CAPITOLO UNO
Anno 1202, periferie
di Gerusalemme.
I festeggiamenti per il secondo centenario dell’unificazione
dei due Imperi si sono conclusi da pochi giorni. Dall’Oriente fino
all’Al-Andalus, la cristianità riunita ha osannato i discendenti di Ottone III
di Sassonia e Zoe Porfirogenita, fondatori della dinastia imperiale che ha
donato all’Occidente un nuovo domani.
Quando gli infedeli si sono resi pericolosi da diventare
padroni di una cospicua fetta di mondo conosciuto, i nostri sovrani hanno fatto
di tutto per ampliare i loro territori e allargare le alleanze, fino a poter
rivendicare buona parte dei territori d’Oltremare.
Per noi guerrieri del grande Impero, però, è stato un secolo
di guerra e di sfide, nonostante la soddisfazione per i gloriosi risultati
ottenuti. E allora che l’Aquila Nera e l’Aquila d’Oro possano solcare assieme i
cieli, fino a lambire i confini dell’umanità…
Sono solo due anni che presto servizio al cospetto dei
vessilli crociati, ma sembra che sia trascorsa una vita. Sono nato ventisei
primavere fa all’ombra delle alte mura di Magonza, per scegliere poi di venire
a morire qua, nella remota Terra Santa.
Se c’è un destino che accomuna tutti noi guerrieri della Fede,
be’, quello è di sapere che un giorno saremo inghiottiti dalle sabbie
dell’Oriente ignoto, le stesse che hanno visto il martirio di Cristo. Questo è
un onore, ma è meglio osannare il nostro religioso fervore mantenendo ben salda
la vita per tutto il tempo che ci viene concesso.
La nostra spada è il prolungamento che ci è stato donato
affinché possiamo reprimere tutto ciò che è contro l’Impero e la Cristianità,
afferma sempre il mio fedele amico Michele, greco fino al midollo.
Michele che ancora dorme, coricato sull’umile giaciglio a
fianco del mio. Il sole dell’alba infatti già bacia le nostre fronti e mi fa
pensare un po’ troppo, così da farmi venire la nostalgia di casa, e questo non
posso permettermelo.
Mi alzo quindi di scatto e scuoto il mio vicino,
costringendolo a svegliarsi.
“Avanti, il nuovo giorno è arrivato”, gli dico, solo per
stimolarlo. Presto i nostri superiori verranno a prendere a bastonate tutti
coloro che sono ancora distesi, e sono convinto che anche lui non voglia
ricevere tale umiliante trattamento.
“Uff”, sbuffa, tirandosi in piedi a sua volta e strofinandosi
con vigore gli occhi, “la disciplina è ciò che più odio di questo posto”.
Concordo.
“Non ti manca mai casa tua?”, gli sussurro, come se fosse
vergogna.
“No, mai. Costantinopoli è davvero noiosa. E come se non
bastasse, i miei fratelli hanno già sperperato tutti i beni dei miei genitori.
Mi toccherebbe chiedere l’elemosina”, mi spiega il greco, mentre ci dirigiamo
verso il cortile del monastero che ci ospita e cerchiamo di non calpestare
parti del corpo degli ultimi compagni ancora addormentati. Poi si permette una
risatina.
Pure a me sfugge un sorriso.
“Anche io non avrei avuto un futuro in Germania. Sono il
sestogenito, non c’è nulla per me, eppure a volte sento la mancanza di casa…”,
borbotto e lascio che le mie parole svaniscano pian piano.
Ci sono giorni in cui non riesco a dimenticare il clima
fresco dove sono cresciuto, proprio quando sabbia e sole cocente diventano troppo
insopportabili. Tutta questa malinconia però passa in secondo piano quando
finalmente c’è bisogno di me, di noi e delle nostre armi.
Ciò accade ogni giorno, a partire dall’alba.
