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Autore: yonoi    21/05/2019    7 recensioni
Una notte limpida al largo delle coste dell’Indonesia. Il primo sole di giugno sui lidi della Riviera Romagnola, tra il delta del Po, le orchestrine che suonano il liscio, le antichità vendute da una casa d’aste. Un messaggio di SOS, una leggenda di marinai e la misteriosa passeggera di una nave che forse non è naufragata del tutto.
Prima classificata al contest "Vizi capitali" indetto da Ghostmaker sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ultima passeggera della Ourang Medan
 

 
1. Tutti morti, io tra breve
 

Oceano Indiano al largo dello stretto di Malacca, Indonesia, una notte del mese di giugno 1947

Sul ponte illuminato da un quarto di luna aguzzo e da costellazioni perfettamente geometriche, si udivano soltanto il brusio del motore e qualche scricchiolio di beccheggio dello scafo.
L’operatore radio Kereny aveva abbandonato la sua postazione il tempo sufficiente per una sigaretta. Il silenzio possedeva la stessa qualità delle onde: recava sulle labbra il bruciore della salsedine poi alleviava il dolore col vento della notte, che sollevava increspature nel mare aperto.
La brezza evocava il tepore di spiagge lontane, l’aroma piccante della curcuma e del curry insieme agli ultimi tramestii di stoviglie dalla cucina.
Una volta spenta la cicca, Kereny si concesse una passeggiata per sgranchirsi le gambe.
Sul ponte si rincorrevano folate di aria fresca, a ovest persisteva una striscia cobalto rimasta dal tramonto. Da angoli più riposti salivano zaffate dense di putridume: anche quello era il mare, tonico e nauseante, uno spazio verticale dentro a cui si muovevano praterie di alghe verdi e carovane assorte di pesci, sottili come aghi o tondi come bolle di vetro colorato.
L’acqua era il loro cielo.
A quell’ora, la superficie di quel mondo sommerso era una pellicola sigillata dal buio.
Il movimento sempre uguale delle onde, su cui si posavano pennellate di luce dalle poche cabine ancora illuminate, conciliava la distensione e il riposo. Spinto sottocoperta dall’umido che iniziava a pungere le ossa, Kereny si allungò sulla sdraio che conservava in un angolo della sua postazione per i rari momenti di quiete. Si sarebbe lasciato cullare dal rollio della Silver Star e dalla dilatazione del vecchio tavolo, che a intervalli scrocchiava le giunture di legno disperdendo il calore soffocante del giorno.
Per precazione acquisita in anni di esperienza, tenne la cuffia alle orecchie.                                
Sopra di lui il ronzio del ventilatore, le pale si muovevano a nuoto nell’aria viziata.
Non appena posò il capo sul guanciale lucidato da intere generazioni di marconisti, sprofondò a capofitto in un sonno remoto. Per un tempo che non riuscì a misurare, si ritrovò a vagare negli abissi senza suono del grande Oceano Indiano, tra boschetti di anemoni e alberature di antichi velieri, banchi di pesci che guizzavano tra le sartie coperte da conchiglie e festoni di alghe.
Poco più in là un cavalluccio marino, la coda attorcigliata a un ramo di corallo, lo fissava con occhi sgranati e circospetti.
Durò solo un istante.
Riemerse di soprassalto nel momento in cui l’apparecchio cominciò a segnalare in codice Morse: SOS - tre punti, tre linee, di nuovo tre punti. SOS di nuovo, scandito con la stessa inesorabile precisione.
Dopo qualche minuto, il messaggio integrale: SOS DE OURANG MEDAN 256472330 GMT COMANDANTE EQUIPAGGIO DECEDUTI NO SUPERSTITI AIUTO. Il segnale cadde in uno sciame di interferenze. Poco dopo, riprese: SOS DE OURANG MEDAN 256470 GMT TUTTI MORTI IO TRA BREVE.
Kereny restò in ascolto, perplesso. Poi rovesciò la sdraio, il fornellino e la caffettiera, tutte le carte intorno nel raggio di un metro, infilò il corridoio e in un attimo era nella cabina di comando. Pochi minuti dopo, il capitano esaminava la trascrizione di quel messaggio che continuava a crepitare febbrile sull’etere. “Ricevuto la prima volta alle ventitré e trentadue minuti precisi.” Kereny consultò rapido l’orologio: “Circa mezz’ora fa. Mancano le coordinate di riferimento.”
