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Autore: Ellery    19/05/2019    1 recensioni
Bucky batté le palpebre, osservando il cielo azzurro d’inizio estate, solcato da qualche nube e da stormi di rondini di passaggio. Il sole aveva da poco iniziato il declino verso l’orizzonte. Sollevò la mancina, stendendola davanti a sé ed osservando i graffi che dal dorso scendevano verso il gomito. Non aveva bisogno di alzare anche l’atra mano, per conoscerne le medesime condizioni. [...]
Una testa bionda invase il suo campo visivo. Il volto tumefatto mostrava del sincero dispiacere e preoccupazione. C’era una sfumatura verde nello sguardo azzurro, ormai contornato dal violaceo dei lividi che andavano rapidamente spuntando.
«Come stai?» gli chiese lo sconosciuto.
«Ho passato momenti migliori.» si sforzò di sorridere, ma ottenne solo di far sanguinare nuovamente e labbra spaccate.
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Steve Rogers
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.
 

Quell’estate si preannunciava come la più torrida degli ultimi cinque anni. La siccità era ai massimi livelli e nemmeno nel gelato si poteva trovare ristoro. Dove Sam trovasse le energie per correre nei giardinetti pubblici rimaneva, dunque, un mistero.

Il cane era stato adottato dai Rogers, alla fine. Dopo qualche insistenza, Sarah aveva concesso al figlio di accudire il cucciolo; a patto, naturalmente, che si occupasse lui delle passeggiate quotidiane, di cuocergli del cibo e di tenerlo spazzolato regolarmente. L’aiuto della signora Barnes era stato essenziale. Quella donna possedeva un innato carisma e un potere di convincimento affatto indifferente: aveva spiegato come i ragazzi si fossero coraggiosamente battuti per salvare la povera bestiola e di come, suo malgrado, non potesse tenerla in casa propria per via di alcune allergie del marito. Sarah sarebbe stata così gentile da ospitare il cane, anche solo per qualche giorno, mentre si adoperavano per cercargli una casa? Naturalmente, i giorni erano poi diventati settimane. Sam non aveva più lasciato casa Rogers.

«C’è una cosa che non ti ho ancora chiesto.» Steve sollevò lo sguardo dal blocco per disegnare. Si era accampato sotto l’unico albero del giardino, accomodandosi su una coppia di radici sporgenti. Aveva posato i fogli sulle ginocchia e si era armato di matita. «Perché ti fai chiamare “Bucky”?» domandò, fissando l’amico che, a pochi metri di distanza, stava lanciando dei legnetti a Sam.

«Perché mia madre ha avuto la splendida idea di darmi Buchanan come secondo nome.»

«Non ti piace?»

«Ah, lo odio!» fu la risposta sincera «A te piacerebbe? Dai, sembra un nome da gatto stitico.»

Non riuscì a trattenere un sogghigno:
«Bucky ti sembra migliore? A me sembra comunque un nome da gatto»

«Da gatto non stitico! È già un passo avanti.»

Risero entrambi e, dopo qualche attimo, Steve tornò ad appoggiare la matita. Riprese a tratteggiare sul blocco, disegnando linee morbide e sottili e poi calcandole sempre di più. Appiattì la mina per colorare alcune ombre.

«Che stai facendo?»

I passi dell’altro lo spinsero a stringere il blocco al petto, nascondendo rapidamente lo schizzo.
«Niente.» mentì, affrettandosi a celare la matita in una tasca dei pantaloni.

«Fa vedere, avanti!»

La mancina dell’amico arrivò a chiudersi sul blocco, strappandolo facilmente dalle sue braccia troppo esili ed incapaci di controllare quel furto. Steve scattò in piedi, le guance paonazze per la rabbia e la vergogna.

«Ridammelo, Buck!» ringhiò, ma l’altro si era già allontanato «è mio! Ti proibisco di guardarlo.» scattò, tentando inutilmente di raggiungere l’amico, che si era rifugiato sulla sommità dello scivolo in ferro.