I pellegrini che giungono nella Terra Santa sono sempre di
più, spinti dalla Fede e dalla fama che le nostre imprese stanno imprimendo in
tutto l’Impero. A noi tocca difendere queste terre e chi le attraversa.
Io e Michele consumiamo un frugale pasto, composto da latte
di capra e un paio di fette di pane nero, poi senza dire una parola iniziamo a
prepararci adeguatamente per la giornata. Ormai i nostri sono gesti imparati a
memoria, anche se la concentrazione è sempre elevata. Basta una piccola
imperfezione nell’armamentario per sancire la fine della nostra vita.
Indosso la tunica imbottita, e poi la maglia di ferro, mentre
il caldo inizia già a farsi opprimente.
Mentre ci incamminiamo verso le caotiche strade della Città
Santa, pronti a offrire i nostri quotidiani servigi, avvertiamo i lamenti dei
nostri compagni che non si sono alzati in tempo. Verranno poi ulteriormente
puniti con il digiuno.
“Oggi che si fa?”, mi chiede Michele, come se io fossi il
Maestro in persona.
Non sto nemmeno a rispondergli. Abbiamo sempre molto da fare,
anche durante questo periodo in cui non ci sono conflitti ufficiali contro gli
infedeli; per servire l’Ordine e i pellegrini, dobbiamo costantemente scortare
gruppi di persone indifese verso i luoghi di culto più antichi, dove ancora si
avverte tutto l’estremo dolore del calvario di Cristo.
Nonostante la pace che da quasi mezzo secolo regna tra noi
servi della cristianità e i musulmani, le campagne attorno a Gerusalemme
pullulano di aggressori violenti, che come cavallette sgusciano fuori dalle
sterpaglie e cercano di arricchirsi ai danni degli inermi sventurati.
Aumentiamo in sincronia il passo, poiché è il momento della
prima Messa della giornata e non possiamo permetterci di perderla. Poi,
scopriremo cosa si farà.
Il nostro Ordine presidia la maggior parte delle chiese in
città, e numerosi tra i confratelli più anziani hanno scelto curare i riti
sacri, poiché inadatti ormai alle fatiche del mondo esterno alle mura sacre.
Sparse in tutta Gerusalemme, e fino alle periferie, i vari luoghi di culto sono
a disposizione di tutti, ma le prime fila sono riservate ai Cavalieri Franchi,
a seconda del quartiere ai quali siamo assegnati.
La nostra chiesetta è molto umile e povera, non ci sono
panche in legno, bensì qualche misera sedia tarmata. Io e Michele riusciamo a
prendere posto appena in tempo, giusto un attimo prima che Adalbert, il nostro
confratello anziano che ha la responsabilità del rito sacro, inizi la funzione
mattutina.
Durante tutto il corso della mia vita ho ascoltato talmente
tante Messe e detto talmente tante preghiere da non saper nemmeno immaginare quanta
fedele devozione ho dedicato al nostro Dio.
Questa mattina sono ancora leggermente intorpidito e faccio
fatica a stare attento, anzi, spesso perdo la concentrazione e mi ritrovo a
blaterare frasi e preghiere a memoria, senza rifletterci. Sto di certo
peccando.
Devo confessarmi al più presto.
La funzione finisce relativamente in fretta, quella mattutina
poi è leggera, poiché probabilmente ci attendono diverse mansioni, e anche se
la preghiera è importante, lo è anche il lavoro e il dovere. D’altronde noi
siamo anche le braccia di Dio, e non dobbiamo donargli solo la nostra mente e
le nostre parole.
Avverto i miei confratelli che iniziano a uscire dalla
chiesetta, e Michele si allunga per sfiorarmi un braccio e risvegliare la mia
attenzione, ma ormai io sono deciso a volermi confessare per il peccato appena
commesso.
Si nota tuttavia che non è la mattina appropriata, poiché
mentre cerco di avvicinarmi al fratello Adalbert, un messo giunge di corsa.
