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Autore: soliloquia    11/06/2019    0 recensioni
Promettimi che staremo insieme.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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È che sono mesi che non mi tocchi e le tue dita non si incastrano più tra i miei capelli. La distanza mi dilania e disegna cerchi che si allargano fino ad avere un raggio immenso.
Io, stanotte ti penso.
Ti penso con la finestra spalancata perché fa caldo. Ti penso con il pacchetto di sigarette alla mia sinistra e alla destra la chitarra che hai lasciato qui come per ricordarmi che ci sei stato, ci sei e non te ne andrai facilmente.
Mi sono chiesta se è poi così difficile andare con un altro, sentire la sua saliva nella mia bocca, la lingua che mi riempie le guance.
Mi chiedo, è difficile?
Tutte le volte che ci provo mi ritrovo con nulla tra le mani, i pensieri anestetizzati, i tuoi occhi verdi che mi cercano e mi trovano, mi giudicano e io mi fermo.
Stanotte ti voglio pensare fino a perdere i pensieri, rompere gli argini, morire ancora un po' dentro.
E' il 2018 e tu non torni e io non so fin quando ti aspetterò ancora. Tutta la vita, probabilmente, perché io non sono fatta per i sentimenti deboli, momentanei. Io amo, forte, fortissimo e mi dispiace perché fa così male da non lasciarmi respirare.
Restiamo immobili nel nostro dolore, nelle bugie, nel fatto che quest’amore non lo sappiamo gestire perché siamo ancora piccoli anche se siamo cresciuti. Restiamo cristallizzati a darci colpe, a buttarci giù, a crogiolarci nel nostro sangue.
Perché siamo bravi a farci male, lo siamo da quando tu avevi sedici anni e io quattordici e mi hai detto che non avevo tette, che non ero abbastanza donna per te, e allora io mi sono fidanzata con un altro, ci ho fatto sesso solo per sbatterti in faccia quanto ero donna.
Poi ci siamo messi insieme, - tu senza tatuaggi e io con i capelli verdi- tra una lite e un’altra, io che ero gelosa anche dell’ aria che respiravi e tu che non ti incazzavi mai con altri ma con me sì, per me sì.
Era novembre del 2012 e abbiamo litigato così tanto e per così tanto tempo che il giorno dopo non avevamo più la voce, la forza, la fantasia per andare avanti. Tu e la tua voce roca, io e le mie occhiaie viola.
Il trentuno dicembre baciavi un’altra e io morivo dentro, poi mi sono fatta trovare con la lingua nella gola di un altro e le sue mani sul culo.
Ti ho chiesto se mi amavi ancora, e tu hai risposto sempre.
E poi abbiamo urlato ancora, tu hai pianto, hai alzato la voce, mi hai detto che ti faccio incazzare così tanto da sentirti male. Poi abbiamo fatto l’amore e mi hai detto che se non ci ammazzavamo ci saremo sicuramente sposati e poi io ti ho ricordato che il matrimonio è solo un pezzo di carta e che il ‘per sempre’ esiste solo nelle favole e nemmeno i nostri genitori sono riusciti a durare.
Era il sette luglio e io indossavo un vestito bianco, non c’era mio padre a portarmi all’altare, non c’era tua madre ad aggiustare il tuo papillon storto. C’eravamo io e te, un prete e i testimoni.
Poi ci siamo ubriacati fino a sfiorare il coma etilico.
“Sposarti è la cazzata migliore che io abbia mai fatto i vent’anni di vita” ho sussurrato al suo orecchio, le nostre dita intrecciate senza fedi perché sono pacchiane e invece ci siamo fatti un tatuaggio sull’anulare perché così è più intimo ma anche più soffocante.
Il test segna due linee azzurre alle 03:45 del 25 marzo 2015.
Piango e vomito con la testa nel cesso, passano due settimane e non te lo dico: lo scopri da solo e mi stringi forte, il respiro tra i capelli e la tua testa che pensa già al nome da dargli prima ancora che lui abbia un volto.
“Non so se lo voglio” dico, piano e poi forte, poi lo urlo e poi vorrei darmi un paio di schiaffi perché non sono stata attenta e mi sento piccola nei miei diciannove anni e le mie crisi d’ansia.
