riusciti ad evitarlo; o forse sarebbe morto comunque, sul campo di battaglia o sulla barella grondante sangue.
Forse non sarebbe cambiato nulla, la morte resta tale, che sia in guerra o per mano d’un soldato, stanco di percepire il respiro dell’angelo dalle nere ali alitargli al collo.


“chiama quel cazzo ti dottore, t’ho detto! Chiama quel fottuto dottore, Ace!”

“a fare cosa? Fargli sprecare tempo? Dopey è morto, Snow! E non puoi farci un cazzo, nessuno può farci un cazzo!”


Animal è l’unico ad enunciare una realtà che nessuno, nel plotone, riesce ad interiorizzare.
Sputa cinismo dalle sottili labbra, guarda fisso nelle iridi smeraldine di Snow-white, animate da fiammelle d’agitata rabbia, appannate da stille salate, rivoli umidi che vibrano al bordo delle palpebre.



“sarebbe morto lo stesso, domani, dopo domani, o che cazzo ne so quando, ma sarebbe morto, come tutti noi! Ogni singolo stronzo qui intorno tornerà a casa in una fottuta bara, è la cazzo di guerra e la puttana non risparmia un cazzo di nessuno!”


Snow-white ingolla parole che non riescono ad emergere dalle corde vocali, le mani tremano, le unghie disegnano mezze lune nei palmi, le nocche impallidiscono nella cieca furia d’un pugno, sferrato nella paura, nella disperazione, nel terrore e nel dolore, d’una verità impossibile da accettare; una verità che è lì, sotto i volti ammutoliti, che li circonda giorno e notte.
Nessuno sfugge alla morte, sono in un campo minato, tutti, ed è solo questione di tempo prima che di loro non resti altro se non ossa fratturate, carni bruciate, puzza di cadaveri e polvere; a confondersi e miscelarsi col vento e coi resti d’altre anime trapassate.
 


La morte non fa distinzioni, glielo disse la sorella, anni fa.
Quanto vorrebbe poterle dire che aveva ragione, che il sangue scorre del medesimo colore, in ogni vena, d’ogni corpo.
Ne ha veduto sin troppo, è stanco di vederne.
Quanto vorrebbe potersi rifugiare tra le sue braccia e piangere, piangere come quand’erano bambini e, zoppicando, si lasciava medicare le ferite; il disinfettante bruciava, ma il bacio che gli depositava live, sopra la garza, pareva alleviarne il pizzicore.
Così come le carezze materne sembravano poter curare ogni graffio ed ogni escoriazione, bastavano quelle dita amorevoli a far dissolvere la sofferenza; ma quando è una madre a soffrire, chi ne asciuga le lacrime?

Chi ascolta le urla nere d’una madre che va incontro al figlio, a quel che ne resta, a bare senza nome e senza corpi, a cercar cadaveri nelle foreste, a gridare le strazianti preghiere di donne brutalmente separate dai prolungamenti, dai batti, dei loro stessi cuori?
Chi bacia, chi accarezza, chi stringe tra le braccia, chi guarisce le ferite delle madri, inginocchiate agli altari di Dio, ad invocare clemenza per i figli perduti, a chiedere di poterli riavere indietro?
Chissà se sua sorella saprà prendersene cura, quando le nocche rintoccheranno funebre notizia alla porta.
Chissà se la bacerà, se l’accarezzerà, se ne guarirà le ferite con la medesima abilità che possedeva, quand’erano bambini.

Per lui è già tardi.
Non basterebbe un bacio, una carezza, a guarire la ferita che ne ha squarciato il ventre.
È un fiume che, incessante, straripa lento ed inesorabile.
Gli svuota le vene, goccia dopo goccia, e si porta via la vita, stilla dopo stilla.
Quel ragazzo, il vietnamita che gli giace ad esigui centimetri dai piedi, avrà sentito la nuca divenire leggera quanto la sta sentendo lui?

È quasi gradevole.
Sembra di fluttuare nello spazio, tra astri e pianeti, pare di volare nella morbida sofficità d’una candida nuvola.
Così in alto da non riuscire più a scorgere i cadaveri, ammassati tra fango e pozzanghere, tra ramoscelli secchi e cespugli.
Così lontano da poter sperare di raggiungere il paradiso, bussare ai dorati cancelli ed implorare clemenza per ogni peccato commesso; ma non esiste perdono per gli assassini.
Quando l’angelo dalla morte gli tenderà la mano, sarà per condurlo all’inferno.

È una discesa tra le viscere della terra, tra peccatori condannati a soffrire per l’eternità, quella che l’attende.
Un flebile risolino dolente, strozzato dal tossicchiare grumi di rubini insalivati, gli scivola dalle labbra.
Può davvero esistere, là sotto, da qualche parte, nel nucleo terrestre, nella lava, nelle infernali fiamme, eterna sofferenza capace di superare quel che non abbia già visto?
Non è forse già questo, l’inferno?
Se non lo è, allora dubita che ne sarà terrorizzato, perché nulla, né i danzanti demoni, né il ghigno del Diavolo, potrà mai essere più terrificante di quanto non abbia già visto e vissuto.
Vorrebbe poter dire anche questo, a sua sorella.