Un altro crepitio e l’apparecchio si rimise in moto. Una lunga sequenza di punti, linee, punti.
Kereny riferì al comandante: “Altre due postazioni hanno recepito il messaggio, una a terra e una a bordo della City of Baltimora. Ci forniscono dati sulla possibile posizione. Nessuno ha ancora inviato il segnale di ricevuto.”
Il capitano osservò il triangolo approssimativo che Kereny aveva abbozzato su una vecchia carta nautica, stampigliata in più punti da macchie circolari di tazze da caffè. 
“Stando alle coordinate, non dovremmo essere distanti. La autorizzo a procedere.”
L’operatore radio si affrettò a inviare la notifica di conferma. Tre punti, tre linee, tre punti. SOS SILVER STAR 2574703 GMT 0.1 NORTH 102.2 EAST VELOCITA' 12 NODI RAGGIUNGEREMO POSIZIONE TRA 2 ORE CIRCA = COMANDANTE.
“Tutti morti… possibile?”
Kereny restò in attesa di qualche altro segnale, quindi inviò un ulteriore messaggio, SI CHIEDE AGGIORNAMENTO, ma non ebbe risposta. D’un tratto, nella cabina era calata una coltre irrespirabile, dentro a cui milioni di moscerini vorticavano come pazzi. Un odore di marcio saliva dai piani sottostanti. Qualcosa dev’essere andato a male in cambusa, pensò Kereny continuando a tenersi in ascolto. Dall’altra parte provenivano soltanto crepitii, poi il silenzio totale.
Restò immobile a lungo, inchiodato alla postazione come se il suo sconosciuto interlocutore dovesse saltar fuori da un momento all’altro, in carne e ossa dai meandri dell’apparecchio. L’unico rumore era il ronzio delle pale che nuotavano in tondo, lo scrocchio impercettibile delle dita che Kereny si stirava a una a una quand’era nervoso.
Di lì a poco, sul ponte, uno strano fenomeno si mostrò agli occhi del capitano e dell’intero equipaggio, che cominciava a radunarsi alla spicciolata: l’orizzonte era pervaso da un’insolita luminescenza, un bagliore di fiamme che ardevano senza fumo e spandevano sull’acqua un’aureola fredda e azzurrognola.
“Forse si tratta di uno spandimento di combustibile,” disse qualcuno. “O di qualche altra diavoleria del genere. Roba tossica, di sicuro.”
“Non lo sappiamo ancora,” temporeggiò il capitano. “Ma è là che siamo diretti. Presto lo scopriremo.”
Quando arrivarono in vista della Ourang Medan, ebbero l’impressione di entrare in uno spazio relegato fuori del tempo e della ragione. Quella fosforescenza spettrale si era dissolta e restavano brevi spirali di foschia appesi alle sartie. In corrispondenza dell’albero maestro e del cratere del fumaiolo, altri cenci bluastri ardevano senza rumore.
 “È il fuoco dei corpusants”, osservò uno dei marinai, sconcertato. “Di solito compaiono prima dei temporali, e solo col clima secco. Non ne avevo mai visti da queste parti.”
“Dovrebbero durare soltanto pochi attimi,” precisò un altro. “Strano. Non siamo neppure nel periodo del monsone.”
Ovunque era un silenzio che si sarebbe potuto tagliare col coltello, di una qualità che non era quiete ma assenza. Mentre la Silver Star iniziava le manovre di accostamento, gli uomini della ciurma si sentirono avvolgere da una rete vischiosa e opprimente di angoscia.
Il ponte era deserto e l’intera struttura pareva alla deriva, consegnata da anni agli assalti delle intemperie. La murata era percorsa da colature di origine ignota e in certi punti appariva addirittura lo scheletro del fasciame. Persino l’oceano pareva rifuggire da quel monumento eretto alla dimenticanza. Il mare intorno era immobile: non potendo andarsene altrove, le onde si limitavano a lambire lo scafo come fosse incagliato in uno stagno di acque morte.
Il capitano cominciò a dubitare che la richiesta di soccorso fosse partita proprio da quel relitto ormai prossimo a colare a picco. Simili incontri lungo la rotte non erano infrequenti: in genere, si trattava di navi utilizzate per attività di contrabbando che a un certo punto venivano abbandonate nel mare aperto. Lui stesso ne aveva avvistate più d’una: molto probabilmente, la Ourang Medan aveva condiviso quello stesso destino di naufragio prematuro. Ma al di là di ogni logica spiegazione, quel naviglio suscitava un’indefinibile inquietudine.
