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Autore: shilyss    21/05/2019    50 recensioni
Per cento notti consecutive lo spirito del dio degli inganni si manifesta in una Midgard diversa, di un altro tempo. Il suo scopo? Raccontare le sue storie e liberarsi da un maleficio oscuro, che lo tiene intrappolato tra due mondi, ma anche appagare l’eterna sete che lo tormenta, manifestazione di una cupidigia senza freni. Perché la domanda su chi sia Loki Laufeyson potrebbe avere un numero infinito di risposte…
Sotto il manierato e, talvolta, cerimonioso sussiego che le tributava, riusciva a intuire la ferocia del barbaro, del guerriero, del dio vichingo rinchiuso da troppo tempo, adorato e temuto, incapace di saziarsi di ciò che aveva, desideroso di possedere nuovamente anche ciò che aveva perduto in un tempo e in un luogo diversi, per via di un artefatto magico dall'insondabile potere.
[ ♦ Storia Seconda Classificata al contest “Vizi capitali” indetto da Ghostmaker sul forum di EFP ♦ ]
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Sigyn
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Di spettri oscuri e di racconti sussurrati

 

 

 

 

Di spettri oscuri e di racconti sussurrati

 

“La soddisfazione non è nella mia natura.”

(Loki Laufeyson, Thor: The Dark World, 2013)

 

 

 What if I’m wrong, what if I’ve lied 
What if I’ve dragged you here to my own dark night 
And what if I know, what if I see 
There is a crack run right down the front of me

(What if I’m wrong, Wolf Larsen, 2012)

 

Stati Uniti, Boston 1902, un mondo diverso

 

“Cos’ho fatto per Asgard? Tutto. Ogni cosa. Le ho dedicato le mie rune più potenti, ho combattuto immerso fino alle ginocchia nel sangue e nel fango, per lei, solo per lei, affinché fosse sempre più grande, il suo trono d’oro pronto ad accogliermi come suo legittimo sovrano. Un brivido d’eccitazione corre lungo la mia schiena al pensiero di ciò che è stato – del potere che scorreva nelle mie mani, delle battaglie combattute in prima linea. Nelle mie vene scorre il sangue di re feroci, che assoggettarono popoli interi, ma non quello di Bor o del dio delle forche[1], no. Colpa dell’inganno perpetrato da Odino, che ha chiamato figlio la sua reliquia rubata, una delle molte che ha nascosto nel suo palazzo in attesa che potesse, un giorno, tornargli utile. Il mio cuore è fatto con il ghiaccio della gelida Jotunheim, ma degli Æsir mantengo l’aspetto[2], perché sono entrambi e nessuno. Senti il suono della mia voce? Ne avverti il potere e la forza? È una delle mie armi più terribili, distruttive e affilate, che supera persino i pugnali: ho conquistato regni e popoli, catturato fin troppe prede, grazie alle reti tessute dai miei brillanti ragionamenti. Li hanno chiamati inganni e di quelli mi hanno fatto il signore, il dio, anzi. Hai paura, adesso? Conosci il mio nome e la mia natura, ma non sai ancora cosa voglio, cos’ho voluto, cosa desidero ora. Con la mia arguzia ho sedotto avversari, irretito guardiani, ottenuto il perdono, sfidato mostri che si facevano chiamare Titani.

 Cos’ho perso, per Asgard? Tutto, ogni cosa, ma il regno di Odino prevede che si paghi un prezzo alto, per la gloria delle sue torri immense, che si affacciano su fiordi belli come non ne esistono di più incantevoli nell’universo. Da quanto tempo attendo che la mia prigionia venga spezzata, le catene infrante? Da troppo. Allora, ascolta la mia storia, sciogli i nodi che mi tengono ancorato tra il mondo dei vivi e quello dei morti, poni fine a ciò che hai iniziato!”

“Per quante notti ancora tornerai a tormentarmi?”

Una risata secca risuonò nel buio.

 

 

Sophie si svegliò di scatto. Lo aveva sognato ancora, di nuovo, ma, come le era già capitato le volte precedenti, non era in grado – o non voleva – dire cosa, come, chi. L’incubo, vividissimo e reale, aveva il potere di turbarla e scuoterla nel profondo, lasciandole addosso gli strascichi di una necessità impellente, sempre diversa: cercò a tentoni il bicchiere d’acqua posto sul comodino, fortunatamente non lo urtò, bevve. La treccia, bionda e sfilacciata, pendeva sopra la camicia da notte immacolata. Lui aveva preso possesso dei suoi sogni, raccontandole storie scure perdute e lontane, ma si accorse di non ricordarne che vaghi frammenti disordinati. Era maggio inoltrato, ma la primavera sembrava non voler arrivare; oltre i vetri della finestra, l’accolse un cielo nero, ancora avvolto dal mantello cupo della notte. Rabbrividendo, s’infilò svelta una vestaglia e, senza far rumore, si diresse ai piani inferiori dell’abitazione. I domestici dormivano ancora e non si sarebbero accorti di lei che vagava, di nuovo insonne. Aprì la porta dello studio, accese un lume regolandone l’intensità, affinché solo un fioco raggio di luce illuminasse la scrivania. Il medaglione – si corresse, l’amuleto – era lì, posato su un fazzoletto di fine batista. Il lavoro di pulizia non era ancora terminato. Ne sfiorò i contorni con i polpastrelli incerti, provando a ravvisare i segni di quell’incisione tirata fuori dalla terra e dal fango, ultimo tesoro di un popolo perduto di pirati e di predoni che avevano terrorizzato l’Europa intera, i cui dèi feroci promettevano un paradiso pieno di idromele ai guerrieri che morivano in battaglia, con in mano le armi ancora sporche di sangue.

 

Era dalla notte del rito che il suo sonno era disturbato da innumerevoli incubi tetri, contorti, tutti intensissimi. Il medico l’aveva chiamata suggestione e la parola isteria aveva attraversato il salotto ben arredato dove suo zio si era premurato di offrirgli un tè, suonando implacabile come una sentenza. Sophie non riusciva ad accettare che, di punto in bianco, fosse diventata una di quelle signore dell’alta società che si mettevano a gridare e a svenire per chissà quale trauma sopito legato all’infanzia o alla loro femminilità soffocata[3]. Non provava disprezzo per quelle donne, né per la scienza nuova che si prefiggeva lo scopo di aiutarle, anzi: si era interessata molto agli studi del professor Sigmund Freud e aveva letto la sua recente e interessante dissertazione su come si stesse prodigando per curare quel male, ma era certa di non esserne affetta perché ne conosceva la causa[4].