Bucky sedeva sull’ultimo scalino, con le gambe a penzoloni nel vuoto e la schiena china. Le dita scorrevano delicatamente le pagine del blocco da disegno, soffermandosi su alcuni tratti in particolare. Lo sguardo chiaro aveva completamente perso la sfumatura dispettosa, ora rimpiazzata dallo stupore e dalla concentrazione.

«Buck!» Steve si piazzò sotto ai pioli metallici, sollevando gli occhi e sbuffando sonoramente. Non voleva che l’altro osservasse i suoi disegni. Non era pronto per esporli al giudizio di qualcuno, men che meno quello del suo migliore amico. Cosa avrebbe pensato Bucky? Probabilmente, l’avrebbe deriso per quel passatempo che di mascolino aveva ben poco. Disegnare non era forse più adatto ad una delicata fanciulla? D’altronde, l’epoca in cui i pittori e gli scultori erano apprezzati era passata da un pezzo. Al giorno d’oggi, se non sapevi impugnare una mazza da baseball o un pallone da football valevi ben poco.

«Ti prego, ridammelo!» esclamò, tendendo inutilmente una mano verso l’alto. Stava giusto meditando di salire a propria volta sullo scivolo – sperando che reggesse il peso di due adolescenti – quando Bucky voltò immediatamente il blocco in sua direzione. Si sentì avvampare, quando riconobbe il disegno: lo aveva fatto di nascosto, non più tardi di qualche pomeriggio prima; Bucky si era addormentato nel bel mezzo dei compiti delle vacanze, poggiando il capo sul libro di matematica. La penna gli era scivolata dalle dita e per poco non aveva inavvertitamente rovesciato il calamaio. Lui, invece di svegliarlo, si era appollaiato sulla sedia accanto ed aveva iniziato a disegnare; aveva scelto di ritrarlo così: debole davanti alla fatica quotidiana, cedevole come un qualunque studente sconfitto dalla noia dell’algebra.

«Sono io?»

Steve non rispose a quella domanda, abbassando semplicemente lo sguardo. Sentiva già il peso del giudizio sulle proprie spalle; riusciva a scorgere il sorriso irriverente dell’altro, accompagnato da qualche battutina pungente.

«Ridammelo.» ripeté, serrando i pugni.

Colse un leggero frusciare ed un nuovo disegno venne mostrato; lo schizzo a cui stava lavorando capeggiava in bella vista sull’ultima pagina. La matita aveva ricalcato la figura di un cagnolino bianco, intento a raccogliere dei legnetti che il ragazzo sullo sfondo gli stava lanciando.

«Steve, sono bellissimi.»

Non vi era traccia di canzonatura; solo una sincera ed inaspettata ammirazione.
Sollevò lo sguardo, incrociando quello stupito dell’amico.
«Ti piacciono davvero?» domandò con un filo di voce, quasi non volesse azzardare troppo.

«Sì, accidenti. Hai del talento.» colse un leggero sorriso piegare le labbra dell’altro «Darei un braccio per saper disegnare così. Beh… magari non proprio un braccio, ma… insomma, ho reso l’idea, no?»

Steve annuì, mentre il blocco gli veniva restituito. La tensione svanì del tutto e la paura scivolò via, come se non fosse mai esistita. Si sentì, anzi, improvvisamente stupido: come aveva potuto dubitare dell’amico? O credere che Bucky lo avrebbe schernito, invece che supportarlo. Ogni preoccupazione si sciolse come neve al sole. Sorrise piano, mentre le braccia esili circondavano il blocco da disegno:
«Grazie Buck…»


 

***

 

Si era fermato a cena a casa Barnes. I genitori di Bucky erano fuori città, scappati a trovare una vecchia zia che non vedevano da troppo; avevano risparmiato quella tortura al figlio.

Contro ogni previsione, l’amico si era rivelato un discreto cuoco. Era riuscito a friggere due uova senza bruciarle e ad accompagnarle con un contorno di fagioli saltati e insalata, a cui aveva aggiunto qualche pomodoro e spezie per renderla meno insapore. Avevano passato parte della serata a giocare con Sam, a leggere e a commentare altri suoi disegni.