“Le coordinate erano queste,” osservò Kereny. “La chiamata proveniva da qui. Qualcuno deve pur esserci.”
Una breve perlustrazione del ponte e dei locali sottocoperta portò anzitutto a scartare l’ipotesi di un totale abbandono da parte dell’equipaggio: sparsi qua e là in atteggiamenti scomposti, furono rinvenuti decine di corpi con le braccia levate nel tentativo di difendersi da qualcosa o qualcuno, sui volti un’espressione di terrore assoluto. Nessuno dei cadaveri presentava lesioni, né segni di violenza: c’erano solo quei volti con la pelle tirata come fossero stati svuotati dall’interno, gli occhi fissi nell’incubo di una visione che non era dato conoscere.
Nella sala di trasmissione l’operatore sedeva davanti all’apparecchio, il capo abbandonato tra le braccia e sul tavolo, la cuffia ancora posizionata sulle orecchie. Il volto conservava l’identica espressione di panico degli altri, un dito era posato sul tasto dell’apparecchio. Quando lo mossero, il corpo rilasciò un breve sospiro gassoso: pareva privo di peso, un involucro risucchiato senza più nulla all’interno.
 “È assurdo,” mormorò Kereny stupefatto. “Questo tizio ha chiamato solo poche ore fa.”
“Non dica sciocchezze,” s’impuntò il capitano. “È evidente che qualcuno ci ha anticipato, e siccome questo qualcuno non aveva nessuna intenzione di immischiarsi, ha lanciato l’SOS da un’altra imbarcazione. Così adesso la rogna è tutta nostra.”
Kereny non era convinto: “In realtà i messaggi pervenuti erano due. Il secondo si direbbe scritto proprio dal radiotelegrafista. Tutti morti, io tra breve.”
“Tutti morti, per l’appunto. Dubito che l’amico, qui, sia stato in grado di trasmettere qualcosa. Forse se n’è andato anche prima degli altri,” insistette il capitano, strisciando un dito sulla muffa lattiginosa che copriva ogni angolo della stazione radio. “Chissà cos’è questa roba. Voialtri,” s’indirizzò al resto dell’equipaggio che si aggirava ancora sul ponte, in preda allo stordimento. “Procedete al rimorchio. Porteremo questo rottame al porto più vicino e speriamo che almeno ci rimborsino le spese.”
I marinai avevano appena iniziato le operazioni quando una colonna di fumo scaturì da una stiva e cominciò a salire in volute che si accalcavano l’una sull’altra. Fecero appena in tempo a sciogliere i cavi di traino e a tornare sulla scialuppa che oscillava tra i flutti, preda di un mare agitato senza un alito di vento.
In breve, il cielo divenne una cupola oscura. Solo l’Ourang Medan continuava a risplendere, avvolta da una luce irreale come se a bordo fossero accese tutte le lampade e fosse in corso una festa danzante. I lampi dei corpusants sollevavano una tempesta elettrica azzurra e verde.
Di tutti gli incubi che continuarono a perseguitarlo finché visse, tornando a dispiegare dinanzi ai suoi occhi gli incredibili fatti di quella notte, il più angoscioso per Kereny restò sempre quel silenzio di piombo, la calma surreale che in quell’istante avvolgeva ogni cosa: la scialuppa che si barcamenava tra le onde, la Silver Star che azionava i motori, alle loro spalle il relitto rischiarato da quel tetro fulgore.
Mentre ancora si trovava sulla scialuppa e gli altri dell’equipaggio affollavano la scaletta, Kereny si era voltato a contemplare una volta di più quello scenario assurdo. Fu in quel momento che gli sembrò d’intravedere una sagoma sul ponte illuminato a giorno della Ourang Medan.
“Kereny, che fa, ha le visioni?” l’aveva richiamato all’ordine il capitano, “Si sbrighi a tornare a bordo, maledetto imbecille!”  
“C’è qualcuno, laggiù!” aveva gridato a quel punto l’operatore, sbracciandosi inutilmente mentre sulla Silver Star erano già in corso le manovre per allontanarsi a tutta forza.
Una volta in coperta, Kereny tornò a guardare verso quella colonna di fumo silenzioso e di nuovo gli parve di scorgere una figura appoggiata alla balaustra. Malgrado la distanza, riuscì a distinguere persino l’espressione sul volto della misteriosa apparizione, che era di rabbia ma anche di una tristezza talmente struggente che non riuscì mai più a dimenticarla.