Quasi travolge i Cavalieri che stanno uscendo, li spintona e raggiunge
l’anziano, reso saggio dai voti e dal lunghissimo servizio prestato
nell’Ordine.
Adalbert allora afferra il messaggio scritto che il giovane
gli ha frettolosamente consegnato, e con risolutezza richiama l’attenzione di
tutti.
“Fratelli, per favore, tornate indietro”, afferma con il suo
vocione roco, obbligando tutti i Cavalieri a fermarsi ad ascoltare. “E’ appena
giunta una convocazione urgente da parte del nostro amato Maresciallo”,
prosegue, quando è sicuro che siamo tutti presenti e attenti, “vi vuole tutti
presenti al più presto presso la porta di Davide. Andate in pace”.
Detto questo, ripiega minuziosamente la preziosa pergamena.
Noi obbediamo tutti in simultanea e immediatamente; sappiamo
bene che si tratta di un ordine. Ciò che proviene da così in alto non si può
confutare né discutere, bensì solo eseguire.
Mi unisco agli altri uomini, e Michele non mi abbandona un
attimo. Siamo diventati così grandi amici che ormai siamo simbiotici.
Le strade di Gerusalemme sono sicure, per fortuna, e dentro
le mura di solito vige la correttezza e l’ordine. Non che si possa fare
altrimenti, ormai la presenza crociata è così da tempo consolidata che ogni
forma di ribellione è stata sedata.
La Città Santa è ora perlopiù abitata da Greci e cristiani
provenienti dall’Occidente, mentre i discendenti delle genti locali sono stati
tutti convertiti e vivono in pace. La nostra Fede ora è una sola, da quando i
sovrano orientali e occidentali hanno fuso le loro dinastie. Siamo tutti fedeli
a Roma.
E per noi è un grande onore poter percorrere le strade che un
tempo hanno ospitato anche Cristo.
Giungiamo quindi in tranquillità alla porta di Davide,
immensa e trionfante. Assieme al nostro gruppo stanno confluendo anche
tantissimi altri confratelli, probabilmente anche loro opportunamente avvisati.
“Uh”, borbotta il mio amico, stupito quanto me, “credo che
questa volta ci attenda una missione complicata”. La sua osservazione è
corretta, poiché durante tutto il periodo della mia presenza in città non ho
mai visto un raccoglimento di forze così ampio.
Mentre osserviamo i grandi portoni spalancati e vigilati da
semplici guardie armate, nessuno di noi si accorge che in realtà il Maresciallo
è in piedi sui camminamenti sovrastanti, e ci fissa dall’alto. Quando
avvertiamo la sua voce tonante, siamo quasi percossi da un rapido brivido di
stupore.
“Fratelli, non ruberò tempo alle vostre preghiere e alle
azioni caritatevoli a cui vi dedicate giornalmente. Vi ho riunito qui perché ho
necessità e urgenza di almeno cento di voi, possibilmente volontari”, afferma,
le sue parole che rimbombano nel silenzio sceso tra i guerrieri.
Nessuno si chiede il motivo di tale richiesta, e un vocio
soffuso si sparge in fretta tra noi. Vogliamo essere tutti tra quei cento
prodi, renderci validi e coraggiosi agli occhi dei nostri superiori.
“Non tutti, calma”, ci riporta alla realtà la voce tonante
del Maresciallo, che dall’alto sfrutta l’eco per farsi udire chiaramente,
“siete così volenterosi, ciò vi rende onore. Ma solo cento di voi verranno con
me, cento scelti tra i volontari che si proporranno…”. Non ha ancora finito di
parlare che alziamo le mani al Cielo, quasi le unisco come durante la
preghiera.
“Che Dio mi dia occasione per rendermi utile alla sua Causa”,
mormora un qualcuno alle mie spalle. Siamo infervorati, abbiamo bisogno di qualche
emozione nuova.