«Chi è questa?» aveva chiesto Bucky, soffermandosi sulla figura di una ragazza lentigginosa dai capelli ricci.

«Una amica. Abita nel mio vecchio quartiere e…» si interruppe quando sentì una gomitata nel costato.

«Solo un’amica, eh?»

«Sì, Buck.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Un attimo di silenzio e quel sorrisetto scaltro che stava imparando a riconoscere:
«Non è che me la presenteresti?»

Avevano riso di nuovo ed avevano continuato a chiacchierare, parlando prima di ragazze e poi di cani; due argomenti così diversi legati da un’unica certezza: Bucky sosteneva che con un cane si riusciva a cuccare meglio. Naturalmente, non aveva esperienze dirette, ma… il figlio della farmacista aveva trovato l’amore proprio così, portando a spasso il suo fedele quattro zampe.

Infine, Steve aveva decretato di dover rientrare. Aveva promesso a sua madre che sarebbe tornato prima della mezzanotte.
«Starai bene, Buck?» aveva chiesto, mentre scivolava sul pianerottolo del palazzo.

«Certamente. Non è la prima volta che dormo da solo.»

«Ti andrebbe di tenere Sam? Ti farà compagnia e mi sentirei più tranquillo a saperti con lui.» esclamò, piazzando il guinzaglio nelle mani dell’amico. Non che un cane di una scarsa decina di chili potesse essere di grande aiuto, ma era comunque meglio di niente. «Ci vediamo domani» aveva detto, sgattaiolando in strada e riavviandosi verso casa.


 

Steve si rannicchiò tra le due auto, coprendosi il capo con le braccia. Era quasi giunto all’incrocio, quando Gideon e la sua banda erano spuntati da dietro l’angolo. Aveva cercato di non badarci e di tirare dritto, ma due sgherri gli avevano tagliato la strada.

«Dove te ne vai così di fretta?» gli avevano chiesto, mentre un terzo lo agguantava per le braccia. Gideon aveva iniziato a frugare nelle sue tasche, alla ricerca di qualche spicciolo e, quando non ne aveva trovati, era andato su tutte le furie.

Lo aveva spinto a terra ed aveva iniziato a colpirlo. I tentativi di difesa erano risultati tanto inutili quanto patetici. I calci ed i pugni lo avevano fatto rotolare tra due vetture, unico rifugio che era riuscito a trovare.

«Hai sbagliato quartiere, Rogers.» Murray gli allungò l’ennesima pedata.

Boccheggiò, tentando di rimettersi in piedi; una spinta lo buttò nuovamente a terra.

«Hai sbagliato a metterti contro di me e a farti trovare senza soldi. Il tuo amico non te l’ha detto? Per camminare su queste strade, devi pagare una tassa.»

«Il marciapiede non è tuo.» ringhiò, ricevendo in cambio l’ennesimo pugno.

«Si vede che sei nuovo. Questa volta potrei soprassedere, ma… la prossima, te le rompo quelle gambette da gallina.»

Steve si strinse una caviglia, quando la scarpa dell’Irlandese la pestò con forza. Affondò i denti nelle labbra, sforzandosi di non urlare. Per nulla al mondo avrebbe dato a quegli idioti la soddisfazione di vederlo supplicare o invocare soccorso. Gli occhi corsero involontariamente alla palazzina con i mattoni a vista. La luce della camera di Bucky era già spenta; per un lungo istante, desiderò di vederla riaccendersi e di scorgere la sagoma familiare affacciarsi ai vetri. Di vederlo scendere in fretta le scale e precipitarsi in strada ad aiutarlo. Anzi, a farsi picchiare nuovamente per lui. Perché non sarebbe finita diversamente da qualche settimana prima; non avrebbero ricavato altro che lividi e tagli. Che razza di persona era, per desiderare una cosa del genere? Per invocare silenziosamente l’aiuto di un amico, ben sapendo che ne sarebbero usciti entrambi a pezzi?

Il suo sguardo venne intercettato da Murray:
«Che c’è, donzella in difficoltà? Stai sperando che il tuo principe azzurro venga a salvarti?»