“È una donna!” gridò, non appena ne ebbe la certezza. “C’è una donna sul ponte!”
Nessuno gli diede retta, perché l’intero equipaggio restò paralizzato di fronte a uno spettacolo prodigioso: completamente avvolto dalla caligine dell’incendio e al contempo risplendente per i fuochi dei corpusants, il cargo Ourang Medan esplose con una tale violenza da levarsi e mostrare la chiglia per intero, costellata da minute incrostazioni madreperlacee. Su quel barlume iridescente ricadde, inabissandosi e scomparendo per sempre. Sul pelo dell’acqua non restò a galleggiare neppure il più minuto brandello, non un solo frammento di legno.
“Cos’è che hai visto?” Solo dopo molto tempo uno dei marinai si avvicinò a Kereny, che continuava a fissare il punto del naufragio senza riuscire a distogliere lo sguardo.
“C’era una donna, laggiù, sulla nave,” mormorò Kereny, stranito.
“Andiamo, amico,” il marinaio gli posò una mano sulla spalla. “Lo hai visto anche tu. Erano tutti morti, chissà come e perché. Molto probabilmente, non lo sapremo mai.”
Il mare continuò a ribollire a lungo, crepitando sulle ultime vestigia della Ourang Medan. Quando la Silver Star si trovava già a molte miglia di distanza, furono in molti a scorgere, all’orizzonte, le ultime spirali di quella fosforescenza che lentamente si dissolveva nel buio. 
 
 

Porto Garibaldi, lidi di Comacchio, primi di giugno 2018 
 

Da quando aveva smarrito la piccola chiave, il suo modo per recuperare la posta dalla cassetta consisteva nell’infilarci dentro la mano e grattar fuori buste e dépliant con la punta delle dita. Anche quel giorno, grandi novità non ce n’erano: un volantino della nuova discoteca Il Mandrillo, tre piste con musica rock, anni ’70 e orchestrina I Gatti di Romagna, due lettere di rifiuto da parte degli editori a cui s’intestardiva a inviare i suoi manoscritti, un’altra busta contrassegnata da una calligrafia talmente scombinata che i casi erano due: o uno di quei gatti aveva lottato fino all’ultimo con una boccetta d’inchiostro, oppure si trattava della scrittura del Mortacci.
Delle due lettere, soliti prestampati ai quali veniva aggiunto per l’occasione il suo nome, conosceva già il contenuto: “Gentile sig. …na Benedetta Valentini, siamo spiacenti di comunicare che l’opera inviata non presenta i requisiti richiesti dalla nostra linea editoriale. Cordiali saluti.” A seguire la firma, rigorosamente fotocopiata, del consulente di turno. 
 L’apertura dell’altrettanto prevedibile missiva del Mortacci, contenuta in una busta intestata alla casa d’aste Opere eterne - nome che, a parere di Benedetta, sarebbe stato più adatto a una ditta di pompe funebri - fu preceduto dalla puntuale chiamata del mittente. Un chicchirichì esuberante, seguito da un canto di gallo sincopato su note rock, cominciò a strimpellare in qualche angolo della borsa e fece in tempo a suonare due volte e per intero prima che Benedetta, annaspando tra portafoglio, chiavi e una miriade di altre cose, riuscisse finalmente ad agguantare il cellulare.
“Allora, che ne pensi?” la voce del Mortacci andava e veniva assieme alla brezza del lungomare. Malgrado il nome funereo, le Opere eterne non sorgevano accanto al cimitero ma tra le bancarelle di canotti e solari sul viale principale, tra pini marittimi, profumo di piadina e l’acciottolio degli zoccoli dei primi turisti. “Domani ci sarai?”
“Domani ci sarò dove?” In quel momento, Benedetta Valentini era occupata a rincorrere un paio di mele che avevano approfittato della sua ricerca affannosa nei meandri della borsa per scappar fuori dalle sporte del supermarket e andarsene a zonzo sul marciapiedi.
“Non hai letto il dépliant che ti ho cortesemente inviato? Gita sul delta del Po, motonave Gabbianella, partenza domani alle tredici in punto dal porto canale. Presentazione di pregevoli oggetti d’arte a cura del sottoscritto, ovviamente col supporto della mia ineffabile traduttrice nonché esperta di antichità cinesi.”   