Vorrebbe poterle dire che, alla fine, all’inferno c’andrà nella consapevolezza che lei era un angelo, che tentò di salvarlo da una condanna che non ammetteva proteste, un destino che non prevedeva via di fuga, se non la morte stessa.
Vorrebbe potergli dire che adesso, adesso che sente già le soffici labbra dell’angelo della morte sfiorare le proprie, ha compreso le parole, tutte, sillaba dopo sillaba, di quella poesia che gli lesse; prima di doverlo guardar partire, divenire un altro, ennesimo, puntino verde tra le fila di giovani spediti nelle profondità della maledetta giungla, divoratrice d’anime.
Vorrebbe poterle dire che, infondo, forse, persino quegli uomini che invasero terre altrui, quegli stranieri che calpestarono cuori, erano giovani come lui, come il vietnamita disteso nel perpetuo sonno, costretti ad impugnare armi più grandi di loro, costretti a marciare col cappio stretto al collo.
Vorrebbe chiederglielo, a lei che sa, che conosce la storia e la letteratura, che ha compiuto tutti quegli studi cui lui non s’è neppure avvicinato, perché nessuno sospetti mai che, in guerra, i pedoni d’ossa e carne, come lui, possano esser vittime da ambo le parti; privati di scelta, abbandonati, lasciati a se stessi.
Perché nessuno sospetta mai che, infondo, ai pedoni come lui, come tanti altri, non resta possibilità alcuna se non lottare, al di là del bene e del male, per aver salva la vita, nell’egoistico, quanto primario, istinto di sopravvivenza?  
 


 
“tu non capisci, tutto questo, è…è sbagliato, Den!”

“ho scelta?”

“sì, sì, ce l’hai, puoi rifiutarti, puo-“

“nessuno può, Marion!”



Glielo urla contro, i volti così vicini da poter sentire l’odore dei respiri miscelarsi e confondersi, la vede  indietreggiare, i biondi boccoli sobbalzano alla gracili spalle, trattenendo lacrime che, a breve, strariperanno dalle palpebre socchiuse.
Stringe le labbra, in una linea retta e tremula, riaprendo gli occhi ed inchiodandolo in quegli oceani agitati, in cui rischia d’annegare, c’è un mare in tempesta in quelle iridi, così simili alle proprie.


“un ragazzo, all’università, ha mangiato palline di garze e ai controlli medici hanno pensato fosse malato, tumore o qualcosa di simile e…e  non l’hanno fatto partire, puoi…perché non provi?”


Da quando la lettera è arrivata, due settimane fa, Marion l’ha trascinato, volente o meno, ad ogni singola manifestazione anti-propaganda bellica, rivolte pacifiche, concerti contro la guerra in Vietnam, persino incontri in circoli letterali.
E da tutti, nessuno escluso, s’è sentito ripetere sempre le stesse, identiche, parole : puoi rinunciare, devi rinunciare.
Come se sia realmente possibile.
In quella dannata lettera di reclutamento non è ponderata la possibilità d’un rifiuto, non è un invito, né una proposta, né tanto meno una richiesta, è un ordine; un maledettissimo ordine.
Se non accetti, se non ti presenti spontaneamente ai controlli medici, bussano alla porta e ti ci accompagno loro, che piaccia o meno.

Nessuno ha scelta.


“è obbligatorio, Marion! Leggi quella cazzo di lettera, leggila bene, perché non c’hai capito un cazzo!”

“e tu leggi quella poesia, leggila di nuovo! Leggi il dolore tra le righe, leggi la sofferenza di vittime innocenti, sopraffatte dai soprusi di uomini amorali, al seguito di dittatori incuranti della vita umana!”

“non sono un idiota, l’ho capita quella poesia e non c’entra un cazzo con tutta la merda che sta succedendo là fuori!”



Le urla rimbalzano tra le pareti della cucina, rimbombano d’angolo in angolo, sono grida così adirate da far quasi tremare i quadretti affissi alle mura.


“no, no se l’avessi capita non partiresti, faresti di tutto per evitare d’essere l’invasore! Non sei una cattiva persona, Damien! Non sai neppure uccidere le mosche, ti senti triste se per sbaglio calpesti un ragno! Non sei come loro, Den…ti prego…”


È un soffio tremolante, frammentato dai singulti di singhiozzi trattenuti, stretti tra i denti, deglutiti, ma lacrime silenziose le rigano le guance, lasciando il solco sbiadito del nero trucco, che ne appesantisce le lunghe ciglia.
Ha ragione, non sa uccidere neanche gli insetti, neppure le zanzare.
Morirà, non durerà più d’una settimana.
Sta andando incontro a morte certa e se esistesse davvero una via di fuga, una qualsiasi, la percorrerebbe correndo; scappando dal certo destino che l’attende, ma non esiste.
Fingersi malato terminale potrebbe rimandare la sentenza, ma non cancellarla, e tentare di volare oltre oceano lo trascinerebbe in Vietnam, ancor più velocemente di quanto non stia già accadendo.
Non esiste scappatoia.
È questo quel che Marion, tutti i pacifisti, i musicisti, gli scrittori e i giornali indipendenti, non capiscono.
È vero, lui non è l’invasore, non vuole esserlo, vorrebbe poter protestare, ribellarsi, ma per quanto possa tentare non potrà evitare il cappio che ne stringe già la gola.