Cercò di appoggiarsi al paraurti di una vettura e rialzarsi di nuovo. Le gambe malferme lo ressero; barcollò sul posto, sollevando i pugni davanti a sé:
«Io…»attaccò, la voce mozzata dalla stanchezza e dal dolore «Io posso affrontarti anche da solo!» biascicò.

Un attimo dopo, si ritrovò nuovamente a sbattere il viso sul ruvido selciato; l’ennesima caduta fu accompagnata da uno scroscio di risa. Poco dopo, colse la vocetta stridula del teppista più tarchiato:
«Ehi, Gid!¬ Hai visto che roba?»

Altre risate seguirono a quell’uscita.
Steve si guardò freneticamente attorno, realizzando tardi che quanto Murray stringeva tra le mani grassocce era proprio il suo album da disegno.
«No…» sussurrò, provando a rialzarsi. Questa volta le ginocchia lo tradirono e le gambe esili si accartocciarono al suolo. Tese la destra, stringendo inutilmente l’aria. «Restituiscimelo.»

Nessuno lo stava ascoltando. I quattro si limitavano a girare furiosamente i fogli, senza alcuna cura per la carta che si piegava e si rompeva.

«Rogers, disegni proprio come la mia maestra delle elementari.»

«Carina. È tua sorella? È più virile lei di te, lo sai?»

«Io una ripassatina alla sorellina la darei volentieri.»

«E questo? Ti diverte parecchio ritrarre il tuo amichetto, eh? Lui lo sa che gli sbavi addosso?»

Il graffiante rumore degli strappi si accompagnava a quegli scherni continui. Steve osservò il blocco cadere sul selciato, poco dopo. Nessuna delle pagine era rimasta intera. Alcune giacevano appallottolate al suolo, altre erano lacerate in più punti e pendevano inerti dal taccuino profanato.

Lo sollevò, cercando di recuperare i fogli malconci. Colse nuovamente delle risa e poi dei passi che si allontanavano.
Rimase bocconi, con lo sguardo basso e le mani tremanti a stringere al petto ciò che rimaneva dei suoi disegni.


 

***

 

Bucky bussò alla porta dell’appartamento dei Rogers, venendo accolto da un mesto sorriso e un:
«Oh, sei tu. Entra pure, caro.»

Sarah lo fece accomodare in cucina, servendogli del the caldo.

«Mi dispiace, James. Non ho biscotti, né cioccolata.»

«Non occorre che si disturbi per me, davvero. Ero solo passato a sapere come stava Steve.»

Erano trascorsi due giorni dal pestaggio. Aveva tentato inutilmente di trascinare l’amico fuori dalla stanza, ma senza successo. Steve si era rifiutato di uscire, accontentandosi della sola compagnia di Sam. Il cane si era immediatamente acciambellato ai piedi del padroncino ed aveva leccato i lividi con insistenza, quasi a volerli cancellare. Bucky, invece, non era stato ammesso. Era ripassato il giorno successivo, ma senza migliori risultati. Sarah si era scusata e lo aveva invitato per un the il pomeriggio seguente.

«Non molto bene. Fisicamente, il dottore ha detto che non ha nulla di più che qualche botta e che guarirà in poco. Temo, tuttavia, che per l’orgoglio ci vorrà più tempo.»

Il giovane strinse le labbra, mimando un leggero cenno affermativo:
«Lo so…» mormorò soltanto.

In fondo, lo capiva meglio di chiunque altro. Si era abituato ormai a quella sensazione di eterna sconfitta, consapevole che da solo non sarebbe mai riuscito a battere Gideon e la sua banda; eppure sapeva che a Steve bruciavano più le parole dette che le ferite: gli scherni, le insinuazioni ed il blocco da disegno distrutto per sempre… era questo che rodeva nel profondo l’animo dell’amico.

«Mi dispiace. Non mi sono accorto di nulla. Se lo avessi sentito, se avesse chiesto aiuto, io…» proseguì, assottigliando le labbra in una smorfia scontenta «Non avrei dovuto accettare di tenere Sam.»