“Finirai in galera, prima o poi,” brontolò l’ineffabile traduttrice, lasciandosi sfuggire due pomodori che avevano voglia di vedere un po’ di mondo, ma essendo nati in serra e quindi impreparati, finirono per spiaccicarsi sul selciato. Una scatoletta di tonno, che evidentemente confidava nella propria maggior robustezza, ruzzolò così lontano che Benedetta rinunciò a inseguirla. “Lo sanno tutti che le tue stampe cinesi le disegna il maestro Canello.”
“Non dirlo neanche per scherzo!” il cellulare vibrò tutta l’indignazione del Mortacci punto sul vivo. “Stavolta, abbiamo solo opere autentiche. Roba che viene da Pechino, Canton e da Sumatra.”
“Sumatra è in Cina, secondo te?”
“Comunque, è da quelle parti. A bordo avremo dei clienti americani, gente coi soldi, mica i soliti burini di ferragosto.”
“A ferragosto mancano più di due mesi.” Benedetta ricordava perfettamente quell’incresciosa serata alla casa d’aste in cui una comitiva di romani aveva commentato i quadri in esposizione, una serie di paesaggi opera del multiforme maestro Canello, con chiarezza risolutiva: “Mortacci, che croste!” 
Quel nomignolo era rimasto appiccicato addosso a Maurizio Ballarini, di professione antiquario e di fatto addetto allo sgombero di cantine e solai: gli calzava ancor meglio di quello di Balla, coniato dagli amici con cui si dedicava, con molte aspettative ma senza troppo successo, a pescare anguille nel Delta.
“Allora, siamo d’accordo?” Il Mortacci sfoderò il tono da imbonitore che usava per convincere i clienti più diffidenti. “Ti aspetto domani a mezzogiorno per mostrarti la merce, così ti fai un’idea. Vestiti da cinese, mi raccomando,” aggiunse, come se un adeguato travestimento potesse trasformare Benedetta Valentini, fisico largo da piada, cadenza romagnola e colorito stracchino e rucola, in un marchio di autenticità incontrovertibile.
“Aspetta un po’, amico. In cambio voglio uno spazio per presentare i miei haiku.”
“Il programma sarebbe già completo,” esitò all’altro capo il Mortacci. “Ma vedrò di riservarti cinque minuti tra la grigliata di pesce e i balli con l’orchestrina I Gatti di Romagna. Ovviamente, prima ci sarà l’asta. Non vorrei che i miei potenziali clienti si buttassero a mare dopo avere sentito le tue poesie cimiteriali.”
“Sei il solito ignorante,” protestò Benedetta. “Eppure sai che tratto la morte con ironia.”
“Su questo non c’è dubbio, ma sai com’è la gente. Preferiscono tutti morire senza saperlo. Mi raccomando il kimono, possibilmente con spacco inguinale per tenere i clienti sul pezzo.”  
Il pomeriggio seguente, strizzata in un abitino rimediato dai cinesi sotto casa, infradito di gomma e tacchi nella borsa, Benedetta raggiunse il porto canale e per un breve istante meditò se era il caso di dar buca all’amico. Sul lungomare, la bicicletta filava appesa a un filo di vento. Qualche canzonetta proveniva remota dai bagni appena aperti, con gli ombrelloni in fila e la pace totale che impigriva sulle sdraio. Uno stormo di gabbiani era appisolato sul pelo dell’acqua e la spiaggia era una grossa conchiglia appoggiata all’orecchio, che portava lo sciabordio della risacca e scricchiolii di passi sulle conchiglie della battigia.
La bici crepitava sui granelli di sabbia che arrivavano fin sull’asfalto, portati dalla brezza insieme al desiderio di piantare tutto e tuffarsi. All’attracco nel porto, la motonave Gabbianella era assopita nella calura, stretta tra pescherecci con le reti ad asciugare e bagnarole abbandonate da anni. Le barche oscillavano a piccoli scossoni, come quando si sogna. La nostalgia del mare dove correre liberi faceva cigolare i nodi delle gomene.
Unico segno di vita in quell’atmosfera soporifera, il Mortacci che si sbracciava dalla ringhiera:
“È un’ora che ti aspetto!” picchiettò sull’orologio, “dai, che tra poco si parte!”
“Sei avanti, caro mio.” Quasi a nuoto nell’afa, Benedetta trafficava per legare la bici a un relitto di pino pelato dalla salsedine. Un dondolio di campane giungeva a intervalli, dalla chiesa nascosta tra le alberature del molo, ispirando un senso di malinconia profonda. Benedetta alzò un dito: “Lo senti? È mezzogiorno adesso.”
