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Autore: _Lightning_    19/06/2019    4 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo I

Un amichevole Spider-Man di quartiere alla Casa Bianca




“A tournament, a tournament, a tournament of lies
Offer me solutions, offer me alternatives

And I decline
It’s the end of the world as we know it
And I feel fine”

[It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine) – R.E.M.]

 

 

 

«Dovevo vestirmi più formale?»

«Non agitarti, ragazzo: è solo il Presidente.»

La risposta flemmatica di Tony non lo tranquillizzò affatto. Peter gli scoccò un’occhiata sbieca che lui ignorò col consueto fare disincantato.

«Se avessi saputo che voleva parlare col Presidente, mi sarei almeno messo una cravatta,» protestò ancora a mezza voce, accennando alla felpa blu della Midtown e ai jeans casual che indossava, in netto contrasto con l’impeccabile completo formale dell’altro. «O il costume.» 

In quel momento si sarebbe sicuramente sentito più a suo agio con la maschera a coprirgli il volto. La tentazione di tirarlo fuori dallo zaino e appartarsi in un bagno pubblico per cambiarsi si stava facendo via via più insistente, in un bisogno fisico di sentire il tessuto sintetico aderire rassicurante alla sua pelle. Tony sbuffò e lanciò un’occhiata circospetta attorno a sé da dietro le lenti scure. Miracolosamente, nessuno dei pochi avventori a passeggio per il parco di Capitol Hill stava prestando loro attenzione, nonostante il suo mentore non passasse certo inosservato.

«Abbassa la voce,» borbottò comunque lui, con fare teso.

«Guardi che non tutti hanno un super-udito,» lo punzecchiò Peter, pur rendendosi conto dell’insolita serietà di Tony.

«Non si sa mai,» replicò questi, senza sorridere.

«Sta diventando paranoico,» sospirò rassegnato lui. 

Accontentò comunque la sua richiesta e mantenne un volume moderato nel parlare, cosa che gli riusciva sempre piuttosto difficile. Aveva inteso quel commento in modo scherzoso, ma un cipiglio contrariato andò a incidere una ruga sottile sulla fronte del suo mentore.

«Puoi biasimarmi?» proferì soltanto, seccamente.

Peter scrollò le spalle, a sfuggire quella domanda retorica a cui avrebbe potuto dare solo risposte ipocrite, visto che come al solito aveva i bracciali spara-ragnatele ai polsi. Indossarli costantemente, notte e giorno, era ormai diventata un’abitudine rassicurante – e senz’ombra di dubbio paranoica.

Quella mattina era stato particolarmente sollevato nel percepirne la tenue stretta sulla pelle. Aveva avuto un brutto presentimento, quando Happy era venuto a prenderlo a sorpresa a scuola nonostante fosse mercoledì. Di solito si trasferiva al Complesso di venerdì per tutto il finesettimana, così da mantenere la copertura del “tirocinio alle Stark Industries”, ma l’autista era stato ancor meno loquace del solito nel fornirgli spiegazioni, se non che May era al corrente della cosa. Peter aveva immaginato, con un ben noto picco di disagio, che l’avesse informata quando erano andati a cena fuori la sera prima.

Poi, invece di fare rotta verso la Tower o l’Upstate, l’aveva condotto al terminal privato del JFK. In meno di un quarto d’ora, si era trovato seduto sugli eleganti sedili in pelle di un jet, con lo zaino di scuola ancora in braccio, Happy che lo salutava energicamente da oltre l’oblò e uno steward a sua completa disposizione che l’aveva infine informato di essere atteso a Washington dal signor Stark. Peter si era limitato ad annuire frastornato, spiluccando poi senza appetito il pranzo a cinque stelle mentre messaggiava con Ned, scusandosi in modo vago per aver fatto saltare quel pomeriggio di studio con lui e MJ. Aveva tenuto per sé dove fosse diretto: non gli serviva il senso di ragno per rendersi conto che qualcosa non tornava.

L’impressione si era acuita non appena Tony gli si era fatto incontro all’aeroporto della capitale vestito di tutto punto, con degli occhiali particolarmente ampi e scuri sul naso e quell’aria di manifesta giovialità e leggerezza che assumeva quando c’era qualcosa che lo turbava. Ormai gli riusciva fin troppo facile leggerlo: era evidente come il suo mentore, a Washington, non avrebbe voluto metterci piede neanche per sbaglio. C’erano pochissime motivazioni che potessero spingere Tony Stark a fare qualcosa a lui sgradito, e nessuna di esse era positiva.

Peter si era limitato a tenere per sé la propria incontrollabile curiosità, accettando di accompagnarlo in città per alcune “commissioni” non meglio definite. Il suo mentore non era famoso per la propria riservatezza, ma aveva comunque sviato ogni sua domanda con consumata impassibilità, e Peter si era ben presto rassegnato ad aspettare un momento più propizio.

La loro prima tappa era stata il Campidoglio, dal quale Tony era uscito dopo meno di un quarto d’ora ancor più incupito, affermando con una traccia di ostilità ben palpabile di essere stato reindirizzato alla Casa Bianca dal Segretario Ross. Con perplessità di Peter, aveva rinunciato all’auto e si era incamminato a piedi attraverso l’immenso parco presidenziale, come ad allungare coscientemente il tragitto.

Anche ora, nell’avvicinarsi al candido edificio dal quale si decidevano le sorti del Paese, sembrava volersi mantenere il più a lungo possibile a distanza da esso, posando passi sempre più svogliati sul vialetto. Peter era abbastanza sicuro che quel rallentamento derivasse anche da cause fisiche, ma non gli propose di fermarsi o sedersi per fare una pausa. Sapeva quanto Tony detestasse quelle premure.

Dopo un quarto d’ora buono, erano ancora immersi in un silenzio per loro insolito, che iniziava a pesargli come una cappa funesta sulle spalle a dispetto della bella giornata di sole, col parco rigoglioso ma visibilmente incolto che si stendeva davanti a loro a perdita d’occhio. Fu quando costeggiarono la piazza del Monumento a Washington che Peter non riuscì più a trattenersi, se non altro per distrarsi dai ricordi non esattamente piacevoli che gli evocava quel luogo.