Poco dopo, iniziano le selezioni; chiunque vuole proporsi tra
noi, deve presentarsi al cospetto del Maresciallo, che nel frattempo è sceso e
si è posizionato nel mezzo dell’ampia porta cittadina, aiutato dalle guardie.
I primi di noi che riescono a mettersi in fila e a proporsi,
vengono accettati e passano oltre la porta. Cerco anche io, assieme al mio
amico, di mettermi in fila e di cercare di rientrare tra i cento. La scelta è
rapida, c’è chi viene scartato, ma la maggior parte varca la fatidica e vasta
soglia.
Michele, che è davanti a me, viene accettato.
Quando è il mio turno di farmi avanti, finalmente posso
osservare a dovere il Maresciallo, quell’illustre guerriero che è riuscito a
scalare le gerarchie dell’Ordine. L’uomo è attempato ma ancora dotato di un
fisico e di un carisma da ragazzo.
Mi avvicino a lui e porgo l’ossequio, chinandomi con il
ginocchio destro.
“In piedi, prode protettore della Croce”, mi intima,
solennemente. Non faccio in tempo a rialzarmi che già mi pone un’altra domanda.
“Sei abile di spada, o sei più adatto alla preghiera?”, mi chiede.
“So difendermi bene, se Dio vuole”, ribatto con difficoltà,
quasi balbettando. Sono un po’ in soggezione. Non sono abituato a trovarmi di
fronte a confratelli di rango più alto del mio.
Con un solo cenno del capo, il Maresciallo mi fa capire che
posso passare oltre. Ho superato la selezione.
Mi ricongiungo quindi con Michele, che mi stava aspettando.
“Non avevo dubbi! Non poteva non sceglierti”, afferma. Io gli
rifilo una manata contro la cotta di maglia, provocandogli un leggero barcollo.
“Non dire scemenze. Mi sto già pentendo”, ammetto. Se servono
uomini abili di spada, be’, non so garantire. A fine addestramento ero
discretamente bravo, ma non ho mai preso parte ad alcuno scontro armato di
rilievo. Contro i predoni che a volte tediano i pellegrini basta spesso mostrare
il nostro coraggio, altrimenti scaturiscono zuffe dove non sempre le spade
vengono utilizzate correttamente.
Se il Maresciallo vuole controllare di persona la
preparazione delle truppe dell’Ordine d’istanza a Gerusalemme, temo di poterlo
deludere.
“Sei possente come un tronco di un albero secolare, Bruno.
Non essere troppo modesto con te stesso”. Di certo il mio migliore amico ha
ragione, sono possente e massiccio come pochi altri, però le mie abilità con le
armi temo siano discretamente arrugginite.
“Le lodi devono essere rivolte solo a Nostro Signore”,
rispondo tuttavia con diplomazia. Il greco annuisce, senza aggiungere altro.
Attendiamo con trepidazione la fine della rapida scelta, e
infine i nostri nomi vengono registrati su una pergamena.
In conclusione al tutto, giunsero inaspettatamente alcuni
assistenti del Drappiere, vestiti in modo umile e solo con la lunga tunica con
la Croce sul petto. Con ordine, ci consegnano a ciascuno una cappa nuova e
pulita.
Mi ritrovo a osservare la mia, stranito; generalmente non c’è
concesso di indossarne una nuova prima che trascorrano diversi mesi, spesso soltanto
dopo la Santa Pasqua dell’anno successivo. L’umiltà del vestiario deve parlare
per noi.
Cosa sta succedendo, quindi? Perché tanta magnanimità?
Ci viene solo ordinato di andare a recuperare le nostre armi
e di vestirci adeguatamente, poiché una carovana di pellegrini provenienti da
Cesarea, dopo un faticoso viaggio a piedi nel mezzo delle sabbie infuocate, ha
bisogno urgente del nostro supporto.