Lui c’era: le faceva visita da troppo tempo, perché non fosse reale. Non badò al fatto di avere le punte delle dita fredde – gelate, addirittura – e prese in mano la reliquia fissando le rune che vi erano incise sopra. Formavano una maledizione, ora Sophie lo sapeva: gliel’aveva sussurrato lui con una risata bassa, malvagia, mentre una delle sue mani eleganti, di mago, le ghermiva la vita e un’altra scivolava sotto l’orlo della camicia da notte, esplorando la pelle sensibile sotto la stoffa. Rabbrividì.

 

Non era reale. Era un parto della sua fantasia, che si era fatta eccitabile e sensibile dopo che suo zio l’aveva portata nella brughiera, di notte, a recitare, sopra le sacre pietre millenarie di un altro popolo, un rito antico che era fallito, così avevano detto tutti. Il vecchio orbo dal cappello floscio, che aveva venduto loro l’amuleto spacciandolo per un tesoro vichingo, era un truffatore che doveva aver acquistato il medaglione in qualche mercato, nulla più.

Invece, irretito dalle parole di quell’imbonitore dall’aspetto di un mendicante, ma dotato dell’eloquenza di un re, suo zio si era convinto di avere tra le mani un artefatto magico, capace di sollevare il velo che esisteva tra mito e storia. Alcuni di coloro che avevano assistito alla scena, non si erano fatti scrupoli nel definire il tentativo non un esperimento, ma un insulto alla scienza; la ragione, del resto, aveva già condannato da tempo teorie prive di fondamento come il mesmerismo e lo spiritismo, relegando la passione che taluni nutrivano per l’occulto e per i misteri che separavano i vivi dai morti a superstizioni da lavandaie, nient’altro. Quelle accuse non avevano scalfito affatto la sete di conoscenza di suo zio. La sua mente era corrosa dalla possibilità, remota e assurda, di evocare a sé legando alla propria volontà spiriti potenti, ultraterreni. E lei cosa aveva pensato allora, quando i suoi sonni erano ancora sereni e non abitati da una presenza costante, spaventosa, irrinunciabile come i racconti d’orrore e di guerra con cui la spaventava?

Un brivido basso l’avvolse, turbandola. Era qualcosa di difficile da descrivere: un languore, una mollezza che le serrava le viscere, facendola sentire donna al solo pensiero dei vaghi sogni e della figura che li occupava tutte le notti. Che voleva? Perché, tra tutti coloro che avevano assistito all’invocazione, era stata scelta lei?

Un impulso la spinse a indossare l’amuleto, a sentire la sensazione di freddo sulla pelle che le provocava il metallo antico e capì – o meglio, ricordò – che anche lui desiderava il medaglione.

Si sforzò di rammentare tutti i dettagli dei suoi incontri onirici, anche quelli apparentemente più insignificanti che, in quel momento, parevano decisi a sfuggirle. Lottò contro se stessa per riafferrarli. Voleva che lei facesse qualcosa per suo conto. Doveva sciogliere i nodi, sì, ma la frase non aveva del tutto senso. Eppure era certa che fosse quella la natura del suo tormento. Ecco cosa bramava, ecco perché le sussurrava storie meravigliose e oscure; doveva spezzare un vincolo. Sophie aggrottò la fronte, in cerca del giusto ricordo in mezzo alla confusione provocata da quegli incubi strani, che la lasciavano spossata, vividi e, allo stesso tempo, incerti. Al risveglio non ricordava mai quasi nulla, ma a mano a mano che il tempo passava, emergevano frammenti di discorsi e di impressioni che, sommati insieme, formavano un quadro più completo e, in un certo senso, coerente. Trattenne il respiro, sfiorando di nuovo le rune incise sull’amuleto: lui non si accontentava di niente e voleva tutto, ma non riusciva a rammentare se quella fosse stata una frase pronunciata dal visitatore beffardo o una sua riflessione. S’immobilizzò, perché il suono di quella voce leggermente arrochita era dentro di lei, sulla sua pelle, nelle sue vene. Strinse il medaglione, chiedendosi quale stregone o mago o divinità scesa in terra lo avesse creato, chi fosse stato così abile da riuscire a imprigionarlo lì dentro.

Se glielo avesse chiesto, le avrebbe risposto?

 

Nel silenzio irreale della notte, un soffio, gelido e leggero come una carezza o un sospiro, la fece sobbalzare. Alzò lo sguardo lentamente, mentre sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene, paralizzandola; che cosa strana e terribile, che la paura fosse capace di inchiodarla lì, in piedi, dietro la lunga scrivania in mogano di suo zio, bloccandole persino la lingua e impedendole di gridare. Il buio si era addensato, andando a formare la sagoma nota di un uomo visto troppe volte – uno che non era tale, ma l’ombra di qualcosa senza nome che era stato e, ora, non era più. Solo che il confine tra l’irreale e il reale non può essere varcato, né è possibile che vi siano, tra i due mondi, commistioni di qualsivoglia natura.

Era sveglia e vigile e presente e davanti a lei c’era un’allucinazione, nient’altro. Pregò che fosse così, ma non fu in grado di dire a chi rivolse quella richiesta, allo stesso tempo muta e accorata. Protetta dal mobile, con le dita ancora strette sull’incisione del medaglione, parlò con un filo di voce che ruppe il silenzio.

“Chi sei tu?”

 

L’accolse una risata breve, fredda, roca. Conosciuta, ma che non apparteneva alla realtà né al suo tempo.

“Oh, Sigyn, non deludermi con domande inappropriate. Guardami: tu sai chi sono, ricordi cos’hai fatto. Te l’ho raccontato.”