«Sa che io di politica non ne capisco nulla, vero?» esordì con un po’ di titubanza, e Tony sembrò quasi non sentirlo, per poi riscuotersi dopo un paio di passi, lo sguardo ancora perso altrove.

«Appunto. È ora che cominci ad ambientarti,» sentenziò rapido.

«Dubito di poterle essere utile, a meno che lei non abbia intenzione di rapire il Presidente,» osservò Peter, e nel parlare sollevò una manica scoprendo uno spara-ragnatele a mo’ di spiegazione, nel blando tentativo di dissipare il suo umore tetro.

Tony sollevò appena un angolo delle labbra, tirandogli subito giù il polsino con fare scherzoso.

«Buono, ragnetto. Anche se l’idea mi ha sfiorato,» gli concesse poi, con un sospiro silenzioso che sapeva d’esasperazione.

Peter tacque finché non si lasciarono alle spalle l’obelisco, continuando a mordicchiarsi nervosamente le labbra e a strattonare la spallina dello zaino mentre rimuginava su quelle parole.

«È così grave?» proruppe poi, e Tony trasalì impercettibilmente. «Qualunque cosa sia, intendo. Se c’è davvero qualcosa.»

«No,» ribatté l’altro, cacciandosi le mani nelle tasche dei pantaloni, per poi incassare la testa tra le spalle e calciar via un sasso capitato sul suo cammino.

A Peter diede molto l’impressione di uno scolaretto obbligato ad andare a lezione contro la sua volontà, e che si impegna a rendere manifesta la propria avversione lungo il tragitto forzato.

«Non lo so,» esalò infine dopo qualche istante, con palpabile reticenza e uno scatto del capo.

Peter meditò un istante, per poi stamparsi in faccia un’espressione spavalda:

«In una scala da uno a Thanos…»

Tony soppresse uno sbuffo che celava una punta di tensione.

«Ok, non è così grave,» rispose in fretta, dandogli un rapido buffetto sulla spalla mentre camminava, come a controllare che fosse ancora fisicamente lì. «Ma non è un problema che possiamo sottovalutare,» borbottò in fretta, a scacciare del tutto quell’argomento tabù.

«Possiamo?» ripeté Peter, assottigliando gli occhi nell’individuare uno spiraglio tra le parole di Tony.

Lui trattenne silenziosamente il respiro, colto in fallo, e irrigidì la mandibola. Peter batté le palpebre, a dissipare uno di quei fugaci momenti in cui gli sembrava che ci fosse troppo grigio a striargli i capelli e il pizzetto.

«Sì, possiamo,» gli confermò poi, controvoglia. «C’entriamo tutti, in questo casino,» sbottò con improvvisa frustrazione, portandosi una mano irritata alla nuca e accelerando appena il passo.

Peter si accigliò e gli tenne dietro senza più porre domande, mentre il senso di ragno gli inviava uno spiacevole, smorzato pizzicore lungo le sinapsi.

 

 

Non si era mai soffermato a riflettere su come potesse essere l’interno della Casa Bianca, ma, se l’avesse fatto, la realtà non si sarebbe poi discosta molto dalla fantasia: marmo ovunque, tappeti rossi srotolati lungo corridoi interminabili e lampadari di cristallo a diffondere una luce solo apparentemente calda, attutita dal colore candido e dominante che rispecchiava il nome dell’edificio presidenziale. L’odore penetrante di cera per pavimenti gli anestetizzava le narici, e si sforzò di reprimere una smorfia infastidita.

Lui e Tony erano stati fatti accomodare su delle scomode sedie foderate di raso rosso in un ampio corridoio delimitato da colonne, coi busti in marmo dei Presidenti che li scrutavano torvi dalle loro nicchie a volta. George Washington sembrava particolarmente seccato dalla loro presenza. Non era un luogo accogliente, e più si guardava intorno meno lo diventava, così si sforzò di mantenere lo sguardo basso, a riflettersi sul lucido marmo sotto le sue scarpe da ginnastica scolorite che stringevano lo zaino.

Tony sembrava molto più a suo agio e Peter non se ne stupì troppo: magari non veniva convocato tutti i giorni allo Studio Ovale, ma non era certo la prima volta che vi metteva piede. Sedeva comunque in tensione, con una caviglia poggiata sul ginocchio, la gamba sottostante che fremeva irrequieta e gli occhiali da sole ancora a schermargli il volto; abbassava spesso lo sguardo sull’importante orologio che spuntava dal polsino sinistro, come se fissarlo in cagnesco potesse far accelerare le lancette.

Peter scoccò a sua volta un’occhiata al quadrante, constatando che fossero passati molti meno minuti rispetto a quelli che aveva percepito scorrergli addosso. Si rese conto di fissare Tony con troppa insistenza solo quando questi abbassò a sua volta lo sguardo con fare interrogativo, e lui si affrettò a puntare di nuovo il proprio sulle punte dei piedi, sperando di farla passare per un’esternazione di nervosismo.

In verità, gli riusciva ancora difficile distogliere l’attenzione dalla mano sinistra di Tony, col suo dorso solcato da cicatrici spesse e nodose, la pelle tirata sulle nocche e il palmo più liscio del normale a causa delle ustioni che gli aveva inflitto il Guanto[1]. Lui ci scherzava spesso su e diceva che un mignolo fuori uso e una mano che avrebbe fatto impazzire una cartomante erano un prezzo di favore per essere scampato alla fine del mondo. Degli altri danni collaterali non parlava mai: si comportava come se non esistessero e gli altri seguivano il suo esempio.

Peter sapeva che, in fondo, Tony aveva ragione, su tutto, ma in testa aveva ancora impressa l’immagine del suo mentore in fin di vita, agonizzante e riverso tra le macerie intrise del suo stesso sangue, mentre cercava debolmente di strapparsi di dosso il Guanto semifuso e incandescente che gli si era saldato sulla pelle. Si riscosse da quei ricordi vividi che continuavano a frapporsi tra i suoi occhi e il mondo reale, distorcendolo.

Guardò di nuovo di sottecchi la mano, e la pelle di Tony tornò ad apparirgli rosea, guarita e intatta, con le cicatrici ingentilite dalla fede dorata che gli cingeva l’anulare. Riprese a respirare, con l’impressione di avere della polvere nei polmoni che si affievoliva e l’irrefrenabile bisogno di distrarsi a suon di parole – perché dopotutto era con Tony Stark alla Casa Bianca e non ne aveva ancora capito il perché.

