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Autore: crazy lion    27/05/2019    5 recensioni
In un tiepido pomeriggio di maggio, la mosca Arabella incontra il gatto Bizet. Spaventata, la prima cosa che pensa è che la sua fine sia vicina; ma non sa ancora che il micio avrà una reazione sorprendente e inaspettata. Una storia che, pur nella sua semplicità, racconta l'incontro tra specie diverse che, forse, può trasformarsi in qualcosa di più.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti, cari lettori!
In attesa di finire il capitolo della mia longfic (mi scuso tantissimo con i lettori ma sono stata ammalata e poi ho avuto altri problemi di salute che mi hanno impedito di scrivere), ecco un racconto originale per un corso di scrittura creativa che sto frequentando. Vi partecipano sedici tra non vedenti e ipovedenti tra cui io, che sono cieca assoluta, e abbiamo come insegnante uno scrittore. Ci ha chiesto di scrivere una storia sul pomeriggio di una mosca e questo è il mio risultato. Dato che lui l’ha già valutato e che si tratta di un mio testo con cui posso fare ciò che voglio, ho deciso di postarlo qui.
Ci tengo a sottolineare che ho un po' umanizzato la protagonista per descrivere bene i suoi sentimenti e farla parlare. Capisco che questo non possa piacere a tutti o che possa turbare alcuni, infatti l'ho scritto proprio per avvisare nel caso qualcuno non se la sentisse di leggere.
Mi sono documentata sulle mosche prima di scrivere, ho fatto del mio meglio. Spero di essere stata il più accurata possibile.
 
 
 
 
 
 
IL POMERIGGIO DI UNA MOSCA INFELICE
 
Era un tiepido pomeriggio di maggio e la primavera rigogliosa sembrava aver ridato, ormai da qualche mese, vita alla natura e agli animali. Piante e fiori nascevano e sbocciavano facendosi ogni giorno più forti e lo stesso valeva per i cuccioli di molte specie, altri animali invece erano ritornati dopo aver passato un lungo inverno al sud o essersi svegliati dal letargo. La mosca Arabella pensava a tutto questo mentre, dal cielo, osservava quel mare verde che era la Terra sotto di lei. Era nata da poco, ma parlando con le sue compagne aveva già scoperto tutte queste cose e si diceva che non sarebbe mai riuscita ad affrontare un viaggio lungo come invece facevano molti uccelli tra cui le rondini. Suoi nemici, certo, perché predatori visto che mangiavano mosche e altri insetti, ma comunque animali da ammirare per il loro coraggio. Arabella svolazzava tranquilla tra case e giardini. Alcuni umani avevano tagliato l’erba e, nonostante l’altezza, poteva sentirne il fresco profumo, mescolato a quello dei gelsomini in fiore. Con la pancia piena - aveva appena succhiato zuccheri e altri nutrimenti da frutta e carne in putrefazione, come facevano tutti gli altri esemplari della sua specie -, voleva godersi appieno il pomeriggio. Forse avrebbe dato fastidio a qualche cane o gatto, o ancora meglio ad una persona. Le altre mosche che aveva incontrato le avevano spiegato che, una volta diventati tali, gli insetti come loro non avevano molto da vivere. Anche se ciò faceva parte del ciclo naturale delle cose, Arabella non poteva che esserne triste e afflitta. Certo, se un mese di vita per gli umani era poco, per loro era tantissimo. Tuttavia a lei non sembrava abbastanza. Cosa sarebbe riuscita a fare in trentun giorni? Era piccola e il mondo le sembrava enorme, avrebbe voluto vedere un sacco di cose ma sapeva di non avere il tempo di osservare tutto. Questa consapevolezza la portava ad isolarsi dalle sue compagne e a non voler trovare un compagno, respingendo tutti quelli che le si avvicinavano per farle la corte. Che senso aveva deporre delle uova e quindi far nascere dei figli, se poi questi morivano nel giro di così poco? E poi lei non li avrebbe di certo cresciuti. Una volta deposte le uova sarebbe volata via e avrebbe dovuto accoppiarsi di nuovo. Che senso aveva essere mamma, se non le era nemmeno consentito crescere e amare le sue creature? Forse era l'unica a pensarla a questo modo, a chiedersi perché la natura andasse così. Tutte le altre mosche, maschi o femmine che fossero, ne seguivano il corso e basta. E, quando aveva provato a spiegare a una di loro che considerava amica quel che provava, questa era scoppiata a ridere.