«Non lo conosci ancora abbastanza. Steve morirebbe piuttosto che chiedere aiuto. È cocciuto e vuole dimostrare di potersela cavare; a tutti ed a sé stesso, specialmente. Se vuoi proteggerlo, devi essere sempre un passo avanti a lui. Devi sapere in anticipo dove andrà, cosa farà e in che guai finirà per cacciarsi.» una pausa ed un sorriso amaro «Non sarebbe cambiato nulla. Sam è simpatico; ruba il cibo da tavola e abbaia alla dirimpettaia, ma… più di questo non fa.»

«Ci proverò. Farò il possibile per…» promise solo, ma Sarah sollevò una mano per interromperlo.

«Ascoltami, James. Steve… non ha mai avuto molti amici, nemmeno nel vecchio quartiere. Lo hai visto, no? Stando al dottore, ha problemi di accrescimento ed è probabile che il suo sviluppo non sarà mai completo. Non sanno sei sia genetica oppure una malattia contratta da piccolo, insomma… non abbiamo grosse risposte.» fece una pausa, la voce abbastanza forte da non tradire alcuna incrinatura «È più facile prendersi gioco di lui, che restargli accanto. In te, però, ha visto qualcosa di diverso; abbiamo visto qualcosa di diverso. Io e lui. Non vi conoscete che da qualche settimana, eppure vi incontrate tutti i giorni e sembra quasi siate amici da sempre. Steve si sta affezionando a te ed io non posso che esserne lieta.»

Bucky aggrottò la fronte, prendendo un rapido sorso di the. La bevanda, sin troppo calda, arrivò a bruciargli la gola, facendolo sussultare.
«Vuole che mi prenda cura di lui?» chiese, sempre più perplesso. Non era certo d’aver compreso fino in fondo il senso di quel discorso.

«No. Quello è il compito di una madre.» Sarah gli regalò un piccolo ed incoraggiante sorriso «Non è facile essergli amici, James; ma se ci riuscirai, te ne saremo entrambi riconoscenti. Steve è una persona estremamente leale e fiduciosa. Ti chiedo solo di avere pazienza con lui e di non ferirlo… e di promettermi che lo terrai d’occhio; che sarai sempre un passo avanti e uno dietro di lui, per proteggerlo e coprirgli le spalle all’occorrenza.» la vide montare un’espressione pensierosa «Sei giovane e ti sto caricando di una grossa responsabilità, ma… sei più maturo dei tuoi coetanei, te lo posso assicurare. So che hai capito ciò che ti sto dicendo e che puoi sopportarne il peso. Dimmi solo questo, James Barnes: pensi di poterlo fare?»

Bucky scosse la testa:
«No.» rispose, piegando gli angoli della bocca in un cenno risoluto «Non penso di poterlo fare… ne sono sicuro.»


 

***

 

Bucky schiuse la porta, dopo aver ricevuto un indeciso “avanti”. Buttò il capo oltre la soglia, spiando l’interno della stanza. L’ambiente era accogliente. Un letto singolo, ordinatamente rifatto, era locato alla sinistra dell’ingresso, mentre a destra si scorgeva un armadio e una serie di mensole ricolme di libri. Lungo le pareti, schizzi e disegni erano stati affissi alla carta da parati con delle semplici puntine. Vi era un’unica finestra, orientata verso sud, accanto a cui era poggiato un alto specchio dai bordi in ferro battuto. Steve Rogers si trovava lì e stava spiando il proprio riflesso con aria critica. A tratti contraeva i muscoli delle gambe e delle braccia per farli sembrare più robusti.

«Posso?» chiese, scivolando lesto oltre l’uscio «Che stai facendo?» domandò, mentre Steve si voltava in sua direzione.

«Niente. Delle prove…»

«Sbaglio o sei più alto?» portò una mano alla propria fronte, tracciando una linea invisibile sino a quella dell’amico.

«No, non mi pare.»