«Il Presidente sa che lei è qui?» chiese sottovoce, accostandosi appena a Tony.

Questi lo squadrò per qualche istante, prima di annuire con un mugugno prolungato a rassicurarlo, seppur con leggera titubanza.

«Siamo alla Casa Bianca, non in chiesa,» lo canzonò subito dopo, con un accenno del suo solito sogghigno. «Perché devi sussurrare?»

Peter fece un sorrisetto imbarazzato che non rilassò il suo volto, tracciandovi invece nuove linee di tensione.

«Ecco, insomma…» tentennò e si poggiò allo schienale, reclinando la testa all’indietro mentre si guardava intorno con perplessità. «Sono un ragazzo del Queens, signor Stark. Che ci faccio… alla Casa Bianca?» riuscì a chiedere infine, riportando gli occhi increduli sul suo mentore.

Questi in tutta risposta si passò una mano sul mento a lisciarsi il pizzetto, segno che stava per propinargli una risposta molto generica e molto insoddisfacente.

«Mi serviva qualcuno di meno rompiscatole di Rogers, di meno compromesso di Barton, di meno appariscente di Banner… insomma, hai capito,» sbuffò, con un gesto svolazzante della mano.

Peter sollevò appena le sopracciglia, cogliendo il filo logico non del tutto celato.

«Insomma, un anonimo?»

Tony incrociò le braccia, inclinando il mento sul petto e aspettando pazientemente che la guardia di ronda li superasse prima di rispondere:

«Un… supporto neutrale,» confermò poi, in modo ancor più vago. «Per ora. Non sono del tutto certo che quando usciremo di qui sarai dello stesso avviso, ma…»

«Tony, mi spieghi cosa sta succedendo?»

Lui gli rivolse uno sguardo leggermente stralunato, come sempre quando lo chiamava per nome e lasciava da parte le formalità. Non amava farlo e, anzi, lo evitava il più possibile, ma aveva imparato abbastanza alla svelta che era un ottimo modo per interdirlo, oltre che per renderlo molto più incline a lasciar cadere qualsivoglia maschera indossasse al momento.

Anche adesso, incrociò le braccia e schioccò appena la lingua, per poi decidersi a togliersi gli occhiali da sole e riporli nel taschino. Le ombre che gli incorniciavano il volto divennero più evidenti, così come la bruciatura sulla tempia sinistra, che gli accartocciava l’orecchio e scendeva rossastra a lambirgli il profilo del viso fino a scomparire sotto al colletto della camicia. Peter non poté fare a meno di accigliarsi, spostando d’istinto lo sguardo sul suo lato intatto. L’ultima volta che l’aveva visto così corrucciato erano su un’astronave aliena. Non era un ricordo che rivangava volentieri.

«Non hai davvero nessuna idea?» interloquì Tony, senza esporsi.

Peter arricciò pensoso le labbra. Nell’ultimo periodo aveva captato una sorta di elettricità statica al Complesso, ma vista la sua volontaria estraneità ai Vendicatori non era stato coinvolto in tutte le riunioni. Sapeva solo che ultimamente erano aumentate, e che spesso Tony abbandonava il laboratorio per stare anche un paio d’ore al telefono con Steve, o il Colonnello Rhodes, o chi per loro, sempre con un’aria molto insoddisfatta ad appesantirgli il volto quando si rimetteva al lavoro. Poi, considerato l’esito dell’ultimo meeting a cui aveva partecipato, gli sovveniva più di una causa valida per quel cattivo umore latente, anche se non ne capiva appieno le dinamiche.

«Qualcuna,» ammise quindi, ma, prima che potesse continuare, Tony lo interruppe, come se gli servisse solo quella conferma:

«So a cosa hai pensato, e , c’entra anche quello,» disse, serio ma senza durezza. «Ti spiegherò tutto dopo la mia chiacchieratina con lo zio Sam,» promise, alzando il palmo imperfetto a rimarcare quelle parole. «Adesso però dovrai sorbirti un piccolo interrogatorio extra, visto che a quanto pare trascinarti alla Casa Bianca è l’unico modo che ho per parlarti di persona,» lo stuzzicò, recuperando il suo atteggiamento disinvolto e spingendolo di lato con la spalla a mo’ di sollecito.

Peter sorrise nervosamente, intrecciando le dita davanti a sé senza guardarlo, avendo intuito dove voleva portare il discorso e parzialmente deluso per non aver ottenuto spiegazioni.

«È che sono stato un po’ impegnato con gli esami e… e tutto il resto. Devo… devo recuperare, lo sa,» concluse, appigliandosi alla giustificazione più ovvia, abusata e, in fondo, vera.

Lo sguardo inquisitore di Tony gli fece capire chiaramente che quella era una scusa molto debole, per quanto fondata, e che solo per quest’ultimo motivo si sarebbe astenuto dal contestarla apertamente.

«Mh-hm,» mugugnò comunque, a esprimere tutto il suo scetticismo. «Io penso che tu mi stia anche evitando, ma sarà solo una mia impressione,» buttò lì, scrutandolo con più intensità.

Peter si agitò sul suo sedile, a corto di scuse.

«Forse ho bisogno di… tempo per pensare, per stare da solo… e riflettere, ecco,» si costrinse a rispondere, rapido e titubante.

Strinse le dita intrecciate, alla ricerca delle parole giuste, temendo che quelle non fossero abbastanza e sperandolo al contempo. Tony si rattristò, lo vide dal modo in cui compresse le labbra con disappunto, come se non fosse quella la reazione che avrebbe voluto suscitare in lui. Peter desiderò di non aver mai aperto bocca.

«Dimmi solo una cosa,» sospirò poi l’uomo, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice come a contenere i pensieri. «C’entra Thanos?» chiese, voltandosi verso di lui.

Peter deglutì e si obbligò quindi a sostenere il suo sguardo, fattosi ora addolorato. Quella era una domanda a doppio e triplo fondo e sapeva che Tony si tratteneva dal porla tanto spesso quanto avrebbe voluto solo perché le sue ramificazioni finivano per toccare anche lui. Thanos non era solo un nemico tangibile: Thanos era il tempo perso, era il vuoto, era l’arancione degli incubi, era cenere e sangue, era la paura, lo smarrimento e la vertigine che teneva chiuse sottochiave da sei mesi.