“non servirebbe a un cazzo, nella merda di guerra mi ci trascineranno comunque, non gliene frega una cazzo se vo…”

“smettila! Smettila! Non è vero! C’è sempre una scelta”

“no, a volte non c’è, vorrei dirti che hai ragione, ma--cristo, Marion, apri gli occhi!”

“se-se esci da quella porta…non sarò più in grado di guardati”



Piange, stringendosi nelle spalle, le braccia a sorreggersi il ventre, come se temesse di potersi spezzare, da un memento all’altro, e crollare sopraffatta e sconfitta dal peso d’una realtà che non vuole, non sa, accettare.
Istintive le mani ne sfiorano il volto, sgomberandolo dai biondi boccoli che lo contornano, le fronti si sfiorano e Marion inspira, serrando il tessuto del maglione color zucca.


“ti prometto che quando tornerò,  lascerò che mi leggi tutte le noiosissime poesie che vuoi e tutti i noiosi libri che hai e ti ascolterò blaterare, tutti i giorni e tutte le ore, di tutti quei deprimenti scrittori del cazzo e giuro, giuro che proverò a non sbadigliare”


Le sussurra, depositandole un bacio tra le dorate ciocche, carezzandole via i residui delle lacrime che sgorgano, ancor più copiose, dagli occhi inondati da terrorizzata apprensione.


“giura”


Mormora, le spalle animate da singulti intrattenibili, la mano le trema, sollevata a mezz’aria, il mignolo teso ad attender promessa, lo racchiude nel proprio, cercando d’infonderle una forza che neppure lui possiede


“giuro”


La bozza sbiadita di mesti sorrisi sghembi ne rende ancor più tristi i volti, ma c’è speranza in quegli oceani incastonati negli occhi sinceri di Marion e tanto basta a fargli credere, per un istante, un gradevole attimo di fugace illusione, che possa davvero tornare; un giorno, quando l’orrore sarà finito.
 



Due anni, è riuscito a credere di poter tornare a casa, riabbracciare la sorella, stringere a sé la madre, bere birre al portico di casa col padre, per due lunghissimi anni.
L’illusione della speranza svanisce, ora, lenta.
Ha fallito l’unica missione che contava, ha infranto l’unica promessa che aveva valore.
Ha resistito più che ha potuto, così a lungo che, forse, Marion già ne piange la morte, al sepolcro d’una lapide commemorativa, sovrastante vuota bara.

La promessa s'infrange qui, sotto le fronde d’un albero secolare, occhi vitrei a testimoniarne il fallimento e nessuna stella cui poter affidare un ultimo desiderio.
Avrebbe voluto ci fossero.

Avrebbe voluto poter ammirare la luna, confessarle peccati e supplicarla di custodirgli le migliori memorie, regalargli un sorriso vermiglio, e chiederle di portarlo oltre oceano, dall’altra parte del mondo; pregarla di restituirlo a Marion, a sua madre, a suo padre.
Pregarla di riportare loro un ultimo, forse l’unico, pezzo di sé ancora integro.
Ma la luna s’è nascosta, forse stanca anche lei, come lui, come tutti loro, di guardare il mondo bruciare, di guardarne gli ingrati figli distruggerlo, smembrarlo, martoriarlo con la brutalità d’assassini incuranti, peggiori d’ogni demone ed ogni mostro.

Forse è stanca di guardare il mondo soffrire dall’alto, ma non importa, non ha più importanza adesso, nulla ne ha.
Chiuderà gli occhi, forse così potrà vederla, la luna, le stelle, e la casa, la sua casa, un puntino lontano che brilla più d’ogni altro astro celeste.
Chiude gli occhi e le sente, le nere ali avvolgerlo.

Le labbra dell’angelo della morte gli catturano il respiro, hanno il sapore della fine; non credeva potesse esser così amaramente dolce.

V’è pace, nell’eterno buio.

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Animal, Tex, Lockhart, Snow-white sono citazioni a personaggi presenti nel film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick
Ace è, invece, una citazione ad un personaggio presente in Platoon di Oliver Stone  
Cherry è un termine che veniva utilizzato, dai soldati statunitensi, per indicare qualcuno giovane e privo d'esperienza, un verginello delle armi
* Dopey è il corrispondente inglese di Cucciolo, uno dei sette nani presenti nell'ominma fiaba Biancaneve e i Sette Nani

Non è specificato, nel testo, ma l'intero racconto è ambientato tra il 1966 ed il 1968
 
  
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