Tentò di fuggire, ma era come se i suoi piedi si fossero stati incollati al pregiato tappeto persiano. L’aveva chiamata di nuovo con quel nome straniero, dolce e amaro insieme, che, pronunciato dall’ombra, assumeva un tono a metà strada tra l’ammirato e il sarcastico.

Era appartenuto a un’altra, gliel’aveva già raccontato in uno dei loro incontri passati.

La figura nera si staccò dalla parete, avanzando verso una poltrona e sedendovisi come avrebbe fatto su un trono d’altri tempi, ma con scomposta malagrazia[5]. La luce fioca della lampada ora lo illuminava, anche se solo parzialmente, rivelando un volto affilato e bello, un corpo agile e scattante, di guerriero. Si era mosso come se il mondo intero gli spettasse di diritto, con esibita e sfacciata arroganza, conscio di stupirla e di spaventarla al tempo stesso. Merito della corazza di pelle intrecciata dai colori cupi, dell’armatura dorata che gli proteggeva gli avambracci e le spalle, della bandoliera piena di pugnali.

“Sei un’allucinazione, un sogno,” mormorò lei. “Un fantasma. Niente di più.”

Le rivolse un’occhiata lunga, rapace. “Conosci il mio nome; pronuncialo, come hai fatto durante il rito,” la incalzò freddamente l’ospite non invitato.

Sophie scosse la testa con forza. Era sicura di essere sveglia, eppure lui fino ad allora non era mai riuscito a uscire dalla sua testa; era sempre rimasto confinato nell’irreale, ragione per cui lei stava senz’altro dormendo. Strinse le mani a pugno conficcando le unghie nei palmi, per provare a destarsi, per accertarsi di sentire qualcosa: una fitta di dolore l’avvertì che era sveglia, infrangendo ogni sua speranza, confermando le sue paure più oscure.

“Il rito è fallito. Erano solo vane parole. Sono pazza,” ammise – decise. Quell’idea, fino ad allora ricusata con forza, le sembrò consolante, persino piacevole. Era isterica. L’apparizione di fronte a lei non era reale, ma una proiezione incorporea di timori e di desideri, il risultato esecrabile che un rito pagano aveva avuto sul suo spirito evidentemente sensibile di donna. Si era immaginata che la cerimonia si fosse compiuta e l’essenza incorporea evocata avesse deciso di tormentare, tra tutti, proprio lei. Sorrise al buio e allo spettro che ghignava soddisfatto, perché, nel profondo del suo cuore, non credeva a una sola parola di quanto si era appena raccontata mentalmente. Lei non era una debole fanciulla esaltata, dotata di un’immaginazione troppo viva. Era tutto dannatamente, spaventosamente, reale. Una lacrima calda le rigò la guancia. La lasciò cadere in silenzio, senza emettere un solo suono.

Lo spirito assottigliò le palpebre, come se apprezzasse il suo dolore contenuto, per poi concederle un sospiro degno di un uomo in carne e ossa.

“Se evocati, gli dèi appaiono: ecco perché si usano i kennings e le formule atte a pronunciare, nel giusto modo, i loro multipli nomi,” spiegò, accompagnando le frasi con alcuni gesti eloquenti delle sue belle mani. “Tu conosci il mio nome.” Lo ripeté sporgendosi verso di lei, accarezzando con le dita il bracciolo della poltrona. “Lo hai pronunciato.”

“Non è vero.”

“Nei tuoi sogni. Ti ho incontrata. Ti ho raccontato molte delle mie storie,” insistette. “E continuerò a farlo per tutte e cento le notti che mi sono state concesse,” promise.

“Sto sognando. Anche adesso sto sognando,” ribatté lei, ma si accorse che non era esattamente la verità, quella che aveva pronunciato.

Lui piegò le labbra in un sorriso sbieco e laterale, di lupo. “Davvero?”

La battuta ironica aveva la forza di un giudizio, di una verità scritta nella sua anima. Si chiese se lo spirito di fronte a lei, aristocraticamente accomodato sulla poltrona, potesse riflettersi nell’ovale di uno specchio. Faceva freddo. Un gelo innaturale aveva stretto lo studio in una morsa crudele, contribuendo a rendere l’atmosfera irreale. Non sentiva più la punta delle dita, tanto da non riuscire a comprendere se stesse stringendo ancora il talismano. Se ne accertò abbassando lo sguardo e seguendo l’ombra che, beffarda, occhieggiava nella sua direzione, soffermandosi sulla sua figura. La valutava.

“Cosa vuoi da me?”

“Concludi il rito. Avete risvegliato qualcosa, ma poi vi siete tirati indietro con codardia,” puntualizzò inarcando un sopracciglio. “Dimostrami il tuo coraggio, Sigyn.”

“Mi chiamo Sophie. Quel nome non è il mio,” boccheggiò lei, tentando di sostenere il suo sguardo.

Un’altra secca risata avvolse la stanza sempre più fredda.

“Ma lo è stato,” le rivelò inclinando il capo da un lato, come per guardarla meglio o per compiacersi della sua espressione smarrita.

“È una bugia. Tu mi inganni.”

“Ti piacerebbe, non è vero?” La voce dell’uomo si fece più roca, suadente. “Sarebbe consolante sapere di essere una vittima dei miei sotterfugi, schiava delle mie parole, non è vero?”

“Tu non sei reale.”

La ragazza tentò nuovamente di andarsene, ma l’altro la inchiodò dov’era, come se, con la sua sola presenza, fosse capace di imprigionarla all’interno di una ragnatela invisibile.

“Esistono cose che non possono essere né toccate né viste,” puntualizzò tetro. “Non sottovalutarle, commetteresti un errore fatale,” sorrise, ma non c’era divertimento alcuno nel ghigno che assunsero le sue labbra sottili e ironiche. Si alzò dalla poltrona per girare attorno alla scrivania e raggiungerla. La sovrastava in altezza e la sua figura nervosa suggeriva una forza sottesa, nascosta sotto le belle maniere e l’eloquio brillante, ma pronta a esplodere. “Io sono reale. Come te. Non è questo ciò che ci rende diversi.”

Un’improvvisa consapevolezza le attraversò la mente: era in trappola e doveva stare al suo gioco, come, talvolta, era riuscita a fare nei suoi incubi.