«Non del tutto,» svicolò, sentendosi messo alle corde. «Non ci penso così spesso.»

Mentì, tacendo le notti in cui si svegliava in un bagno di sudore e col fiato mozzo, con la netta percezione delle sue ossa friabili come cenere e la sensazione di essersi dimenticato qualcosa, troppe cose.

«E a tutto il resto mi sto… riabituando. Sto riempiendo i vuoti, e per fortuna ci sono Google e Wikipedia, così è più facile, più o meno,» aggiunse in rapida successione, sfregando tra loro la punta delle dita in un riflesso nervoso quanto il suo sorriso.

«Ok,» gli accordò Tony in contrasto con la voce costretta, concedendogli il beneficio del dubbio. «Tua zia, da quanto so, sta bene, e non hai l’aria di chi ha il cuore spezzato. Quindi, per esclusione, deduco che sia comunque colpa mia,» concluse, inclinando appena di lato la testa.

Peter meditò se contraddire quel “comunque” che nascondeva altri sottintesi odiosi, di quelli che avrebbe voluto strappare a forza dalla testa di Tony pur sapendo quanto sarebbe stato futile, perché il senso di colpa è uno di quei sentimenti che pianta le proprie radici in profondità e continua a germogliare anche dopo che è stato estirpato, come erba gramigna. Si limitò a lanciargli un’occhiataccia di rimprovero, consapevole di quanto poco apparisse minaccioso senza la maschera di Spider-Man.

«Non la seguo,» lo incalzò.

«Mi eviti da quando abbiamo parlato dell’università,» dichiarò Tony alzando il mento, senza più giri di parole. «Mi fingo stupido, ragazzo, ma non lo sono,» puntualizzò, con una nota appena risentita.

Peter sospirò, umettandosi le labbra e abbassando lo sguardo a schermare gli occhi che, lo sapeva, si erano fatti più inquieti del dovuto. Il silenzio nel corridoio diventò opprimente, scandito solo dal ticchettio dell’orologio di Tony e dai passi cadenzati della guardia, entrambi assordanti per le sue orecchie sensibili. Quella faccenda dell’università lo stressava e sembrava seguirlo come un’ombra: bastava menzionarla per renderlo un fascio di nervi suscettibile alla minima perturbazione.

Quasi scosse la testa a rimproverarsi: in cuor suo sapeva perfettamente perché quella scelta ormai sempre più vicina lo turbasse a tal punto, ma non era il genere di discussione che poteva affrontare con Tony. O con May. Con chiunque, a dir la verità, incluso se stesso.

«Non la sto evitando,» si difese infine, odiandosi per la sua incapacità nel mentire, oltre che per la bugia in sé.

Evitare Tony era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma nell’ultima settimana gli era venuto naturale, in una sorta di autodifesa istintiva che aveva limitato i contatti a poche chiamate stringate e qualche messaggio di circostanza. Una reazione del tutto spropositata, per la semplice domanda che Tony aveva buttato lì lo scorso sabato pomeriggio, mentre erano a zonzo al centro commerciale del Columbus Circle appena riaperto. Era una domanda normale da porre a qualcuno della sua età, ma a lui quel punto interrogativo sembrava calzare come un vestito troppo largo in cui avrebbe solo potuto inciampare in modo ridicolo.

«Ci sto pensando, è una scelta…» annaspò in cerca della definizione più adatta, senza trovare una parola che racchiudesse al contempo “insensata”, “prematura” e “terrificante”, «… difficile,» concluse sbrigativo e parzialmente insoddisfatto, ma senza osare spingersi oltre.

Tony, per un istante, sembrò sul punto di lasciar cadere la questione, senza pressarlo ulteriormente.

«Non voglio pressarti…» esordì subito dopo, schioccando piano la lingua.

Peter presagì il “ma” in arrivo e avrebbe alzato gli occhi al cielo, se Tony non fosse stato Tony e se non ci fossero stati mille valide ragioni per non rispondergli in modo stizzito, oltre a quelli imposti dalla buona educazione che gli aveva impartito May.

«… ma magari parlarne faciliterebbe le cose, no?» propose, in modo assolutamente logico e per questo inaccettabile, soprattutto perché non l’aveva posta come una vera domanda.

«Forse,» gli concesse malvolentieri, mordendosi l’interno della guancia e continuando a tacere.

Tony sospirò, scivolando sempre più in avanti sulla propria sedia come se si stesse sgonfiando a poco a poco.

«Missione fallita, suppongo,» constatò poi con falso brio, raddrizzandosi di colpo e facendolo accigliare perplesso. «Cercavo di capirci qualcosa, ragazzino,» aggiunse ammiccando, come se quella fosse una spiegazione esaustiva.

«Uh… stiamo parlando ancora dell’università?» prese tempo Peter, confuso.

«Il punto è che tu andrai all’università, e con “tu” intendo il tuo io fisico e metaforico,» gesticolò lui, tornando a fissarlo eloquente.

Peter incrociò brevemente il suo sguardo, per poi sfuggirlo e prendere a passare un indice tra uno spara-ragnatele e il polso, in attesa di un continuo che in cuor suo temeva.

«E non sono il solo a voler sapere che fine farà il tuo alter ego a otto zampe,» esplicitò infine Tony, accennando col mento alle porte di fronte a loro.

Peter deglutì, improvvisamente conscio di quanto sembrasse minacciosa la porta dello Studio Ovale, con l’aquila ad ali spiegate che incombeva severa su di loro.

«Quindi siamo qui per questo?»

Tony annuì per metà e, di nuovo, parve seccato.