“Sbrigati che devo presentarti gli articoli,” sollecitò il Mortacci, sfregandosi le mani. “Gli americani sono già a bordo, urge essere pronti.”
“Dov’è tutta questa urgenza? Io non vedo nessuno.”
“Sono di sotto, al cocktail di benvenuto. Vieni a vedere l’esposizione.”
Sul piccolo palco allestito con microfono e locandina dell’Opera eterna, c’erano i soliti paesaggi con dame in abito bianco e ombrellino, acqueforti di barche su onde d’inchiostro, pesci pagliaccio in vetro soffiato e grandezza a scalare, dal più piccolo al più grande.
“Quei pesci li avrò visti in almeno una decina di aste,” osservò Benedetta. “Non riesci proprio a piazzarli, vero?”
Gli articoli orientali erano radunati a parte: fragili motivi ornamentali su carta di riso, paesaggi idilliaci di montagne e laghetti, statuette del Buddha che ride.
“Tutto qui? Ho visto di meglio al ristorante cinese dietro casa.”
L’unico articolo che pareva discostarsi da quel cumulo di banalità era uno schizzo di fattura grossolana che ritraeva una figura femminile appoggiata alla balaustra di una nave in tempesta. Il disegno era tracciato da una mano che, evidentemente, possedeva una scarsa confidenza con le tecniche di pittura. La sagoma della nave era un semplice abbozzo, lo sfondo reso a tratti decisi e frettolosi, come se l’intenzione dell’anonimo autore non fosse quella di presentare un’opera finita quanto fissare un ricordo, l’immagine di un sogno.
Perlomeno, quella fu l’impressione che ne ritrasse Benedetta, insieme a un inspiegabile turbamento. Ciò che era dipinto con assoluta precisione era il volto della donna: di età indefinita, attraeva l’osservatore per la malinconia dello sguardo e l’espressione assorta, in perfetto contrasto col fumo che la circondava da ogni parte e il naufragio che s’intuiva imminente.
A osservarla più a lungo emergeva la rabbia, vigorosa e possente, che si celava in quei grandi occhi a mandorla.
L’ultima passeggera dell’Ourang Medan,” sussurrò il Mortacci alle spalle di Benedetta, facendola sobbalzare. “Quello sarà il pezzo forte della giornata.”
Pur trovandosi sotto al sole a picco di mezzogiorno, Benedetta avvertì un brivido di freddo.
“È una lunga storia, con cui intendo stupire i nostri clienti, che ovviamente faranno a botte per aggiudicarsela,” precisò il Mortacci, sornione. “A te dico soltanto che questo misterioso personaggio è stato avvistato più volte dopo il naufragio della Ourang Medan: una prima volta nello stretto di Malacca, dove avvenne il fattaccio,” Mortacci diede una scorsa a una cartella di appunti disordinati, “in seguito in Indonesia e nel mar del Giappone. Praticamente, in Cina o giù di lì.”
“Chi è l’autore del quadro?” domandò Benedetta, che non riusciva a distogliere lo sguardo dalla donna alla balaustra. Più la osservava e più le pareva di cogliere, sotto alla rabbia, un infinito dolore.
“Si dice che tutte le navi che hanno avuto la sventura di imbattersi nella passeggera siano affondate per una ragione o per l’altra”, continuò il Mortacci, soprappensiero. “Probabilmente si tratta delle solite leggende di marinai, ogni tanto ne salta fuori una nuova. L’autore del dipinto pare sia stato l’unico a vedere la passeggera quando l’Ourang Medan è praticamente esplosa davanti ai suoi occhi.”
“Esplosa? Come sarebbe a dire?”  
“L’Ourang Medan era una nave da carico, c’è chi dice che trasportasse materiali clandestini, secondo alcuni addirittura armi chimiche, roba che salta in aria soltanto a guardarla. Comunque non è mia intenzione mettere strane pulci nelle orecchie dei clienti, né tanto meno raccontare vicende di naufragi,” tagliò corto il Mortacci. “Non hai idea di quanto siano superstiziosi gli yankees, peggio delle vecchiette giù al paese dei miei.”