Ci dividiamo per un poco, al fine di raccogliere la nostra
attrezzatura. Presso il nostro dormitorio, i compagni puniti e quelli esclusi
ci accolgono festosi, sommergendoci di domande, ma noi non sappiamo rispondere
a nessuna di esse.
Cerco di farmi gli affari miei, e in fretta mi metto a
vestirmi. Già indosso la cotta di maglia, e il peggio viene quando mi metto addosso
la cappa nuova e indosso l’elmo. Mi sembra di soffocare.
Con le gocce di sudore che iniziano a scendere rapidamente
lungo la mia schiena, mi assicuro la spada ben affilata al fianco,
nell’apposito fodero. Sono pronto a tornare al punto di raccolta, dove partirò
per questa strana missione.
Michele e gli altri confratelli scelti sono stati lesti e
silenziosi quanto me nella loro preparazione, e ce ne andiamo tutti assieme e
in silenzio. Siamo tesi, è inutile nasconderlo.
Gerusalemme ospita tra le sue mura un presidio di circa
cinquecento Cavalieri dell’Ordine, e se un quinto di essi devono abbandonare la
città, di certo è per qualcosa di molto importante.
Il Maresciallo in persona ci attende, anche egli è vestito
con una cappa nuova e la Croce rossa è come una ferita che gli marchia il
petto. A suo fianco, il Comandante di Gerusalemme, suo subalterno, in groppa ad
un magnifico cavallo da battaglia.
Io, Michele e tanti altri confratelli, per scelta e
vocazione, quando scortiamo i pellegrini ci muoviamo a piedi come loro.
Nonostante siamo Cavalieri, su un cavallo non riusciremmo a difendere al meglio
i nostri appiedati e fragili fratelli di Fede. Per questo marceremo anche
questa volta, seppur i nostri superiori cavalchino davanti a noi, aprendo la colonna
umana.
Ogni passo che compiamo è un tintinnare di ferro e armi, un
continuo svolazzare di cappe nuove e pulite.
Le strade che collegano Gerusalemme alla costa sono poche e
tutte molto battute, le conosciamo bene, e il paesaggio circostante riesce a
offrirci un vago senso di tranquillità. Ciò grazie alle sue forme lineari, ove
il terreno arido e sabbioso ogni tanto incontra bassi cespugli dalle foglie
bruciacchiate dal sole.
Siamo in una zona dove ancora possiamo notare il pericolo. Ma
uniti ci sentiamo fortemente al sicuro; di solito ci muoviamo in gruppetti da
massimo venti guerrieri, già così siamo molto temuti.
Ora, in cento, ci sentiamo invincibili. Non ci poniamo
nemmeno altre domande, seguiamo i nostri superiori e basta, senza sprecare
fiato o pensare troppo.
Che Dio sia con noi.
Scorgiamo i pellegrini poco oltre metà giornata. Il sole è
alto nel cielo e i nostri corpi sono madidi di sudore, però gli occhi li
abbiamo ancora ben validi, parzialmente protetti dall’elmo. Il caldo rende le
immagini sfuocate, e infatti sembra che si tratti di un misero gruppetto di
persone.
Invece, più ci avviciniamo e più udiamo rumori simili a
quelli che produciamo anche noi, e cioè di armi e di ferro. Infine riusciamo a
focalizzare la carovana nella sua completezza, e ci rendiamo conto che pare
immensa. Io, con gli occhi offuscati dal sudore, dal calore e dalla sabbia,
resto quasi inebetito al suo cospetto.
I nostri superiori si avvicinano alle avanguardie e
parlottano per qualche attimo, prima di farci cenno di disporci ai margini
della strada. A quanto pare, chiuderemo la fila delle persone in movimento.
E lasciamo allora che queste genti ci passino a fianco; la
maggior parte di loro è a piedi, ma tranne i guerrieri della Croce, tutti
contraddistinti dalle cappe bianche e dal simbolo della Fede, il resto sono
perlopiù soldati di evidente provenienza germanica.