"Ma sei scema o cosa?" le aveva chiesto. "Dai, Arabella, come ti vengono certe idee? La natura va così e devi accettarlo."
No, non ci sarebbe mai riuscita. Proprio per questo era additata come diversa da tutti quelli che la conoscevano.
Era per distrarsi da tali cupi pensieri che desiderava rompere le scatole a qualcuno. Mentre veniva scacciata provava qualcosa, qualcosa di diverso dal dolore e dalla tristezza che le attanagliavano il cuore e l'anima ogni secondo di ciascun singolo giorno. Quella nuova emozione la aiutava, le faceva capire di essere viva, di non essere morta dentro. Al contempo, però, il pensiero di giocare con la morte le metteva i brividi. Era una contraddizione, ma ormai aveva capito di essere una mosca complessa, piena di sogni irrealizzabili, dubbi e incertezze.
Entrò in un giardino e, attraverso una finestra aperta, si infilò in una casa. Non aveva mai capito perché gli umani avessero bisogno di abitazioni così grandi per vivere quando invece a lei bastava ripararsi nella cavità di un albero o sotto delle foglie, ma comunque, contenti loro… Stanca di volare, si appoggiò su qualcosa di lungo e duro ed iniziò a camminarci sopra con lentezza. Non ricordava come si chiamasse quell'oggetto anche se le era stato detto da un altro insetto. Tavolo, forse? Beh, non era importante. Con i suoi cinque occhi si guardava intorno circospetta, sperando che non arrivasse nessun umano. Gli uomini avevano dei maledetti affari con i quali cercavano di uccidere gli insetti perché provavano paura o ribrezzo: palette e giornali, per esempio. Chissà perché gli insetti stavano loro tanto antipatici, si chiese. Che cosa facevano di male? Non l'avrebbe mai capito. Non era così per tutti, però. Le api non erano trattate a quel modo dagli uomini, anzi loro erano in un certo senso privilegiate, dato che questi costruivano per loro delle belle casette. Non era giusto, pensò Arabella, avrebbero dovuto amarli o odiarli tutti. Cos'avevano quelle di tanto speciale? Solo perché producevano quella cosa appiccicosa chiamata miele non significava che fossero gli insetti migliori del mondo!
Si guardò ancora intorno, immersa nei propri pensieri ma al contempo allerta. Per ora non sembrava esserci nessuno e la finestra era vicina, avrebbe potuto volar via veloce come un fulmine in qualsiasi momento. C'erano un sacco di cose che non conosceva in quel luogo, in posti differenti. Avrebbe tanto voluto conoscerne i nomi. Volò su qualcosa di morbido e lungo dove, aveva constatato entrando in un’altra casa, gli umani amavano sedersi. In effetti non era male, ma il tavolo era meglio. Essendo fatto di legno, aveva dei piccoli buchini nei quali provare a nascondersi.
Tuttavia, anche se quella casa la incuriosiva, c'era qualcosa che non le piaceva per niente, anzi che odiava con tutta se stessa: quel luogo era pulito. Tale parola le fece provare un forte senso di disgusto. Non avrebbe mai potuto vivere in un posto tanto ordinato, dove ogni cosa era al suo posto e i pavimenti quasi splendevano sotto la luce del sole. Riprese a svolazzare e passò sopra quelle che, se ricordava bene il nome, si chiamavano scale. Scese in una piccola stanza dove si trovava un apparecchio che faceva un fracasso infernale. Forse per gli uomini non era così, ma per le sue orecchie che udivano i suoni in maniera molto acuta quella era una tortura. Stizzita, Arabella decise di andare via, anche perché sentì il tanfo di qualcosa all'interno di un paio di contenitori sopra la macchina. Sapeva che gli umani usavano quelle schifezze per pulire i loro vestiti. Ma perché dovevano farlo? Perché ogni cosa per loro doveva essere tanto igienica? Lei amava stare sopra cumuli di letame dove si sentiva a suo agio, adorava tutto ciò che era sporco o maleodorante. Che bisogno avevano gli uomini di pulire tutto e tanto spesso? Ciò li rendeva ancora più insopportabili ai suoi occhi. Era per questo che scacciavano e che cercavano di uccidere insetti come lei, perché erano sporchi. Non li avrebbe mai capiti. Sbattendo furiosamente le ali, tornò in salotto e si riappoggiò sul tavolo per ritrovare la calma.