«Anche. O meglio, io sì. Sono in una brutta posizione, tanto per cambiare, e l’ultima cosa che voglio fare è trascinarti con me, di nuovo. Non me lo perdonerei mai,» sottolineò con forza, quasi con rabbia, e Peter si affrettò a contraddirlo:

«Ho scelto io di seguirla su Titano, non so più come…»

«Parlavo di Lipsia,» lo interruppe lui, in modo brusco. «Palesemente errore mio, visto che ti ho coinvolto nella nostra faida familiare… anche se a mia discolpa pensavo che si sarebbe risolta con una sana litigata, magari con un divorzio poco pacifico e alimenti da pagare, ma…»

«Lipsia?» lo interruppe a sua volta Peter, mancando un colpo. «Un momento… cioè, gli… gli Accordi? Il casino all’aeroporto? È di questo che stiamo parlando?» chiese a raffica, senza celare il proprio sgomento e cercando lo sguardo di Tony, che si stava però impegnando a sfuggirlo.

Lo vide aprire e chiudere la bocca un paio di volte, ma prima che potesse cavarsi fuori una risposta coerente fu provvidenzialmente salvato dalla voce di un addetto:

«Signor Stark, il Presidente è pronto a riceverla.»

Tony scattò in piedi come una molla, con agilità impensabile, svicolando la domanda e ignorando lo sguardo penetrante che Peter s’impegnò a scoccargli per quella brusca interruzione.

«Non fissarmi così, senza maschera non sei credibile,» lo prese in giro Tony in un sussurro, mentre si piazzava di nuovo gli occhiali da sole sul naso e recuperava la sua facciata spavalda. «Aspettami qui, e non toccare niente,» aggiunse a voce più alta, puntando un indice perentorio nella sua direzione prima di sparire oltre le porte della Sala Ovale.

Peter rimase con un palmo di naso, decisamente contrariato e con un tramestio soffuso ad agitargli cervello e stomaco. Incrociò strettamente le braccia sul petto e le caviglie attorno allo zaino fingendo disinvoltura, ben consapevole dello sguardo attento della guardia di sicurezza puntato su di lui. Probabilmente si chiedeva cosa diavolo ci facesse un adolescente alla Casa Bianca, per di più al seguito di Tony Stark. Pregò solo che non gli venisse in mente di perquisirlo: avrebbe avuto qualche difficoltà a spiegare la presenza del costume nel suo zaino, e ancor di più a giustificare gli spara-ragnatele appuntati sui suoi polsi.

Si limitò a rimanere in attesa, con le ginocchia traballanti per il nervoso e lo sguardo che oscillava tra l’emblema dell’aquila bronzea stagliata sulla porta e gli occhi di marmo freddi e inquisitori che parevano appuntati su di lui.

 

 

Tony riemerse dall’incontro dopo quasi quaranta minuti, giusto in tempo per evitare che la sua approfondita analisi del cipiglio indispettito di Abraham Lincoln si trasformasse in un danno da qualche migliaio di dollari. Peter si raddrizzò all’istante, discostandosi innocentemente dal busto marmoreo con cui era faccia a faccia, ma l’uomo gli rivolse a malapena un cenno distratto del capo mentre già si avviava verso l’uscita.

Lui recuperò in tutta fretta lo zaino, rivolse un impacciato saluto alla guardia di sicurezza impassibile e si fiondò sulla scia di Tony con le scarpe da ginnastica che squittivano in modo ridicolo sul marmo lucido. Il suo mentore lasciò andare un respiro liberatorio non appena varcò la soglia dell’edificio, e Peter colse con fin troppa chiarezza le linee di tensione scolpite nel suo volto, ora più simile alle statue che si erano lasciati alle spalle che all’immagine disincantata che sfoggiava solitamente in pubblico.

Ogni domanda gli morì sulle labbra, soffocata dal ritmo di tamburo un po’ troppo accelerato che aveva iniziato a seguire il suo cuore, e scese rapido le scale candide che davano sul prato, inalando a pieni polmoni l’aria tiepida.

Il sole li accolse più fioco di prima, velato da una nube di passaggio. Il cambiamento di luce mise in risalto quei dettagli che Peter aveva cercato di mantenere ai margini del proprio campo visivo: le aiuole e le siepi mal potate, la fontana prosciugata, il prato inframezzato da chiazze aride e i bidoni straripanti di rifiuti. La normalità in un qualsiasi parco del Queens, non certo per quello della Casa Bianca.

D’altronde, “normalità” era un concetto che ancora dopo sei mesi faticava a ingranare, lasciando il mondo a sussultare sul posto, come un motore inceppato che qualcuno sta cercando di avviare con troppa insistenza. Peter si sentiva fisicamente parte di quell’ostruzione: uno dei tanti sassolini capitati tra gli ingranaggi, che rischia di schizzar via o di essere polverizzato da un momento all’altro. Di essere schiacciato. Ridotto in cenere.

Deglutì, sentendosi di colpo palmi viscidi. Toccò gli spara-ragnatele concentrandosi sulla loro stretta rassicurante, lieto che Tony fosse ancora un paio di passi dietro a lui. Si sentiva agitato come non lo era da tempo, ma attribuì la colpa alla giornata densa di avvenimenti e pensieri che ancora sembrava lontana dal volgere al termine. In realtà era sempre agitato, ma aveva imparato ad ignorare quel fastidioso tumulto di fondo.

La nube fu trascinata via dal vento leggero, permettendo ai raggi del sole primaverile di trapelare: il mondo tornò a essere tinto di verde e bianco e azzurro, scacciando la sfumatura grigiastra dai suoi occhi e alleviandogli il respiro. Ritenne sicuro voltarsi verso il suo mentore, e lo sorprese intento a scendere rigidamente e con cautela le ampie scale di marmo, usando solo la gamba destra come appoggio. Fece per andargli incontro, ma Tony intercettò il suo sguardo e si affrettò a superare gli ultimi due gradini quasi con brio, soffocando tra i denti un’imprecazione che raggiunse comunque le orecchie di Peter.

«Signor Stark…» cominciò titubante, ma lui lo interruppe con un gesto svogliato della mano.

«Il tutore sta facendo di nuovo le bizze,» disse rapido, superandolo e costringendolo a seguirlo per non rimanere indietro. «Adesso capisco perché Rhodey si lamenta sempre…» borbottò poi, puntando con improvvisa decisione una panchina a qualche metro da loro e lasciandovisi cadere di peso con uno sbuffo sollevato.

Peter lo imitò in silenzio, con qualche brandello di preoccupazione ad aleggiargli in testa, ma tenne lo sguardo fisso sul ghiaino. Prese a smuoverlo con la punta delle scarpe, coi pensieri di nuovo impigliati su quei sassolini fermi nel punto sbagliato.