Le frasi si accavallano nella mia mente: “Non puoi decidere tu, è anche mio”, “Sono io che ce l’ho dentro”, “Sono io suo padre”, “Io ti odio” e non so chi dei due l’abbia detto.
Il giorno dopo avevo l’appuntamento dalla ginecologa.
Non ci vado, perché durante la notte le lenzuola del letto si macchiano di rosso e io mi ritrovo a piangere per qualcosa che era così piccolo ma c’era.
Annego la stanza, proprio io che nemmeno li volevo dei figli, perché mia madre non è stata all’altezza e avevo paura che mio figlio mi potesse odiare. Piango e prego Dio di non darmi altri figli che non siano anche tuoi.
Dopo un po’ non ho capito più niente perché io ti davo la colpa e tu la davi a me, io la davo a me e alle mie sigarette e tu a te stesso e al fatto di non essere stato presente.
Hai pianto così tanto che hanno dovuto darti del prozac per calmarti. Dimmi, ora ha importanza determinare di chi sia la colpa?
Dopo mesi ad inseguirci, tra città che non ci conoscono, frasi su bocche amiche a starci vicino, tu che bevi e non sai il perché, io che riempio l’armadio di scarpe per riempire la tua parte vuota, cosa ci resta?
È la festa di compleanno del tuo migliore amico, agosto 2016 e  tu mi dici che sei andato avanti con quella ragazza bionda che ti bacia la mascella e so che non è così perché non riesci a non staccarmi gli occhi da dosso. Ti attacchi al campanello del mio nuovo appartamento e sei un patetico ubriaco con gli occhi rossi e la puzza di un’altra su i vestiti.
“Dormiamo insieme, dormiamo e basta, ti prego, non chiudo occhio da quando non ci sei”
Dormi con me, amore mio, dormi senza di me.
 quando vorrei stare solo accanto a te.
E allora io stanotte penso e parlo per entrambi, tu resti in silenzio perché io ho abbastanza parole per entrambi. Poi mettiamo che ti bacio, tu ricambi, facciamo l'amore non come se fosse l'ultima volta ma come se fosse la prima di volta, quando avevo diciassette anni ed ero appena uscita dall'ospedale; il buco fresco della flebo nella piega del braccio, tu che mi baci le cicatrici e dici "Questa, questa è la mia preferita" e ti riferivi a quella che mi ero procurata a dodici anni giocano a tennis.
Facciamo l’amore come la prima volta, impacciati e scomposti.
L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore è stato ad un funerale. Ironico, no?
Mentre piangevamo ci scopavamo a vicenda la testa, io che ti chiedevo di perdonarti e tu che mi riempivi di morsi.
Hai venduto il nostro appartamento. Sono tornata lì solo per barricarmi dentro, piangere tutti i liquidi che avevo in corpo, maledirti, tentare di uccidermi, forse. Invece no.
C’erano le mie cose fuori dalla porta, non tutte, solo un paio e mi sono detta che era meglio così.
Che va bene, che lo capisco e me lo merito.
Mi chiedo solo quando smetteremo di farci male e inizieremo ad essere felici, insieme, mentre conquistiamo il mondo insieme, mentre ci risposiamo, i nostri tatuaggi che si ricongiungono come pezzi di un puzzle, il nostro bambino che risorge come la fenice di Albus Silente, con i tuoi occhi e il tuo sorriso, con un nome che ho scelto io e il mio gusto in fatto di film.
Quindi, rendimi felice.
Torni, non torni, vengo io, non vengo.
Ci incontriamo a metà strada, non ti costringo a venirmi a prendere sotto casa e io non farò i chilometri per arrivare alle tue braccia.
Però.
Prometti, che nel 2020 staremo insieme, con o senza figli, sposati o meno, in quell’appartamento o in un altro, con te che bevi di meno e io che sposto le scarpe per lasciarti spazio.
Prometti e io ti aspetto come stai facendo anche tu dall’altra parte del globo.
E stanotte, mentre ti penso, siamo già più vicini.
 
   
 
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