Un rumore a poca distanza da lei la fece sobbalzare. Si guardò intorno e vide un gatto grigio e nero che la osservava con i suoi piccoli occhi gialli; aveva lo sguardo minaccioso, quello di chi sta per attaccare. Arabella si mosse in fretta e, anziché nascondersi in un buco del tavolo, d’istinto prese il volo sapendo bene che, se non l'avesse fatto, il felino avrebbe potuto tramortirla o ucciderla con una sola zampata. Lui, però, non si muoveva e non sembrava volerla inseguire.
"Perché?" mormorò Arabella mentre girava in lungo e in largo per la casa, appoggiandosi ogni tanto sui mobili e sui soprammobili.
Era troppo strano e lei non poteva abbassare la guardia. Il cuore continuava a martellarle all'impazzata nel petto e aveva l’impressione che sarebbe potuto esplodere da un momento all'altro. Dov’era la finestra? Non riusciva più a capirlo, non si trovava in un’altra stanza ma si era persa. Le sue ali tremavano durante il volo, tanto che era difficile mantenere una rotta e Arabella sbatteva spesso contro le cose, anche a causa del fatto che la vista le si stava annebbiando. Aveva preso parecchie botte e sentiva dolore, ma non le importava. Doveva andare via e in fretta, si ripeteva mentre il respiro accelerava e l’ansia cresceva. Era in quei momenti che rifletteva sul fatto che, nonostante la sua vita non fosse come lei la desiderava, in realtà non voleva morire. L'aveva sempre saputo, eppure la sua testa non riusciva a formulare un pensiero coerente a riguardo: si domandava quale fosse il senso della sua vita, ma al contempo non poteva, non voleva smettere di viverla.
"Ferma."
Arabella aveva un dono speciale: non sapeva come, ma riusciva a comprendere quel che dicevano gli altri animali i quali, ovviamente, parlavano una lingua diversa dalla sua. Credeva fosse una cosa innata e ne andava fiera. Il miagolio del gatto era stato molto più dolce di quanto lei si sarebbe aspettata. Smise di volare e si ritrovò appoggiata allo schienale della poltrona, vicino al grande tavolo di legno.
"P-perché? Tu mi vuoi mangiare" balbettò. Avrebbe voluto aggiungere "Sei cattivo" ma non lo fece, perché non era così. Lui era un gatto e si comportava da tale.
Perfetto, la mia voce sembrava quella di una scema pensò. Anzi no, era quella di una che ha paura, che è terrorizzata. Ora lui lo sa e porterà questo a suo ulteriore vantaggio.
"No, non voglio farlo."
Lo guardò con uno sguardo che definire sorpreso era poco. Intanto lui si era seduto sul pavimento e la osservava con curiosità. Sembrava calmo - la testa era abbassata, le orecchie anche, gli artigli non erano fuori -, ma lei ancora non si fidava. Come avrebbe potuto?
"Perché no?" domandò, il tono un po’ più alto di prima per ostentare una sicurezza che in realtà non aveva.
Quel che le disse la lasciò senza fiato.
"Ti ho guardata negli occhi e ho visto la tua tristezza. Devi essere molto sola, come lo sono stato io."
Avrebbe voluto fare la forte e ribattere che non era così, che lui non sapeva niente di lei, che non erano cazzi suoi e andarsene, scappare da quella finestra ancora aperta, ma non ci riuscì. Il gatto aveva abbassato la testa e nella sua voce rotta dall'emozione Arabella aveva letto una sincerità disarmante. Non stava fingendo, non voleva imbrogliarla. Trasse un profondo respiro e si rilassò un po'.