“Ma sei prigioniero. Sei incatenato qui, legato a un medaglione. Sei maledetto.” Fece una pausa, emise un sospiro. Chiamarlo per nome era come liberare definitivamente qualcosa che dimorava dentro di lei, in profondità. “Sei maledetto, Loki, dio degli inganni.”

“Anche tu, anche voi tutti,” fu la fiera risposta, data con una punta di dispetto. Il dio degli Æsir era palesemente offeso dal fatto che gli venisse rinfacciata una prigionia ritenuta ingiusta.

Ma cos’altro dire allo sprezzante ingannatore di Asgard, che la chiamava col nome di un’altra donna su cui lui aveva vantato un non ben specificato possesso? Come proteggersi dalla furia di una creatura che aveva più di mille anni e aveva visto ogni cosa? Loki le si avvicinò, sfiorandole con la punta delle dita la guancia ancora umida.

Sì, era reale.

Non come lei o suo zio o le cameriere che dormivano nei loro letti o chiunque altro in città e altrove, ma in quel momento preciso era vivo e aveva un corpo e Sophie poteva sentire il suo tocco freddo sulla pelle, avvertire la carezza leggera che all’Ase servì per sollevarle il mento, sfiorarle con i polpastrelli le labbra.

“Conosci le mie storie, Sigyn. Sai cosa devi fare,” le suggerì perfido, quasi ghermendole un bacio per il piacere insaziabile di avere tutto, ogni cosa.

“Tormenti i miei sogni perché ti servo, ti sono necessaria. Anche il rito lo era,” osservò la ragazza con una consapevolezza che la stupì, ma che all’altro strappò un altro dei suoi sorrisi sbiechi.

“Devi volermi vedere libero, Sigyn, con ogni fibra del tuo essere; e alla fine del tempo che mi è stato dato, al termine della centesima notte, lo vorrai, fidati di me.”

 

 

Le raccontò chi fosse, come faceva ogni sera da quando, incauta, stretta nel suo mantello aveva partecipato per curiosità e gioco al rito antico. Così Sophie, o Sigyn, come lui la chiamava, grazie alle sue parole, visitò di nuovo la magnifica Asgard che non c’era più, la città degli dèi fatta di torri d’oro che scintillavano alla luce del sole. Loki l’aveva amata, quella terra non sua che si affacciava sui fiordi. Aveva calpestato il legno pregiato di cui erano fatti i pavimenti della sua sontuosa reggia con la fierezza di un principe cui era stata fatta accarezzare l’ombra di un trono opulento, ricco, fatto anch’esso d’oro, su cui poteva sedere solo chi era degno. Le labbra dell’Ase che non era tale – anche questo le aveva detto – tremarono appena al ricordo bruciante del desiderio nero che gli aveva avvelenato il cuore, così come le sue dita agili e belle, di mago, si mossero con meno fluidità, nel loro continuo accompagnare la lingua svelta del dio degli inganni e degli scherzi. Per gli Æsir aveva fatto ogni cosa, ma non era bastato e, alla fine, era stato comunque considerato indegno. Sì, i racconti d’avventura e d’astuzia di Loki lasciavano trapelare sempre altro, anche quando erano brillanti e divertenti – avventure passate, lontane, vissute durante una giovinezza durata secoli interi.

 

Eppure non c’era alcun tipo di rimpianto nella sua voce arrochita e suadente. Spesso il suo tono era amaro e sarcastico in una maniera quasi crudele, soprattutto quando si soffermava a ricordare Asgard e le battaglie che aveva combattuto con e contro suo fratello, ma era certa che, potendo scegliere, Loki avrebbe comunque fatto ogni cosa, replicato ogni azione, ripetuto ogni scelta, perché anche la più bassa nequizia era stata compiuta dopo una lunga ponderazione. Magari avrebbe corretto il tiro per evitare taluni sbagli che persino lui, sebbene fosse un dio, aveva commesso grazie al suo spirito troppo simile a quello degli uomini, ma, dal suo punto di vista, gli errori erano opportunità, perché concedevano il privilegio della conoscenza[6]. C’era grandezza, nelle sue frasi, intelligenza, nei ragionamenti, forza nelle sue parole, fierezza nelle idee che sosteneva con vigore. Forse, decise Sophie o Sigyn, quando il dio degli inganni era con lei quel nome le si appiccicava addosso legandosi alla sua anima, forse, se l’avidità non lo avesse corrotto, sarebbe stato davvero il principe illuminato degno di essere l’erede di Odino. Ma Loki era anche altro: lo diceva ciò che rimaneva sotteso nei suoi discorsi pervasi da una logica stringente, viziati dal suo punto di vista arguto, spesso esaltato da brame terribilmente terrene. Lo dominava il caos: per questo, probabilmente, si trovava a essere la vittima di un incantesimo che, per essere sciolto, necessitava il pagamento di un prezzo così alto come il raccontarsi a lei. La sua brama di desiderare sempre di più, la sua incapacità di rinunciare a qualsiasi cosa, lo spirito senz’altro appassionato, lo avevano condotto a sfidare l’incerta fortuna e a finire rinchiuso in una prigionia orribile. Ma è impossibile catturare il caos – così come sarebbe ingiusto e inverosimile che Loki si accontentasse, che si acquietasse crogiolandosi con ciò che ha già, anziché anelare a quello che potrebbe avere.

Eccola, la vera punizione del dio degli inganni: la soddisfazione non era nella sua natura. Nessuna cosa avrebbe mai potuto sopire il fuoco che gli bruciava dentro. Nemmeno dell’Hliðskjálf, il magnifico scranno di Odino, si sarebbe accontentato, alla fine.