 
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L’asta era iniziata da poco quando il cielo decise di far notte in anticipo. All’orizzonte di poppa cominciarono ad addensarsi banchi di nuvole livide e basse, che faticavano a levarsi per quanto erano gonfie di pioggia. Un vento gelido s’intrufolò tra i garretti dei presenti, frustando l’orlo ai calzoni delle signore americane e scompigliando permanenti color lilla, insinuandosi sotto al palco per poi cacciar fuori versi da far accapponare la pelle. I Gatti di Romagna, fino a quel momento acciambellati in attesa di prendere posto sulla pedana, avevano già iniziato a riporre sottocoperta strumenti, amplificatori e cavi elettrici.
In cilindro e marsina, abbarbicato al microfono e intenzionato a battere il ferro finché era caldo, il Mortacci proseguiva nella presentazione dei suoi articoli esclusivi. Fino a quel momento, l’asta aveva sortito risultati insperati. Era riuscito persino a piazzare quei pesci che gli stavano sulla groppa da almeno un anno e mezzo, da quando sua zia al paese aveva deciso di liberare la cantina e glieli aveva generosamente appioppati: “Sono talmente orrendi che alle Opere eterne faranno un figurone.”
Era giunto il momento di esibire il dipinto dell’ultima passeggera dell’Ourang Medan. Volteggiando il cilindro per catturare l’attenzione dei presenti, Mortacci lo presentò come un pregiato inchiostro di china proveniente dalla remota isola di Sumatra: “Un’opera unica che ritrae una figura mitica della tradizione giapponese: l’onryō o spirito del castigo. Secondo le credenze di quel lontano paese, si tratterebbe di un’anima che ritorna tra i vivi per vendicarsi di un torto subito. Ma voi state tranquilli,” sghignazzò mentre il vento aumentava d’intensità e già iniziavano a cadere le prime gocce, “come vi ho detto, si tratta semplicemente di una leggenda.” 
“Non ti sembra il caso di interrompere prima che il temporale si porti via baracca, burattini e clienti?” Dopo avere tradotto le parole del Mortacci in termini più professionali e meno adatti a una sagra paesana, Benedetta posò la mano sul microfono e sussurrò al collega: “Poi, cos’è questa storia dello spettro vendicatore? In quale manga l’hai letto?”
“Semplice frutto delle mie ricerche sul campo.” Mortacci girò un’occhiata da periscopio sulla platea, dove i clienti confabulavano tra loro. Molto probabilmente, si stavano domandando se Sumatra era in Giappone. “La storia del fantasma la racconta lo stesso autore del dipinto, un certo Kerry o Kerly, la firma è piuttosto incerta. Ha scritto un resoconto che parla della vicenda. E adesso vedi di non rovinarmi il pathos. I clienti sono dubbiosi, occorre dare gas.” Alzò di nuovo la voce: “Allora, signori, chi offre duemila? Duemila euro per questo pezzo unico, il paese del Sol Levante nel vostro salotto anche in comode rate mensili! Duemila euro, non si scende al di sotto perché sarebbe un insulto!”
Un tizio col berretto da marinaio in ultima fila gridò qualcosa, suscitando un’ondata di sghignazzi nel gruppo dei suoi compari. Gli americani si voltarono tutti insieme a guardarlo, per poi girarsi nuovamente in attesa di una traduzione simultanea.
“Duemila per quella schifezza? Ma li mortacci tua!”
“Evita di tradurre, per cortesia,” si rabbuiò il Mortacci. “Ma quelli non dovevano arrivare solo per ferragosto?”
“Qualcuno avrà avuto le ferie in anticipo,” osservò Benedetta. Fece appena in tempo a dirlo, prima che una raffica si avventasse rovesciando il microfono e a momenti anche il banditore. Il cappello a cilindro del Mortacci volò chissà dove, le pieghe in finto velluto del palco cominciarono a sussultare e a impennarsi, le mercanzie volarono in un fortunale di cornici spezzate e vetri rotti. I pesci già venduti esplosero sotto agli occhi esterrefatti del Mortacci. Fu l’unico a notarlo perché l’intera platea, compresa Benedetta, era completamente assorbita dallo spettacolo di una colonna di fumo che saliva, molto probabilmente, dal vano motori della Gabbianella.   
Per un lunghissimo istante non si udì volare una mosca né un filo di vento, a parte il crepitio in cui si torcevano quelle volute nere, che salivano a confondersi con nubi talmente basse da poterle toccare. In piedi tra le seggiole discoste o rovesciate, le clienti in calzoni e foulard prontamente estratto per proteggere i ricci dal vento, erano congelate come se il tempo si fosse fermato. Il berretto da marinaio aveva perso improvvisamente tutta la voglia di ridere.