Alcuni indossano pesanti armature come se stessero per
combattere una battaglia decisiva, altri sono a cavallo, ma si tratta per lo
più di Cavalieri Orientali.
Nel centro del corteo, un grande carro trainato da una decina
di cavalli. Ricco, sfarzoso.
Quando transita a mio fianco, a qualche passo da me, non
posso non chiedermi chi ci sia al suo interno. Non sono abituato a tanti fasti.
Alla fine ci ritroviamo ad accodarci alla carovana, certi che
nessuno ci attaccherà. Credo che sia da tempo che la Terra Santa non viene
attraversata da così tanti soldati armati fino ai denti, uniti in un unico gruppo.
Il ritorno a Gerusalemme, come previsto, è calmo. Nessun
predone ha le forze necessarie per poter scalfire anche solo minimamente le
nostre difese.
Noi crociati siamo abituati al clima locale e al ferro che ci
portiamo addosso quasi continuamente, mentre i soldati stranieri hanno fatto molta
più fatica del previsto. A un certo punto, quasi arrancavamo, poiché avevano
perso ritmo.
Per fortuna, a sera le accoglienti mura di Gerusalemme hanno
saputo farci accomodare tutti quanti. La sorpresa nella Città Santa è generale,
poiché ormai era chiaro che non sono giunti dei semplici pellegrini.
“Ci hanno fatto scortare qualcuno di importante”, aveva
presagito il mio fedele amico, ma non ci voleva uno sforzo eccessivo per
comprenderlo.
L’arcano si svela solo quanto il grande carro coperto si
ferma ormai al sicuro delle mura, e da esso scende un baldo giovane. Subito, i
guerrieri occidentali si inginocchiano in segno di devota adorazione.
Noi restiamo fermi, invece, in trepidante attesa. Tuttavia i
nostri superiori non elargiscono alcun ordine, anzi, si recano dal ragazzo e
gli parlano. Non alzano lo sguardo.
Le vesti del giovane sono sontuose, color porpora, e indossa
il lungo manto imperiale. Che sia un importante vassallo, o magari un conte
tedesco?
Egli viene condotto via da noi, dai nostri sguardi a cui vien
sottratto con rapidità. Come un gioiello da proteggere. Solo dopo qualche ora
inizia a divulgarsi la voce che abbiamo scortato a Gerusalemme un principe
cadetto, Enrico della dinastia dei Porfirogeniti, secondo figlio del defunto
Imperatore Teodoro IV di Sassonia.
Nonostante siamo uomini di Chiesa, umili guerrieri addestrati
solo per difendere la Vera Fede e i poveri pellegrini, la lingua non l’abbiamo
perduta. Molti confratelli adorano spettegolare e i pettegolezzi cominciano a
divulgarsi in fretta dopo un avvenimento importante.
Di certo, l’arrivo in Terra Santa di un principe è qualcosa
di veramente raro. Pare che il giovane sia sbarcato a Cesarea solo due giorni
fa, e condotto qui grazie a una lunga marcia forzata. I suoi uomini sono a
pezzi e il Maestro in persona è andato a conferire con lui.
Pare sia ospitato presso il sontuoso palazzo che si erge
sulle rovine di quello che un tempo era il principale Tempio ebraico della
città, demolito dai crociati.
“Dicono che la guerra sia imminente”, proferisce Michele,
dopo aver parlottato con altri suoi amici molto chiacchieroni. Io ho preferito
ritirarmi in preghiera, in fondo sono ancora convinto che il nostro nobile
ospite sia giunto fin qui solo per accertarsi che regni la pace fin negli
angoli più remoti dello sterminato Impero di suo fratello, l’Imperatore Teodoro
V Porfirogenito, anch’egli nato dalla porpora come tutti i suoi più illustri
antenati.
“E’ qui in pace”, replico, un po’ seccato.