"E' vero" ammise. "Io sono diversa dalle altre mosche e loro non lo accettano." Non avrebbe spiegato tutto ad un gatto, un animale che per natura era suo nemico e che aveva conosciuto solo pochi minuti prima. "Ma tu come mai sei solo? Vivi in una bellissima casa, con persone che ti amano, almeno spero..."
Si augurò di non aver detto nulla che avrebbe potuto ferirlo. Anche se non sapeva ancora cosa provare nei suoi confronti, non aveva più molta paura di lui.
"Prima  di tutto le presentazioni: io sono Bizet."
"Io Arabella, piacere."
Dato che non potevano darsi la zampa, si limitarono a guardarsi più intensamente.
"Per rispondere alla tua domanda ho detto che sono stato solo, non che lo sono adesso.”
“Scusami, io… avevo paura e non ho capito.”
“Mi spiace averti spaventata, non avrei voluto.” La tristezza nella sua voce la colpì profondamente. Quello era un gatto davvero particolare. “Immagino che sia questa la reazione quando vedi animali come me.”
“Sì.”
“Sono come tutti gli altri gatti, Arabella, ma a te non farò alcun male. Te lo prometto.”
Era serissimo, quasi quello fosse un giuramento e lei decise di fidarsi, nonostante tutto.
“Okay” rispose soltanto, non riuscendo nemmeno a ringraziarlo.
“Sì, qui sono felice” riprese il micio. “Ho una famiglia che mi ama tantissimo e sono coccolato e anche un po' viziato" disse con un sorrisetto che faceva capire quanto quella seconda cosa gli piacesse. "Tuttavia non è sempre stato così. Poco dopo la nostra nascita, io e mia sorella siamo stati abbandonati dal nostro padrone in una scatola su una strada."
La mosca era senza parole. Si chiese come qualcuno potesse abbandonare due animali indifesi su una strada e lasciarli lì al loro destino senza sentirsi la coscienza sporca, senza provare rimorso.
Che vigliacco! pensò riferendosi a quel padrone che, di sicuro, non aveva amato i suoi gatti.
Era questa una delle differenze tra uomini e animali, pensò: i primi erano crudeli, sapevano essere delle vere e proprie bestie.
"Mi dispiace" sussurrò. Quelle parole non avrebbero diminuito il dolore che il gatto si sarebbe portato dentro a vita, ma forse in qualche modo lo avrebbero fatto sentire meglio.
"Grazie."
Bizet pareva assente, ora. Fissava il vuoto, forse ricordando il terrore che aveva provato in quei momenti terribili, qualcosa che Arabella non poteva neanche immaginare.
"E… e tua sorella?" si arrischiò a chiedere, cauta.
Sperò che non fosse morta, di non causargli sofferenza perché era l'ultima cosa che voleva.
"Siamo stati trovati da una donna. Nellie è rimasta con lei, io sono stato adottato da questa famiglia. Sia io che lei ci siamo sentiti molto soli. Ci siamo chiesti se eravamo stati abbandonati per colpa nostra, se avevamo fatto qualcosa di male."
Raccontò che altri gatti ai quali l'aveva detto gli avevano risposto di no, che era il loro precedente padrone ad essere uno stronzo e, anche se non riusciva a capire la lingua degli umani, sapeva che la sua nuova famiglia credeva che gli animali non andassero mai abbandonati in quel modo orribile.
“Tu perché stai così?” le chiese lui alla fine.
“Tutti mi considerano diversa. E ci sono molte cose che non riesco ad accettare riguardo la mia vita.”
Arabella gli parlò della sua situazione, del perché si sentiva sola. In fondo il gatto si era aperto con lei e quindi, non avendo paura di turbarlo, la mosca non vedeva perché non farlo lei stessa. Lui la ascoltò con attenzione, tenendo le orecchie dritte e, quando Arabella terminò, si prese alcuni secondi per riflettere, o almeno così parve a lei.
"Noi gatti viviamo anche vent'anni se va tutto bene" cominciò Bizet, "io ho solo sei mesi. Non posso capire quello che provi. Per me un mese o due non sono niente, ma per te devono essere lunghi."
"Sì, e non sempre penso al giorno in cui morirò. Mi domando solo che senso abbia la mia vita se vivo così poco rispetto ad altre specie."