«Ragazzo,» lo richiamò Tony, facendolo quasi trasalire. «Mi stai ascoltando?» indagò, inclinandosi verso di lui e scrutandolo inquisitore da dietro il bordo delle lenti.

«Uh… sì, certo! Certo che sì,» farfugliò lui alzando di scatto lo sguardo, con gli occhi un po’ sbarrati a tradirlo. «Insomma… può essere un po’ più specifico? Intendo, di cosa avete parlato a parte… Spider-Man? Perché c’entro anch’io, cioè lui, giusto?» tentò, incassando poi la testa tra le spalle con fare insicuro.

«Spider-Man per ora è fuori dall’equazione… o meglio, è un’incognita che mi sono impegnato a far rimanere tale,» rispose enigmaticamente Tony.

Si aggiustò gli occhiali da sole sul naso, senza manifestare l’intenzione di toglierli. Peter deglutì, in attesa di un continuo, pungolando mentalmente il suo mentore che, dietro la lastra cupa che gli schermava il volto, sembrava intento a fare ordine tra troppi pensieri in subbuglio, segno che forse, stavolta, avrebbe ricevuto una risposta chiara.

«Il governo sta iniziando ad affrontare gli effetti collaterali della annullata Decimazione,» rivelò finalmente Tony, d’un fiato e senza altri giri di parole. «Noi, a quanto pare, rientriamo tra quegli effetti collaterali,» concluse, tirando le labbra con apparente scherno.

«Gli… effetti collaterali?» ripeté Peter, con una scintilla d’intuizione a che parve scottarlo ma che preferì non esplicitare.

«Non ci sono stati solo baci e abbracci in seguito al… al contro-schiocco, ma questo te lo puoi immaginare,» replicò Tony, tirando su col naso in un riflesso nervoso. «Io mi sono perso qualche sviluppo mentre ero impegnato a battere il record di dormita della Bella Addormentata nei Ghiacci, ma… insomma, il mondo è un casino. Suicidi in aumento, nuove famiglie distrutte dai ritorni, persone scomparse, la burocrazia impazzita, criminalità alle stelle, furti d’identità… e una crescente fobia per i superumani,» concluse, scoccandogli un’occhiata laterale.

Peter annuì appena di riflesso, con troppi input sensoriali a intralciargli la mente. Il clacson dall’altra parte del parco sembrò risuonargli a un palmo dal timpano, la luce si fece d’un tratto violenta, il vento dolce e primaverile era tagliente sulla sua pelle; si sentì rizzare i peli sulla nuca e fissò le pupille sensibili sul brecciolino troppo chiaro.

«In effetti, l’opinione più comune è che i Vendicatori abbiano sfasciato l’universo due volte,» concluse Tony, gravemente.

«Questo è meschino,» si riscosse Peter, aggrottando la fronte in un cipiglio al contempo furioso e addolorato. «Avete salvato il mondo e…»

«Abbiamo, Pete. Sì, continuerò a correggerti finché avrò fiato,» lo rimbrottò lui, impassibile e anticipando la sua replica, che sfumò in un sospiro arrendevole.

«Non dovreste essere… tutelati?» cambiò argomento, a disagio. «Gli Accordi non servivano a quello?» lo interrogò ancora, sempre più irrequieto e così teso da non riuscire quasi a battere le palpebre.

«Sì… e stanno funzionando contro ogni aspettativa, comprese le mie: siamo tutelati, almeno a livello legale. Certo, qualche membro dell’ONU ha tentato di allestire un processo degno dell’Inquisizione contro di noi, ma la maggioranza ci è grata e il resto dell’universo sa a malapena cosa sia successo cinque anni fa… quello è un problema fuori dalla nostra portata,» sospirò poi, in un misto d’inquietudine e sollievo. «Ma data l’alta concentrazione di superumani su suolo statunitense, il governo sta pensando di compiere una… mappatura più dettagliata,» articolò, con un gesto assente della mano.

A quel punto Peter aggrottò un poco le sopracciglia sporgendosi in avanti, con un nodo allo stomaco meno stringente che esitava però a sciogliersi.

«Ed è così grave?» chiese, senza nascondere la propria perplessità. «È… logico che vogliano sapere quanti siamo, no? O da che parte stiamo,» aggiunse, irrigidendosi al pensieri di coloro che, al contrario di lui, avevano fatto dei propri superpoteri un’arma, e non a fin di bene.

Tony sorrise amaro, ritenendola evidentemente un’affermazione ingenua.

«Non sarebbe così grave, se non conoscessi di persona chi si occuperà di dividere i “buoni” dai “cattivi”,» scosse la testa, sfregandosi la tempia ferita con fare frustrato. «I Vendicatori sono una fazione abbastanza sicura, anche se abbiamo qualche… “elemento problematico” tra i ranghi che potrebbe non superare i loro test di rettitudine morale,» spiegò, serrando la mandibola e inspirando a fondo a scacciare una repentina fitta di rabbia.

Peter non riuscì a collocare quella reazione, ma si concentrò sul nòcciolo del discorso, ovvero il proprio ruolo indefinito in quella complessa trama di equilibri politici. Si sentiva minuscolo solo a pensarci, un ragno nel senso stretto del termine, insignificante al centro di una tela molto più grande di lui.

«Io sarei già un Vendicatore, in teoria,» azzardò comunque, un po’ controvoglia e osservando l’effetto di quell’affermazione sui lineamenti di Tony.

Lui voltò la testa, fissandolo impassibile dal riparo dei suoi occhiali mentre contraeva ritmicamente le dita strette attorno ai bicipiti.

«Non è così semplice,» mormorò infine, emettendo un respiro secco. «La proposta al momento prevede un Atto di Registrazione per i superumani,» rivelò, inclinandosi in tensione contro lo schienale.

Peter boccheggiò, sentendo una puntura di spillo alla nuca mentre la reale entità di quell’affermazione gli si piazzava in gola come un blocco di cemento fresco.

«Registrazione? Vorrebbe dire che… che io dovrei…» balbettò stridulo.

«Se vorrai far parte dei Vendicatori, dovrai farlo sia come Spider-Man, che come Peter Parker,» gli confermò tetramente Tony.