“I rapporti tra lui e suo fratello maggiore si sono resi
complicati. È probabile che voglia coinvolgere l’Ordine in una guerra in
Oriente, magari per crearsi un Regno suo…”.
Lo interrompo con un gesto categorico della mano destra, che
quasi gli giunge alle labbra per zittirlo.
“Nessuno userà la Croce per una personale guerra di
conquista. Ciò è oltraggio e bestemmia, anche solo pensarlo”, affermo,
categorico. Michele però sorride.
“Non conosci i potenti. Tu non hai mai vissuto a
Costantinopoli, dove le famiglie patrizie da secoli lottano per il predominio
sul Senato. Non sai nulla”.
Socchiudo gli occhi e torno a unire le mani davanti al mio
viso, emettendo un profondo sospiro. Il mio fedele amico è importante per me,
ma è ancora più importante la preghiera, il raccoglimento, la Fede. Altrimenti
non sarei venuto fin qui. I comuni monasteri sono presenti anche in Germania.
Non amo parlare di cose mondane, di potere terreno o
quand’altro, e neppure avere amici, però Michele è fatto così… siamo nati e
cresciuti in realtà differenti, e anche quando lui mi parla in quel modo riesco
a capirlo.
È vero, sono solo un campagnolo nato e cresciuto lontano dal
fulcro della cultura greca e latina che influenzano il nostro sterminato
Impero, ma non ho scelto di donarmi a tutto ciò.
Non ho scelto di prestarmi a pettegolezzi o alle amicizie di
troppo. Un amico basta e avanza, mentre si cammina sul selciato di Dio. Troppe
persone poi fanno chiasso e distolgono l’attenzione dal vero fulcro
dell’esistenza.
“Io non so nulla, fratello. Sono solo un umile braccio di
Dio”, dico, senza più alcuna voglia di parlare. E il greco lo sa che quando mi
comporto così voglio essere lasciato solo, quindi torna dagli altri
confratelli, che ancora parlano. Parlano troppo.
A zittirli è il suono della campana che annuncia il momento
di andare a letto, e nessuno aspetta in piedi; la sveglia è all’alba e le
preghiere non possono aspettare.
Anche io vado a letto, cercando di dimenticare quello che sta
accadendo, o per lo meno cercando di interpretarlo nel modo migliore possibile.
Al mio risveglio, il sole è presente come sempre. È la solita
alba, ma il frastuono che rimbomba nella Città Santa rende questa mattinata
alquanto insolita.
Sono un po’ frastornato quando mi lascio trasportare fuori dal
dormitorio comune dai miei compagni, anche loro svegli. Tutti quanti assieme,
questa volta.
Ancora mezzi nudi ci affacciamo al portone di legno e
facciamo a spintoni per osservare i gruppi armati che stanno marciando per le
pacifiche strade di Gerusalemme; guerrieri di tutti i tipi, chi porta la Croce
impressa sulla cappa bianca e chi veste ferro o oro. Vengono da tutto
l’Occidente e dall’Oriente cristianizzato.
Mi vesto in fretta e mi lascio travolgere dal movimento delle
persone armate, un flusso continuo che sta invadendo la città. Non mi chiedo
cosa sta succedendo… ormai, travolto dagli eventi, non posso far altro che
assecondarli. E continuare a sperare e a pregare.
Ma per cosa, poi? Tante armi possono solo portare la guerra.
Una nuova e improvvisa crociata, nonostante la longeva e prospera pace che ci
lega agli infedeli, una pace forzata che ha fatto bene a entrambi,
permettendoci di prosperare? Proprio ora, che il nemico sembra ormai
disinteressato al dominio su Gerusalemme?
Non ho risposte, so solo che ho paura.
Le mie braccia sono strumenti di Dio, come il mio umile e
miserabile corpo, ma non voglio combattere qualcosa di fondamentalmente
ingiusto. Mi sento in dovere di pregare, e lo faccio, nonostante tutto questo
frastuono inaspettato.