Gli occhi le si riempirono di lacrime dopo quella confessione: pensarlo era una cosa, ammetterlo era molto più difficile e si ritrovò senza energie. Scoppiò in un pianto dirotto, buttando fuori tutto il dolore che aveva dentro. Pianse così tanto che le fece male il cuore e respirare le era difficile, ma non si fermò. Bizet si avvicinò cautamente e si sedette davanti al tavolo sul quale lei si trovava, poi salì su una sedia per esserle più vicino. Da lì non si mosse. Un movimento sbagliato e avrebbe potuto ucciderla. Non diceva niente e nemmeno lei parlava, ma Arabella capì che il gatto non lo faceva per cattiveria. Voleva che si sfogasse, che lasciasse libere le emozioni e aveva capito che a volte il silenzio vale più di mille parole.
“Grazie” mormorò lei ad un certo punto. “Nessuno mi ha ascoltata come hai fatto tu.”
Chi se lo sarebbe mai aspettato da un gatto?
“Figurati, so quant’è importante farlo ed essere ascoltati. Una dei miei padroni non sta bene, spesso mi parla e anche se non capisco, so che è triste e cerco di starle accanto. Lei fa lo stesso con me.”
“E’ una cosa molto bella. Sei fortunato ad averla accanto.”
“Già.”
Arabella fu scossa da altri singhiozzi. Solo quando la tempesta che aveva nel cuore si fu un po’ calmata e lei smise di piangere, lui parlò ancora.
"Non so trovare le risposte alle tue domande, ma penso che se la tua vita non avesse un senso non saresti mai nata. E' così per ogni creatura."
Lei fece un piccolo sorriso. Quel gatto sapeva essere molto profondo, proprio come lei e la cosa le piaceva. Fino ad allora aveva parlato solo con insetti superficiali che non le avevano trasmesso niente.
"E tu sei felice?" gli chiese.
"Certo che sì!" esclamò il gatto e, finalmente, sul suo volto si aprì un sorriso tanto bello da illuminare l'intera stanza più della luce che entrava dalle finestre.
Arabella ne fu contagiata e sorrise a sua volta, contenta che Bizet stesse bene.
"Anche tu puoi esserlo, Arabella. Ne sono sicuro" continuò lui con convinzione. "E poi ora non sei più sola, hai me. Non so se diventeremo amici o no, ma sarei felice di conoscerti meglio."
La mosca sentì il suo minuscolo cuore scaldarsi. Prima d'allora nessuno le aveva mai detto parole tanto intense, nessuno si era interessato davvero a lei. Tutti avevano cercato di cambiarla, di fare in modo che fosse come loro in tutto e per tutto. Ma lei era lei, e quello che gli insetti della sua specie non capivano è che nessuno è uguale ad un altro a questo mondo. Bizet la accettava per quella che era e ciò la fece sentire, per la prima volta da quando era nata, libera e leggera. Avrebbe potuto volare per ore, si disse, tanto stava bene in quel momento.
"Anch'io" rispose con voce tremolante, provando un'emozione nuova che, forse, era felicità.
Non ne era del tutto convinta, ma voleva godersela finché sarebbe durata. I due si salutarono con la promessa di rivedersi il giorno dopo in giardino per fare qualcosa insieme. Forse una semplice passeggiata, o magari si sarebbero distesi da qualche parte, lui per terra e lei su un fiore, a parlare.
Arabella uscì da quella casa sentendosi ancora una volta diversa, ma in senso buono. La felicità era fatta anche di piccoli momenti come quelli, pensò, in cui aveva conosciuto qualcuno che sotto alcuni punti di vista era stato simile a lei e forse lo era sotto altri che non vedeva l'ora di scoprire. Ora non era più sola, aveva come conoscente un gatto - il che era singolare - e forse sarebbero diventati amici nel tempo che le restava. Se si fosse goduta i piccoli momenti di gioia e spensieratezza, passati con Bizet o no, allora avrebbe potuto dire che la sua vita valeva la pena di essere vissuta. Non era convinta di riuscire in questo intento, ma ci avrebbe provato con tutte le sue forze.
   
 
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