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Autore: Damnatio_memoriae    10/06/2019    1 recensioni
A sedici anni mi ero convinta che il tempo non ci avrebbe scalfite. A diciassette ero sicura che avrei saputo aspettare in eterno. A diciotto credevo che combattere per una persona fosse la cosa più giusta da fare, sempre e comunque. A diciannove ho iniziato a capire che non fa meno male trattenere chi non vuole restare. A venti mi sono resa conto che un bicchiere rotto, anche se scocciato, incollato, dipinto, restaurato, non si sarebbe aggiustato. A ventuno ho realizzato che, se non mi fossi sbarazzata di tutto il mio rancore, non avrei mai abbandonato quel binario. E questo è il risultato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria -


Ricordo.

Ricordo l’inizio per caso, un po’ per scherzo, un po’ per noia, nessuna pretesa, nessuna smania, nessuna attesa. Un inizio semplice, conciso, pulito, preambolo falsato di una parentesi estiva che si prospettava essere lineare, piacevole, breve, senza ripercussioni, esente dal male.

Ricordo la prima discussione, più stupida della ragione che l’aveva causata, e il silenzio ostinato e orgoglioso che ne era seguito senza riuscire a trovare un accordo. Qualsiasi cosa fosse ciò che si era creato tra di noi, finì con un accenno di delusione, una punta di rammarico per un gioco durato forse troppo poco, ma che mi scalfì appena, facendomi credere che l’amore fosse una cosa superficiale al punto da non lasciare il segno. Invitai la vita a dimostrarmi quanto mi stessi sbagliando e lei mi mandò te.

Ricordo che tornasti a farti sentire dopo qualche mese, rendendomi stranamente contenta, e che rimanesti fino alla litigata successiva, quando reiterammo il nostro arrivederci, che non so perché trattavamo sempre come se fosse un addio, forse per renderlo più drammatico, più definitivo, più doloroso, o forse perché credevamo davvero che ogni virgola fosse un punto.

Ricordo il tempo che passava e il malessere che cresceva ad ogni tua riapparizione. Capii di aver oltrepassato il limite quando era ormai troppo tardi per ritrattare la mia sfida con la vita, quando tutti i tuoi ritorni e tutti i tuoi addii superarono la mia capacità di contarli.

Ricordo la gioia, il sollievo, l’ossigeno che tornavo a respirare quando in una noiosa giornata qualsiasi mi scrivevi e quelle poche parole erano forti al punto da cancellare tutte le brutture dei mesi passati in silenzio, vuoti, tutti uguali e tremendamente lunghi. A volte mi chiedo come faccia una cosa simile a non essere sufficiente.

Ricordo i messaggi che pagavi, quando ancora pensavi che valessimo quei cinque centesimi a pagina. Erano lunghi al punto da arrivare scomposti sul mio telefono, ma li salvavo ugualmente, alla pari del tesoro più prezioso, dentro una cartella con sopra il tuo nome. Ricordo quelli più belli, inviati quando ci ritrovavamo – senza che fosse diventata una sporca abitudine - e riconciliarsi dopo mesi di assenza sembrava essere destino. Eravamo tremendamente sbagliate, eppure mi sembrava lo fossimo di più quando non stavamo insieme.

Ricordo la sensazione di poter continuare in questo modo in eterno, forte di una resistenza che credevo inesauribile. Eppure qualcosa sembrava perdersi giorno dopo giorno, gettato via, dimenticato non so dove. Mi scaricavo, mi spegnevo, mi scurivo quando i giorni passavano senza avere tue notizie, a volte per settimane pesanti come macigni, e mi ricaricavo, sorridevo, brillavo quando mi arrivava un tuo messaggio, anche se breve, anche se di circostanza, anche se inviato per dovere e non per voglia. E di nuovo così, in un circolo vizioso, in un’altalena senza fine.
 
Ricordo che a diciotto anni sembrava essere un piano infallibile, il mio: aspettarti, aspettarti sempre, aspettarti comunque, nonostante tutto, anche invano, anche a vuoto. O venirti a prendere. A diciotto anni ero convinta che combattere per una persona fosse la cosa più giusta da fare, sempre e comunque. Non so con quale coraggio ero riuscita ad illudermi che, se non fosse stato per loro, avremmo potuto essere qualcosa. Non so con quale coraggio riuscii a credere che non fosse tutto solo nella mia testa.
 
Ricordo lo sconforto nel sentirti scivolare dalle mani e la frustrazione nel percepire che ti stavi allontanando e il dubbio, strisciante, che in realtà non fossi mai stata veramente vicina. Ricordo le avances di sconosciuti che mi facevano sentire ancora più sola, il desiderio che ogni abbraccio fosse il tuo, il cuore che mancava un battito se qualcuno, per strada, chiamava il tuo nome e io pensavo che sarebbe stato bello, sì, sarebbe stato bello girare l’angolo e trovarti lì, per caso o per me.  
 
Ricordo gli errori reiterati all’infinito e puntualmente perdonati, le giustificazioni per le disattenzioni più clamorose, le scuse per la noncuranza, l’incoerenza, l’assenza, l’egoismo, le omissioni, la superficialità. Ricordo le scuse che avrei voluto porgerti per le mie colpe, per i miei continui dubbi, per i messaggi che non mi bastavano mai, per la gelosia incondizionata. Ricordo di aver scelto di ignorare il mio intuito, il buonsenso, la logica, la decenza, i consigli di chi mi voleva bene, pur di credere che non ti fossi stufata di me.
 
Ricordo quando mi resi conto che i messaggi, anche quelli più belli, non ci avrebbero salvate, che non saremmo più rimaste sveglie a parlare tutta la notte, che non ci saremmo più chiamate con i soprannomi che avevamo sempre usato, che non ci sarebbe più stata alcuna emozione nel ritrovarsi, perché ritrovarsi era diventata un’abitudine e non richiedeva neanche più l’impegno per evitare di perdersi.

C’eravamo solo noi: due sconosciute che non avevano più nulla in comune tranne la consapevolezza di non avere più nulla in comune. E solo la vita lo sa se c’è mai stato qualcosa di vero prima di arrivare al capolinea.
   
 
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