 Quella notte, l’Ase le narrò dell’incoronazione mancata e del vuoto che gli aveva morso il petto nel pensare che sarebbe stato suo fratello Thor, e non lui, a essere insignito del titolo di re. Eppure non era solo per il trono che doveva essersi lasciato cadere giù dal Bifrost spezzato, quel ponte color arcobaleno che le aveva descritto con tanta cura e dovizia di particolari da farglielo sembrare reale; era stata l’avidità, a perderlo. Quella era la sua colpa. Trapelava nell’ironia con cui Loki condiva certi ragionamenti, spiegandole la sua verità affascinante e certamente parziale, distorta. Il dio degli inganni era stato rinchiuso in un medaglione perché non aveva saputo accontentarsi di ciò che già possedeva. Il suo difetto era nell’insoddisfazione che definiva la sua natura scostante, volubile, irrequieta, nervosa, secondo taluni persino folle. Ecco perché si era perso nell’abisso siderale, profondo e tetro. Se non riusciva ad avere ciò che desiderava, allora tanto valeva cercare di ottenerlo in un altro modo – o ambire a un potere ancora maggiore di quello di Odino e della sua lancia incantata[7]. Ecco cosa lo aveva spinto a legarsi a creature oscure e ataviche, la cui descrizione rapida, ma accurata, aveva fatto sussultare per lo sgomento Sophie. Esseri d’inimmaginabile potenza che puntavano a stabilire l’andamento dell’universo in virtù di principî malvagi, venefici.

Le narrò di quel periodo buio, passato a cercare artefatti perduti per conto di un signore severo e crudele che non si sarebbe fatto scrupolo alcuno di strangolarlo o di staccargli la testa al minimo errore; lo disse compiacendosi del terrore che le ispirava, soffiandole contro tutte le malvagità che non aveva esitato a compiere, per il gusto di poter anche solo sfiorare l’immenso potere di quegli oggetti mistici, arrivando a rivelarle persino di una sconfitta e del furto di una gemma capace di soddisfare, almeno in parte, la sua sete di libertà – il Tesseract.

“Perché mi racconti le tue storie, dio degli inganni? Perché dovrei credere che non siano fiabe o menzogne?”

L’Ase la fissò con un’attenzione lupesca e le sfiorò di nuovo la guancia, compiacendosi nel trovarla morbida, per poi avvicinarsi al suo orecchio, tanto che Sophie poté avvertire le sue labbra che le lambivano il lobo. Un braccio le ghermì la vita sottile, facendole comprendere all’improvviso quanto leggere fossero la camicia da notte e la vestaglia che la coprivano.

“Solo la conoscenza offre la possibilità di una libera scelta. A me questo serve. La libertà.”

 

Si svegliò nel suo letto, ansante, col cuore che le batteva all’impazzata. La parte superiore della camicia da notte era slacciata, esponendo la sua pelle delicata al freddo mattutino della stanza. Non era reale, non era assolutamente reale, ma allora aveva davvero sognato che Loki premesse la bocca sulla sua, strappandole con un ghigno soddisfatto un bacio?

 

 

 

 

Era una seduzione, quella del dio degli inganni, nient’altro che questo. Le settimane si erano susseguite rapide, tormentate dalle visite notturne e dalle storie antiche sussurrate nella notte dal beffardo Ase. Il ricordo della sua lingua che le accarezzava la pelle le provocava brividi bassi, incontrollabili, frutto di pensieri impuri. Loki amava giocare, indugiare, esasperare – ecco perché, risvegliandosi, lei si ritrovava con una mano tra le gambe umide. L’ingannatore era entrato nei suoi incubi impadronendosene, mormorando una storia fatta di mille altre che, a ogni alba, si interrompeva sempre sul più bello, per poi ricominciare la sera appresso. E lei, complice quanto Loki, aveva desiderato che lui continuasse, immaginato che potesse farlo, abbandonandosi totalmente a quella cosa oscura che alcuni chiamavano inconscio, altri follia.

Era pazza o posseduta – stava permettendogli di farla cadere nel baratro del caos. La vergogna per il sospiro rapido e affannato con cui si era svegliata si legò ad altro: voleva liberarlo. Dopo ogni visita dell’Ase, la sua sincerità ingannevole e affascinante e l’eloquio appassionato la convincevano a cedere un po’ di più. Merito anche dei modi squisitamente cortesi, dei racconti spesso smaccatamente crudeli, dove nessuna malefatta veniva taciuta, era evidente – o, almeno, così Sigyn voleva credere, ma quella sincerità disarmante poteva essa stessa essere l’inganno. Loki presentava spesso i fatti dicendo di non voler dare su di essi alcun tipo di giudizio, nella loro spietata lucidità, ma il modo neutrale con cui si sforzava di presentarli riusciva sempre a far sorgere, in lei, la stilla del dubbio, l’ombra di un sospetto accentuato dalla piega ironica delle labbra sottili dell’Ase, perennemente arcuate in un ghigno. Sotto il manierato e, talvolta, cerimonioso sussiego che le tributava, riusciva a intuire la ferocia del barbaro, del guerriero, del dio vichingo rinchiuso da troppo tempo, adorato e temuto, incapace di saziarsi di ciò che aveva, desideroso di possedere nuovamente anche ciò che aveva perduto in un tempo e in un luogo diversi, per via di un artefatto magico dall’insondabile potere.

Sì, le parole di Loki erano piene di garbo, la sua voce avvolgente, ma lo sguardo, buon Dio, era gelido come se fosse fatto del ghiaccio che avvolgeva le cime perennemente bianche delle montagne.

Quella furia, solo tenuta a bada, ogni tanto si affacciava, rapida, comparendo per un istante nel modo compiaciuto con cui il dio degli inganni descriveva una colorita vendetta, nell’implacabile e sprezzante analisi di certe valutazioni. Era la sfacciata schiettezza di Loki il problema – di quello spirito dall’aria divertita che diceva di chiamarsi Loki e vantava ascendenze regali, oltre che divine. Sosteneva altero che non gli interessava mentire, perché non ne aveva alcun bisogno, ma la verità era leggermente più complessa, meno netta. Lo intuiva seguendo il brillio fugace che gli illuminava, talvolta, gli occhi verdi e attenti. Loki era un’ombra solo per l’apparente inconsistenza del suo corpo, perché il suo sguardo era vivo, reale, penetrante e attento a ogni sfumatura del terrore da lei spesso mostrato, capace persino di guardare oltre.

Il principe perduto degli Æsir aveva bisogno di convincerla razionalmente a sciogliere il nodo che lo teneva collegato all’amuleto e ci stava riuscendo, questo era il problema. Diceva che si trattava di un passaggio necessario, lungamente atteso. Non contento, insisteva per chiamarla con quel nome scaldico che aveva scelto chissà per quale dimenticata leggenda. L’amabile conversatore, il dio delle menzogne e dei sotterfugi, sapeva selezionare con infinita cura i vari argomenti delle sue storie.