«Invece sì!» c’era qualcosa di strano. Steve poteva essere cresciuto di quasi cinque centimetri nel giro di un paio di giorni? Ne dubitava. Squadrò nuovamente il corpo dell’amico: a parte i lividi violacei ed i graffi in via di guarigione, non sembrava affatto cambiato. I pantaloncini corti non celavano le gambe magre e corte, così come la camicia a maniche corte sottolineava bene le spalle spigolose e le braccia ossute. Lasciò cadere lo sguardo sulle caviglie, un po’ troppo sporgenti rispetto al bordo delle calzature «Togliti le scarpe.»

Colse un tentennamento nella sicurezza altrui:
«Non mi sembra il caso.»

«Perché?» chiese, incrociando le braccia al petto e battendo il tempo con la punta di un piede «Sei in casa tua. Che senso ha tenerle?»

«Sono comodo.»

«Non farti pregare, suvvia.»

Questi sbuffò davanti alle sue insistenze e si sedette sul bordo del letto, slacciandosi frettolosamente le stringhe.

Bucky si chinò, afferrando una scarpa e cacciandovi dentro due dita. I polpastrelli incontrarono subito lo spessore della carta di giornale.
«Steve…» non riuscì a trattenere un leggero disappunto, mentre lasciava cadere i fogli a terra «Perché fai questo? Non ne hai bisogno!»

«Oh, davvero? A me pare proprio di sì.»

«è un inganno stupido. Che pensavi di farci? Di rimorchiare una ragazza fingendoti più alto? Andiamo! È una bugia che cade da sola non appena ti metti le ciabatte.» ironizzò, tirando una leggera gomitata all’altro, in un fare quasi complice. Notò, tuttavia, che sul viso scarno non spuntava alcun sorriso «Sul serio, Steve. Credi che della carta di giornale basti a fermare Gideon?»

«Magari… vedendomi più alto…»

«Gideon Murray è un idiota, ma non così tanto da non arrivare ad un trucchetto del genere.»

«Guardami, Buck! Tu hai tredici anni e ne dimostri sedici! Io, al contrario, sembra ne abbia dieci.»

«Non è vero.»

«Lo hai detto tu stesso!»

Già, ed avrebbe dato qualunque cosa per tornare indietro nel tempo e sistemare quel pasticcio, quella piccola incomprensione che, evidentemente, aveva colpito Steve più del dovuto. Scosse piano il capo, sforzandosi di trovare delle attenuanti: allora, non si conoscevano che da una manciata di minuti… e, senza dubbio, l’età del biondo non era semplice da decifrare se ci si basava soltanto sull’aspetto fisico.
«Non fossilizzarti solo su questa cosa della bellezza esteriore. Hai molte altre qualità, Steve…»

«Disse quello alto e bello…»

«…e che non sa tenere in mano una matita nemmeno a pagarlo.»

Quell’ammissione strappò, finalmente, un piccolo sorriso incerto a Rogers. Fu una smorfia passeggera, che si spense pochi attimi dopo:
«A proposito, Gideon ha distrutto il mio taccuino. Ha visto i miei disegni… anche quelli in cui c’eri tu. Ti chiedo perdono.»

Aggrottò la fronte, battendo le palpebre, perplesso. C’era qualcosa che gli sfuggiva: perché Steve si stava scusando con lui? Non aveva senso. Era lui la vittima, no?
«Perdono per cosa?»

«Non volevo che li vedesse e… ho paura che possa usarli contro di te.»

«Dannazione, Steve! Per fare cosa? Erano soltanto dei disegni. E anche se andasse a raccontare a mezzo quartiere che mi hai ritratto mentre dormivo, cosa cambierebbe?» scosse piano il capo «Pensi che abbia paura di lui?»

«Beh, i pregiudizi e le insinuazioni che questa cosa potrebbe sollevare…» Rogers abbassò lo sguardo e fece un passo indietro «Sono una frana come amico, scusami. Comprenderò se non vorrai più avere a che fare con me.»