Quando dalla sala di comando partì la sirena d’allarme e l’equipaggio raggiunse il ponte per calare le scialuppe, si scatenò il finimondo. Il gruppo dei romani e l’orchestra dei Gatti si accalcavano cacciando indietro le americane, quelli dell’equipaggio li respingevano a loro volta, attenendosi all’ordine di dare la precedenza a donne, vecchi e bambini.
Bambini non ce n’erano, in compenso dal nulla si fece avanti il maestro Canello, un vecchietto azzimato con basco da pittore, baffetti e papillon: con un balzo incredibile data l’età approssimativa ben oltre i settant’anni, fu sul palco in un attimo, recuperò in una sola bracciata i paesaggi impressionisti con ombrellino, le acqueforti di barchette al tramonto e infine il Mortacci con una manata ben assestata sulla coppa.
Agli effetti sonori provvide Benedetta, che riuscì a tirar fuori un tono persino più perforante della sirena: “Svegliati, deficiente!” urlò, rimbalzando dal padiglione direttamente in fondo al timpano del Mortacci, “raccatta quello che puoi e andiamocene!”
Fu a quel punto che, per il contraccolpo o di propria iniziativa, il palco crollò su se stesso, con uno schiocco secco seguito dall’afflosciarsi dei paludamenti in finto velluto. Benedetta raccattò il cilindro del Mortacci, che il vento rimpallava qua e là lungo il ponte. Afferrò il dipinto dell’ultima passeggera e si affrettò a raggiungere il maestro Canello, che trascinava a sua volta il Mortacci verso l’ultima scialuppa disponibile.
Fece appena in tempo a scorgere, avvolti attorno alle sartie e all’albero maestro, brandelli di uno strano vapore azzurrognolo che si torceva lento, levando verso l’alto fiammelle come di candele. Immobili malgrado il vento temporalesco, rischiaravano il cielo di una livida fosforescenza.
 

 
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La Gabbianella andò avanti a bruciare fino al pomeriggio inoltrato, malgrado la pioggia scrosciante, i tentativi dell’equipaggio di spegnere l’incendio e i soccorsi inviati dalla Capitaneria di porto. Dal canneto limaccioso dove erano riusciti fortunosamente ad attraccare, i passeggeri assistettero al tracollo della vecchia motonave, che da più di vent’anni accompagnava i turisti a fotografare gli aironi cinerini del Delta e a ballare il liscio tra spiedini di pesce, allegri festoni di luminarie natalizie e sciami di zanzare da prendere a schiaffoni sul collo e sulle cosce.
“Io te l’avevo detto che quella cosa era maledetta,” brontolò il maestro Canello, rompendo il silenzio. “Ti avevo pur detto di lasciarla dov’era, ma ai vecchi marinai nessuno dà retta.”
Meno che mai in quel momento il Mortacci era in grado di tener dietro ai rimbrotti dell’anziano pittore, nonché, a quanto si sapeva, ex lupo di mare. Impalato col cilindro poggiato sulla pancetta, aveva l’aria di un becchino sull’orlo della fossa. Dall’espressione stordita che gli si leggeva in faccia, si capiva chiaramente che quella fossa era la sua.  
“Andiamo, Maurizio,” si fece avanti Benedetta, “abbiamo salvato praticamente tutta la merce, a parte quei famosi tre pesci.”
“Se penso che proprio adesso ero riuscito a piazzarli come Murano originali per cinquanta euro non uno di meno,” soffiò il Mortacci, a mo’ di ultimo respiro.
“Ti è andata ancora bene, visto che il certificato di autenticità non ce l’avevi,” intervenne nuovamente il Canello. “E soprattutto, adesso quel dipinto infernale è finito sul rogo e quello è il suo posto. Oppure sarà in acqua a portare iella alle sogliole. Avrei dovuto disfarmene io stesso già da tempo,” aggiunse, soprappensiero. Appioppò un’altra manata sulla coppa al Mortacci: “Allegro, giovanotto! Hai fatto l’affare migliore della tua vita e ancora non te ne rendi conto.”
Terminata la burrasca e con l’incendio ormai sotto controllo, le scialuppe ripartirono alla chetichella. Benedetta salì a bordo stringendo a sé la borsa di pezza, che aveva assunto una strana forma rettangolare.

 
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