Cosa le rimaneva addosso, di quei racconti splendidi e terribili di cui non riusciva più a fare a meno? Il dio delle bugie e delle malefatte le proponeva l’immagine di un mondo diverso, di una storia dove ogni possibilità poteva essere colta e l’avidità piratesca si mescolava alla sete di conoscenza. Loki narrava con l’abilità consumata di un attore su un palco, di un poeta, e lei non riusciva a fare a meno di guardarlo e vedere come il suo spirito avido e ingordo fosse, in qualche modo, colmo di una magnificenza regale.

La sua colpa più grande, cui doveva la reclusione forzata, non era l’aver tradito il proprio padre né combattuto il fratello adottivo e nemmeno il fatto di aver accettato, per necessità o volontà, di prestare le sue abilità a delle entità mortifere e oscure. Quelle erano state scelte necessarie, plausibili, se si osservava il mondo dalla prospettiva distorta del principe degli Æsir che era stato ingannato.

 No, il suo vizio capitale era racchiuso e definito dall’incapacità di accontentarsi, dalla tensione che lo spingeva a ottenere un risultato e a volerlo superare un momento dopo. Un difetto che gli aveva infettato il cuore, lasciandolo perennemente affamato di gloria e assetato di conoscenza, rendendo la sua esistenza divina simile all’instancabile ricerca dei midgardiani di cui parlava con tono tanto beffardo – di lei. Il destino di Loki era tentare di spegnere un fuoco che avrebbe bruciato per sempre e che, per questo, era ancora più splendido.

 

Il giorno, per Sophie, si trascinò uguale a tutti gli altri, nell’attesa di un’altra notte fatta di storie e confessioni; la novità fu una visita imprevista del suo medico curante, il cui sguardo pietoso non nascondeva una certa curiosità nei suoi confronti, ma che nulla era rispetto alle occhiate feroci del dio degli inganni. Le prese una mano, la strinse tra le sue, le sussurrò parole che nascondevano un timido, velato, sentimento, oltre alla preoccupazione per il suo stato di salute. Sophie abbassò le ciglia scure, si disse lusingata dalla bella dichiarazione d’amicizia che, per l’altro, certo non era tale. Se gli avesse permesso di baciarle la mano, temeva che Loki non sarebbe tornato per finire di raccontarle le sue storie meravigliose e terribili, che si arrotolavano l’una con l’altra creando un’unica, perfetta, rete. Per novantanove volte era tornato a farle visita.

Sophie sapeva, per averlo appreso dalla sua voce arrochita, che l’ingannatore non amava condividere ciò che credeva gli appartenesse e lei, sebbene non fosse niente, in qualche modo era sua, non in virtù di qualche sentimento inesistente, ma del vincolo che le parole incantate del dio avevano creato tra loro – e del desiderio fisico, quello sì, che la scuoteva, dannandola. In fondo, era dolce lasciarsi andare all’impulso di cedere, facendosi corrodere dalla medesima sete che bruciava Loki Laufeyson.

Rifiutò il pretendente, certa che lui avrebbe affrontato la sua scelta dichiarandola pazza, ma non le importò: la sua mente era già persa nell’attesa del tramonto quando, nel cuore della notte, un gelo innaturale avrebbe avvolto ogni cosa e Loki sarebbe apparso, in quella dimensione a metà tra sogno e realtà in cui era rimasto incastrato.

Inoltre, aveva una domanda da porgli. Una che non avrebbe avuto alcuna risposta, probabilmente, ma che doveva fargli a ogni costo.

No, nemmeno lei riusciva ad accontentarsi di ciò che aveva.

 

Era stata Sigyn, ma in un altro tempo, in un altro mondo: in quel passato, gli era appartenuta in maniera totale, viscerale. Poteva essere stata una schiava, una moglie, un’amante. Tutte queste cose e nessuna. Loki, talvolta, aveva accennato al legame che li aveva uniti, ma con parole vaghe: la libertà stava sopra l’amore e lei non era che un mezzo per un fine. Ma il punto era che l’avidità del dio degli inganni non poteva limitarsi solo a un trono, anche se, forse, proprio nel suo nome, in passato, l’aveva sacrificata. Pensò di essere entrata nel novero di ciò che il fiero e insaziabile principe degli Æsir riteneva gli appartenesse e che desiderasse tenerla per sé, in qualche modo che la terrorizzava e l’attraeva a un tempo.

Sì, Loki non voleva solo convincerla a spezzare il maleficio che lo imprigionava, rendendolo poco più di un’ombra fugace tra i mortali, ma bramava che lei facesse parte a pieno titolo di quella storia magnifica e terribile, raccontata con occhi brillanti e voce roca dal dio di un popolo di pirati abituato a razziare le terre più fertili e ricche, portandosi via tutto ciò che era prezioso o poteva rivelarsi utile. Sophie non aveva idea a quale delle due cose lei si avvicinasse, ma sperava che la sua utilità si sarebbe manifestata anche dopo che il rito fosse stato ultimato – quando lei, cioè, avrebbe desiderato con tutto il cuore che Loki Laufeyson in persona fosse libero. Se ne era resa conto nel momento in cui aveva smesso di correggerlo quando lui la chiamava Sigyn, attendendo quasi con ansia che lui arricciasse le labbra per pronunciare quel nome antico che le si era dipinto nell’anima. Voleva essere lei.

 

Erano passate cento sere da quando le aveva fatto visita la prima volta.

I racconti delle gesta e delle avventure del dio degli inganni presto sarebbero giunti al termine, alla loro inevitabile conclusione. Nell’ora più buia, come sempre, il dio del caos apparve, portando con sé il gelo dei ghiacci eterni presso cui era nato.

“Dimmi di lei, stanotte. Dimmi cos’era, per te.”

Loki le girò attorno, lo sguardo mobile e verde perso in ricordi lontani. Si aspettava senz’altro la domanda, ma studiò con attenzione la risposta da darle, inumidendosi le labbra sottili, scegliendo con cura le parole adatte. “Una profezia. Una che si è realizzata un tempo e che si realizzerà ancora, che parla della distruzione di Asgard e di come il fuoco l’abbia ridotta in cenere[8].”