Che razza di discorso era? Non aveva alcun senso, né intendeva ascoltarne una sillaba di più. Poteva comprendere che l’altro fosse sconfortato e ce l’avesse con sé stesso per essersi lasciato sopraffare, rubare i disegni, percuotere ed insultare. Conosceva il sapore amaro della sconfitta ed il bruciare perpetuo dell’orgoglio ferito. Erano sensazioni a cui si faticava ad abituarsi, ma per nulla al mondo avrebbe permesso a sentimenti tanto oscuri d’avere la meglio sull’altro.

«Chissenefrega, Steve!» scattò infine, senza nascondere il tono volutamente nervoso così impedire all’altro di distogliere l’attenzione «Confermo! Come amico sei un disastro perché non hai ancora capito nulla di me, di come sono fatto e di cosa reputo davvero importante e cosa no. Se pensi davvero che me ne andrò sbattendo la porta soltanto perché un irlandese ubriaco potrebbe spargere voci e sospetti, beh… ti sbagli. Anche perché è una cosa che probabilmente fa già… Dovrei preoccuparmi, secondo te? O vergognarmene? Proprio per niente.» si chinò ad afferrare una pallina di giornale, sollevandola davanti agli occhi dell’altro «La prossima volta che ti sento fare discorsi del genere… o a provare ad alzarti a colpi di fogli di carta, sai dove te la metto questa? Ti do un indizio: inizia con C e finisce con O… e non è il colletto della camicia.» lo attirò a sé, circondando le esili spalle ed appoggiandovi il mento. Lo strinse in un abbraccio cauto e delicato, come se avesse paura di romperlo definitivamente.

Steve Rogers era davvero una persona singolare: come potevano tanta determinazione e coraggio essere racchiusi in un corpo così piccolo e fragile; per tacere della stupidità che, evidentemente, doveva essere parte integrante di quell’animo irrequieto e ribelle.

«Non voglio più sentire così tante stupidaggini in un colpo solo, d’accordo?» sussurrò, mentre le esili mani dell’altro si posavano sulla sua schiena per ricambiare la stretta. Colse pure un paio di pacche - affatto vigorose – all’altezza delle scapole. «Ti voglio bene, scemo.»

«Anche io.»

Bucky aspettò inutilmente un insulto che non arrivò. Al contrario, percepì qualcosa di peloso aggrapparsi alla sua gamba destra ed uggiolare ripetutamente. Sam, quasi indispettito per non essere stato preso in considerazione, si stava sfogando sul suo polpaccio.

«Emh…» balbettò, cercando di scrollarselo di dosso «Da quando questo è così… agitato?»

«La cagnolina dei Pollock è in calore. Abitano due piani sopra di noi e… credo la senta.»

«Quindi ha scelto me come compagnia?» chiese, flettendo ripetutamente il ginocchio sino a sentire le zampe desistere dalla presa.

«Si vede che gli piaci. Anche se dubito sarai all’altezza della barboncina di cui si è innamorato.»

Bucky si accovacciò, allungando la mancina per arruffare il pelo bianco di Sam:
«Scusa, ma… davvero, non sei il mio tipo.» osservò l’espressione contrita dell’animale «Niente di personale, però… rimarrai il mio cane preferito, contento?» uno scodinzolio di coda sottolineò quelle parole, quasi il cane avesse comunque afferrato il concetto.

Un leggero bussare alla porta annunciò l’arrivo della signora Rogers che, dopo qualche attimo, si affacciò sull’uscio. «Ragazzi, vi va del the?»

«Mamma… ci saranno trenta gradi di fuori.»

«James prima l’ha voluto.»

Steve gli gettò un’occhiata sconcertata:
«Davvero?»

«Mh, sì.» ammise infine. D’altronde, come avrebbe potuto rifiutare un invito diretto della padrona di casa?

«Com’era?»

«Caldo.» sussurrò, senza trattenere una punta di ironia, prima di specificare «Però, non era affatto male.»

Sarah batté le mani, senza nascondere la soddisfazione:
«Visto? Sei tu che ti lamenti sempre di tutto, Steve.» aggiunse la donna, prima di indicare la cucina «Venite, ragazzi. È ora di merenda.»

  
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