«Ma non posso farlo!» sbottò Peter, quasi scattando in piedi quando un picco d’adrenalina gli risalì la schiena. «Insomma… vado ancora a scuola, e poi zia May… e tutta la storia dell’università, i miei amici… come faccio a…»

«Pete, ragazzo, ehi,» lo chiamò Tony, per poi bloccare il suo gesticolare agitato piazzandogli saldamente i palmi sulle spalle. «Ehi. Respira, mh? Non c’è nessun pericolo imminente,» scandì, e a Peter parve di vederlo mordersi la lingua dopo quelle parole, anche se al momento gli riusciva difficile decifrare ciò che vedeva o sentiva in modo logico. «Mi vedi agitato? , perché hai ragione e sono paranoico: mi agito anche quando non trovo i calzini nel cassetto o quando Pepper mi sposta le cose in laboratorio, ma adesso ti assicuro che non c’è nulla di cui preoccuparsi. Chiaro?» continuò poi, con un accenno di sorriso.

Peter annuì a scatti, focalizzandosi sulla sua stretta rassicurante e sulla sua voce pacata. Rimase ancora a occhi bassi, imbarazzato per quella reazione fuori dai ranghi e al contempo incapace di reprimere del tutto l’ansia che lo aveva colto, perché Spider-Man era l’unica parte realmente integra che esisteva ancora nella propria vita, e non era neanche un qualcosa di tangibile.

Prese un respiro profondo, cingendo gli spara-ragnatele con le mani: Tony era lì, zia May stava bene, lui era ancora un anonimo liceale del Queens. E aveva affrontato di peggio. Decisamente di peggio. Tony lo lasciò andare solo quando fu certo che si fosse tranquillizzato del tutto, per poi togliersi gli occhiali da sole con un gesto un po’ esitante, prendendo a rigirarseli in mano per la stanghetta.

«Stammi a sentire,» esordì, indicandolo con la stanghetta libera. «Il Presidente mi ha chiesto, esplicitamente, se sono ancora Iron Man,» annunciò poi, con una nonchalance che strideva con ciò che aveva appena detto.

Peter, di nuovo, si ritrovò a fare tanto d’occhi, ma cercò comunque di cavarsi le parole di bocca, sentendole pesanti e inadeguate:

«Ma… ma lei non lo è più, no? Ha lasciato… com’era il discorso del retaggio?» si salvò in tempo, rimangiandosi il vero motivo, ma non capì se Tony avesse apprezzato o meno il suo tatto maldestro.

«Peter, il Presidente degli Stati Uniti mi ha fatto una domanda,» ribadì, sollevando le sopracciglia in modo eloquente. «Gli ho detto la verità: che sono ancora Iron Man.»

«Ma… non è la verità,» protestò debolmente Peter.

«Lo è da adesso,» alzò le spalle Tony. «In questa situazione è meglio così. Credimi, avevo davvero deciso di appendere l’armatura al chiodo e sai che detesto tornare sulle mie decisioni…»

Sospirò nervoso, prendendosi le tempie tra pollice e indice, per poi ritrarsi e portare il palmo a sorreggersi il mento, coprendo parzialmente la bocca.

«Va bene, non prendiamoci in giro: è meglio per me se non ci rientro, in quella trappola di ferro,» disse, scostando appena la mano per far trapelare la propria voce, e Peter sentì un tuffo doloroso e inaccettabile al cuore.

«Allora perché l’ha detto?» sbottò, iniziando a percepire una viva frustrazione mista a una rabbia che non credeva di poter provare nei confronti di Tony.

«È una tutela, ragazzo. Ho detto che sono ancora Iron Man per salvaguardare il mio ruolo, la squadra e collateralmente te,» disse, guardandolo dritto negli occhi e facendolo quasi sobbalzare. «Se sono fuori dal “giro”, io non avrò voce in capitolo e loro avranno carta bianca.»

«Non si fida,» dedusse a mezza voce Peter, ancor più inquieto alla prospettiva che Tony riprendesse a indossare l’armatura in un ambiente ostile.

«Certo che no,» sbuffò Tony, con una mezza risatina tagliente. «La RAFT esiste ancora, Ross è ancora Segretario e io non ho in programma una nuova Lipsia,» concluse, serrando di nuovo la mascella in un tic nervoso.

«Non deve per forza…»

«Voglio,» lo troncò Tony, seccamente. «Voglio farlo,» stabilì irremovibile, senza schiodare gli occhi dai suoi.

Anche se non si addentrò nelle motivazioni che lo avevano spinto a quel gesto, per Peter fu facile immaginarle e sentirle strisciare e contorcersi in quel conosciuto groviglio di senso di colpa annidato nel suo cervello. Avrebbe voluto dirgli che non doveva sempre sentirsi in dovere di proteggerlo, ma un’affermazione simile avrebbe incrinato il precario equilibrio di entrambi, e non era questo il momento per farlo. Non quando non era neanche sicuro di dove stesse poggiando i piedi lui stesso.

«Tutto questo è... è ridicolo. È ridicolo,» ripeté ancora, con più veemenza.

«Pete, detesto quanto te queste stronzate,» gli venne incontro Tony. «Dio, abbiamo affrontato una guerra galattica e vogliono ancora metterci un guinzaglio al collo “per controllarci” …» A quel punto gettò il capo all’indietro, sfiancato, e continuò a parlare senza guardarlo: «Steve è indignato, Wanda furiosa, Rhodey litiga coi superiori ogni giorno, Bruce si è reso irreperibile e io, come al solito, sono nel mezzo. Dopo gli Accordi non posso neanche dichiararmi apertamente contrario. E stavolta sono contrario,» sospirò al cielo. «Cristo santo, sono riusciti a farmi essere d’accordo con Rogers,» cercò di sdrammatizzare, suonando solo frustrato e sprofondando poi in un silenzio meditabondo.

Peter si diede il tempo di riordinare i pensieri, mordendosi le labbra, ma era difficile distinguerli quando riusciva a focalizzarsi solo su quello che gli occupava interamente la testa come uno striscione a caratteri cubitali:

«Non voglio rivelare la mia identità,» esternò, con tutta la fermezza di cui fu capace, ma la sua voce virò comunque su una nota implorante.