La ragazza rabbrividì, perché Loki la fissava, ma vedeva altro – qualcosa che aveva perso, ma avrebbe ritrovato, perché questa era l’essenza della sua natura smaniosa, incapace di acquietarsi. “E tu credi nelle profezie?”

L’ingannatore parve rifletterci. “Ad alcune,” ammise infine, sollevando il mento fiero, segno evidente di come avesse tentato, con ogni mezzo, di piegare al suo volere il destino, mutare gli eventi, anche a costo di seminare il caos che lo animava e lo definiva. I vaticini andavano ascoltati solo se favorevoli.

Avvicinandosi ancora a lei, Loki prese a raccontarle, per l’ultima volta, una delle sue storie affascinanti e oscure, perché era giunto il momento di spezzare la maledizione. Desiderava essere libero e tornare definitivamente nel mondo da cui era venuto: un cumulo di macerie, forse, ma ancora abitato dagli Æsir che, secondo l’oracolo, avrebbero ricostruito Asgard.

Così, Loki iniziò a raccontare e la ragazza si sedette e lo ascoltò, vinta, come sempre, dal terrore di avere un dio antico al suo cospetto, conquistata dallo sguardo verde e aguzzo con cui l’altro la scrutava e l’esaminava, sconvolta dall’acume con cui lui poteva guardare nel suo cuore scovandone desideri e rimpianti, impulsi e rancori, speranze e idee.

Era stata avvinta da un incantesimo, era diventata folle e il suo spirito aveva scoperto di essere bramoso di vita e di altre storie, come quello di lui, ma ora tutto stava per concludersi. L’intricato racconto del dio delle beffe e degli inganni dal sorriso affilato stava giungendo al termine: erano all’ultima scena di uno spettacolo allestito solo per lei, affinché si convincesse della necessità di liberarlo totalmente, interamente, completamente, con ogni fibra del suo essere, non in virtù di qualche fugace sentimento troppo facile da suscitare, ma scientemente. Sigyn o Sophie, lei stessa non ricordava più quale fosse il suo nome, rimase ad ascoltare le storie di vittorie e di battaglie, di speranze e di sotterfugi, finché l’ultima delle fiabe del dio delle bugie non si concluse lì, nella stanza immersa nell’ombra e sospesa nel tempo.

 

“Ora dillo, Sigyn. È il momento,” la incalzò l’Ase. “Ti prometto che, dopo, sarai libera. Non desidero niente più di questo,” le promise, ma lo disse stirando le labbra sottili in un sorriso laterale e breve, di lupo. Forse mentiva, decise la ragazza.

“La soddisfazione non è nella tua natura,” gli soffiò in risposta. “Non ti accontenterai di lasciarmi andare, perché ormai conosco le tue fiabe, tutte. Era necessario che tu me le raccontassi. Qual è il prezzo per la tua libertà? Quello vero, intendo.”

Il dio degli inganni assottigliò gli occhi, compiaciuto dalla risposta arguta. “Lo conosci, Sigyn. Lo hai sempre saputo. Gli esseri umani devono rimanere all’oscuro di ciò che accade dall’altra parte, in quello che alcuni chiamano, a volte, cielo. Io non sono come te. Toccare un Æsir, ascoltare la sua voce, è qualcosa che è stato proibito da leggi più antiche persino di Odino, di Bor e di Ymir stesso[9],” sentenziò implacabile. Era sincero. “Ogni tanto, gli dèi, appaiono su Midgard, come sto facendo io, in veste di spettri, o camminando sulla terra, come ha fatto Odino quando ha venduto a tuo zio l’amuleto dov’ero rinchiuso[10],” le rivelò perfido. “Allora, talvolta, raccontiamo ai poeti le nostre storie. In cambio, chiediamo la vista, la ragione, la vita,” concluse, stirando le labbra sottili in un ghigno furbo, divertito. La strinse a sé e Sophie capì che il suo nome d’ora in avanti sarebbe stato Sigyn.

Faceva tutto parte di un piano, dall’inizio. Batté le palpebre, mentre fuori dalla finestra la notte iniziava a lasciare, lentamente, il posto a un’alba che sarebbe stata più livida e fredda delle altre.

“Ed è questo ciò che vuoi da me, Loki?”

“Io sono il dio degli inganni, Sigyn. Io non so rinunciare a nessuna cosa,” le soffiò sulla bocca, sulle labbra.

 

 

Il sole invadeva con i suoi raggi la stanza, ma la cameriera che aprì con delicatezza la porta fu avvolta ugualmente da una folata innaturalmente fredda. La prima cosa che fece una volta entrata, fu gridare e correre a chiamare qualcuno, chiunque, immediatamente.

Il corpo di Sophie, ormai freddo e privo di vita, era riverso sul letto, abbandonato sulle coperte soffici e candide, in una posa, allo stesso tempo, caotica eppure perfetta. Sembrava l’immagine rubata di un quadro. C’era, in lei, un disordine particolare: le ciocche bionde, totalmente libere da qualsivoglia vincolo, formavano una cornice d’oro sulle coltri disfatte, la camicia da notte, parzialmente slacciata, lasciava quasi intravedere la dolce curva di un seno con la sua areola scura. Le labbra schiuse, leggermente macchiate di una sostanza rossa che non era sangue, ma che si sarebbe scoperto essere vino mescolato al miele, erano cristallizzate in un sorriso, mentre gli occhi grigi, spalancati verso la porta, parevano essersi fissati eternamente su qualcosa di stupefacente e bello e inebriante. Era come se il suo cuore, all’improvviso, avesse cessato naturalmente di battere, privandola della vita, strappandola a un’esistenza che avrebbe potuto essere assai più lunga. Stonava, ma solo all’apparenza, il pugnale antico posato sulla coperta, che sembrava essere stato abbandonato da colui che aveva colto la vita della ragazza. Eppure, oltre quel goccio di vino rimasto sulle labbra, non c’era alcun segno sulla pelle chiara e perfetta di lei. L’affilato pugnale vichingo scintillava cupo vicino alle curve morbide e delicate, suggerendo come, forse, qualcuno o qualcosa si fosse davvero introdotto nella camera da letto per ghermire la scintilla di vita che l’animava, in nome della necessità di predare anche l’essenza di colei che, alla fine, si era convinta a fidarsi tanto da spezzare l’incanto, ma se lo aveva fatto, era riuscito a non lasciare alcuna traccia del misfatto.

 

Ci furono grida, pianti, lacrime, visite, ispezioni, imprecazioni, preghiere.

Sigyn osservò tutta la scena col distacco proprio degli spiriti che hanno perso il loro corpo mortale. Non c’era rimpianto in lei, ma una consapevolezza si faceva strada nella sua mente: era stata Sophie e ora era tornata a essere Sigyn, la dea della fedeltà: tutto sembrava avere finalmente più senso, anche le storie di Loki Lingua d’Argento. Così lo chiamava, quand’erano ancora nella magnifica Asgard.

Ma chi era Loki? Un bugiardo, un principe, un dio avido incapace di accontentarsi, un guerriero astuto e feroce, un bardo dalla voce suadente, un incantatore, un mago, un esperto di trucchi.

“Non ti è mai servito il mio intervento, per spezzare la maledizione, non è vero? Solo, non tolleravi l’idea di lasciarmi qui,” osservò placida, ma altera. Aveva scelto il suo destino – tornare nel mondo cui, un tempo, era appartenuta – e non rimpiangeva la fine della sua breve esistenza mortale, perché anche lei, alla fine, si era scoperta a bramare qualcosa di più.

Cos’erano cento sere, per un Ase che viveva migliaia di anni? Un battito di ciglia, un soffio del cuore. Desidero che tu sia libero di tessere altre trame, raccontare altre storie, gli aveva mormorato con un fremito e allora aveva capito che il rito celebrato aveva avuto effetto fin da subito, perché, pur fallendo, aveva creato tra i mondi una piega abbastanza ampia perché Loki vi si infilasse, approfittandone.

L’Ase, accanto a lei, rise buttando il capo all’indietro.

“La soddisfazione non è nella mia natura, mia cara Sigyn.”

 

 

These empty days are filling me with pain

After I left it seems my life is only rain

My heart is longing to the better times

When everything was still so fine

(4000 Rainy Nights, Stratovarious)

 

 

Fine

 

 

Note Autore:

Cari Lettori,

Anzitutto, come sempre, grazie per essere arrivati fino a qui: spero tanto che la storia vi sia piaciuta! Il prompt che me l’ha fatta sviluppare è stato dato dal Contest “Vizi capitali”, indetto da Ghostmaker sul forum di Efp: quando ho letto il pacchetto Avarizia, o più precisamente l'etimologia latina "avaritia", anziché l'avarizia nella sua accezione moderna; (cupidigia, avidità, costante senso di insoddisfazione per ciò che si ha già e bisogno sfrenato di ottenere sempre di più) … Beh, non ho potuto fare a meno di pensare a Loki. In verità c’erano molti altri peccati capitali che lo riguardavano, ma il suo essere costantemente affamato è un canone che risente anche di certe scelte fatte da Branagh per il primo Thor: come forse molti sapranno, Hiddleston si presentò per il ruolo del dio del tuono e venne scelto, invece, per Loki, ma gli fu chiesto di perdere parecchio peso per dare l’idea di un personaggio affamato.

Tale interpretazione è supportata dall’iconica e da me moltissimo amata battuta che Loki pronuncia in The Dark World, citata in apertura della shot.

L’elemento che ho legato al pacchetto è quello sovrannaturale. Loki, qui, è qualcosa a metà strada tra il fantasma e il demone – e cosa c’è di più sovrannaturale di un dio vichingo che ti appare in un sogno/non sogno? Possiede la mente di Sophie/Sigyn, perché desidera avere anche lei – è troppo avido per rinunciarvi e lei, alla fine, sceglie di liberare Loki – o almeno così crede – perché non saziarsi delle storie che le racconta. Il legame tra i due esiste, ma non è di tipo romantico. Piuttosto, in questo specifico caso, volevo esprimere un’attrazione prevalentemente fisica e mentale, un rapporto che è il raggiro e la possessione di uno spirito divino nei confronti di una mortale che racchiude una scintilla di divinità.

Nelle mie storie propongo sempre la grande storia d’amore tra questi due personaggi, ma avevo bisogno di scandagliare zone più oscure del loro rapporto. E niente, lo spiegone è finito, tutto il resto è nelle note.

Come al solito, se la storia vi è piaciuta e lo desiderate, potete inserirla nelle liste: farete felice un’Autrice – e lo stesso vale per i graditissimi commenti ♥.

 

Shilyss

 



[1] Altro nome con cui è noto Odino.

[2] Qui, come altrove, chiamo il popolo di Asgard col suo nome mitologico, declinato in Ase/Æsir.

[3] Le teorie sull’isteria pronunciate da Sigyn in questo capitolo non sono quelle attuali (nel 1982 questo disturbo fu depennato dai manuali), ma è coeva con l’ambientazione della storia.

[4] Sigmund Freud pubblicò il celebre L’interpretazione dei sogni nel 1899 e Introduzione alla psicoanalisi nel 1917.

[5] Nelle scene in cui Loki è seduto sul trono di Asgard è sempre scomposto: si tratta di precise scelte sceniche volte a ricordare la copertina di un noto comic Marvel che presentava, appunto, il dio dell’inganno seduto sul trono di Odino.

[6] Questo ottimismo di Loki ricalca una battuta di Infinity War, sic.

[7] Gungnir.

[8] Loki si riferisce, chiaramente, al Ragnarok, descritto nella profezia della Voluspa. Secondo la stessa, un giorno Loki si libererà da un supplizio eterno – alleviato da Sigyn – e contribuirà alla distruzione di Asgard. Per il mito, vi rimando alla mia “Fino alla fine del tempo.”

[9] Bor è il padre di Odino, Ymir il gigante da cui tutto ebbe inizio secondo la cosmogonia scaldica.

[10] Quando Odino si manifesta su Midgard, appare come un mendicante con un cappello floscio in testa.

   
 
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