«Neanch’io: sono debole di cuore, e piazzarti sul palcoscenico sarebbe un attentato alle mie coronarie,» replicò pronto l’altro, schiarendosi la voce con fare noncurante.

«Quindi, come ha intenzione di agire?» indagò Peter, allentando un poco la tensione e sperando in cuor suo che avesse già un piano.

«Un passo alla volta,» replicò lui, in modo paurosamente poco specifico. «Iniziamo col metterti in incognito sul registro dei Vendicatori, poi si vedrà. In ogni caso, potremo passare ai fatti solo quando sarai maggiorenne,» decretò, rimuginando tra sé.

«Ai fatti? Ho appena detto che non…»

«Sto vagliando tutte le probabilità,» lo interruppe Tony, in modo quasi colpevole. «Abbiamo tempo, ma per ora non puoi rimanere isolato: quando la proposta dell’Atto diverrà pubblica dovrai essere in una posizione favorevole, o finirai per esserne schiacciato.»

Peter non si fece turbare dalla scelta di parole, anche se poteva quasi percepire l’edificio crollato premergli sulle spalle e gli ingranaggi che cercavano di stritolarlo. Guardò Tony, e vide l’uomo d’affari abituato a muoversi in acque turbolente e gestire personalità importanti e suscettibili con sorrisi e strette di mano, a suo agio in un completo elegante quanto nell’armatura o nella tuta da lavoro.

«Mi fido di lei,» esalò semplicemente, d’istinto, sperando che quel semplice atto fosse sufficiente a proteggere lui e tutto ciò che lo circondava.

Tony sembrò leggermente sorpreso da quell’affermazione e prese a giocherellare più intentamente coi propri occhiali, per poi posargli una mano sulla schiena con fare incoraggiante.

«Non sei solo, ragazzino. Ci sono io, c’è May, c’è il resto della boy-band… e c’è anche Capitan Pensione, che ha ancora una certa influenza sugli animi dei bravi americani.» Roteò esageratamente gli occhi al cielo, facendolo sorridere appena. «Ti coprirò le spalle, dopotutto ho qualche asso nella manica…» scherzò, sollevando la mano sinistra in un gesto da spaccone. «Tu però dovrai muoverti in punta di zampe, da bravo ragnetto. Intesi?»

A quelle parole, gli puntò contro l’indice, fissandolo con quell’espressione di paterna, bonaria severità che poche persone sulla faccia della Terra riuscivano a guadagnarsi.

«Intesi,» annuì Peter guardandolo negli occhi, con voce più salda e pensieri più limpidi.

Il volto di Tony si distese e lui si riaggiustò gli occhiali da sole sul naso. Gli arruffò distrattamente i capelli mentre si alzava con una piccola smorfia, saldo sulle gambe.

«Bene, ora basta chiacchiere. Ho una fame da lupi,» annunciò, guardandosi rapidamente attorno col naso all’aria e le mani nelle tasche.

Peter accolse quel cambiamento d’umore come una boccata d’aria fresca, e un lieve sorriso furbetto gli illuminò il volto.

«Ho visto un Taco Bell sulla Madison,» buttò lì, alzandosi a sua volta.

«Andata,» sogghignò Tony, ammiccando poi con aria complice. «Non dirlo a Pepper.»



 

 



 
Note:

[1] In questa versione, Tony ha utilizzato il Guanto dell’Infinito con la mano sinistra. La storia, come accennato, è stata pianificata prima di Endgame, e all’epoca circolava una teoria sul braccio sinistro di Tony "destinato" a impugnare il Guanto. Visto che varie sezioni della storia si reggono sul fatto che il lato danneggiato è il sinistro, ho deciso di mantenere questo dettaglio non canonico.

Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
eccoci al primo, vero capitolo! Lo ammetto: stavo scalpitando da secoli per pubblicarlo, e spero davvero che lo abbiate apprezzato ♥
Come avrete notato, la narrazione è in medias res dopo Endgame, quindi molto viene dato per scontato o non viene spiegato, ma vi assicuro che tutti i nodi verranno presto al pettine. Per qualsiasi dubbio, sono a disposizione ;)

Qualche chiarimento è comunque d’obbligo: l’originale Back In Black è ambientata in piena Civil War, quindi ho cercato di fondere al meglio le due ambientazioni e di adattare temi e problematiche del fumetto al MCU, ma per forza di cose è stato necessario qualche cambiamento. Primo fra tutti, la distinzione operata da me tra Accordi di Sokovia e Atto di Registrazione. I primi regolamentano i soli Vendicatori, il secondo è indirizzato a tutti i superumani. Il problema dell’identità non si è mai posto coi Vendicatori, in quanto nessuno l’ha tenuta segreta, ma se si parla di Spider-Man e altri pseudo-vigilantes, diventa una questione rilevante. Detto ciò, la trama "secondaria" si discosta largamente da quella originale, e vorrei sottolineare il fatto che tutto ciò che ruota attorno al "nuovo Atto" è un mio headcanon, seppur derivato dal fumetto (che ho citato nel testo e citerò ancora).

E parlando di headcanon, arriviamo a Tony. Il perché e il percome sia vivo e vegeto (più o meno) troverà spiegazione in futuro, e vi anticipo che molto di ciò che lo riguarda è frutto di una visione comune mia e di _Atlas_. Seguendo la premiata logica Fottesega&Fregacazzi, abbiamo appunto fatto marameo ai fratelli Russo e costruito il nostro quasi-happy ending per lui. Qui c’è un velato accenno alle sue vicissitudini sottoforma di battuta, ma vi rimando alla one-shot della mia complice, Il risveglio di Atlante, se volete dare una sbirciata al suo PoV, in quanto è grazie ad essa se mi è venuta quest’idea in particolare ♥

Dopo ’sta carrettata di note, ringrazio tantissimo T612, Miryel, shilyss e _Atlas_ che hanno commentato il prologo e tutti coloro che hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite: mi avete reso felicissima e spero che la storia risulti all’altezza delle aspettative <3 Non siate timidi e fatemi sapere che ne pensate finora: ogni commento e opinione, lunghi o brevi, positivi o negativi, sono graditi, mi permettono di migliorarmi, e sono una motivazione in più a scrivere :)
Grazie di cuore, e alla prossima,

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