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Autore: Tenar80    04/07/2019    3 recensioni
Se è negli occhi di chi ci ama che troviamo una versione migliore di noi stessi, cosa succede se smettiamo di guardarci negli occhi?
Manca una settimana ai mondiali del 2022, l'ultima gara di Yuuri dopo il secondo oro olimpico. Tutto dovrebbe essere perfetto. Dovrebbe.
Di Victor che non sa più chi è.
Di Yuuri che non sa chi vuole essere.
Di Otabek che sa troppo bene chi dovrebbe essere.
Di Yurio che si è perso
Questa storia fa parte della serie "Stagioni"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Ed eccoci qui, di nuovo, questa volta nel 2022, con la fic che (per ora) chiude la storia di Victor e Yuuri (per Otabek e Yurio c'è ancora una cosina dopo).
Di tutto il mio scorrazzare per l'universo di Yuri on Ice questa è più di tutte la storia non che volevo, ma che dovevo scrivere.
Avevo (ho) un bisogno viscerare di sentire per interposto personaggio che anche quando le basi di ciò che credevi di te stesso vanno in pezzi, ce la puoi fare. Che a volte la verità è terribile, a volte è meno brutta di quanto possa sembrare, ma può comunque essere affrontata. Perché è una cosa che accadrà, non a me, ma accadrà e forse non sarò lì o non mi vorranno lì e questa era l'unica cosa che potevo fare per empatizzare almeno un po'. Ho un enorme debito di riconoscenza nei confronti dei miei personaggi, per avermi permesso questo viaggio. A questo proposito, tanto per cambiare, vado a trattare tematiche un po' delicate sulla ricostruzione de sé. Ci ho messo tutto il mio impegno per non sminuire la cosa, se l'ho fatto, chiedo perdono, contattatemi, fermatemi. Ancora a questo proposito ci tengo a dire che la trama di Victor in particolare si basa su storie vere e italiane. C'è tutta una parte di storia che accade "dietro le quinte", ma ogni tanto appaiono dei riferimenti. Avrei potuto, ma non ho osato per una fic, chiedere lumi a chi si occupa di queste cose per la Russia, quindi mi sono basata su quanto accadrebbe (per altro nella migliore delle ipotesi) in Italia.
Essendo una storia così legata all'identità personale mi sono trovata invischiata un po' troppo in tematiche che pensavo di non voler affrontare, non essendo abbastanza addentro, come il riconoscimento dei diritti civili con tutte le conseguenze del caso. Vorrei ringraziare enormemente Thalia per aver dato il suo appoggio a questa parte della storia.
Avevo bisogno anche di sentire, suppongo, che anche le coppie migliori possono essere sul punto di fare le peggiori idiozie e salvarsi.
Avevo bisogno di sapere che nessuno è immune dal dolore, ma insieme si può andare avanti un po' meglio.
C'è qualcosa di me, qua e là, e qualcosa che so perché l'ho vissuto o l'ho visto e lo racconterò man mano. Di mio c'è sicuramente il senso di oppressione di Otabek per quel che deve alla sua famiglia e anche una certa tendenza ad andare in panico tipica di Yuuri, cercare la peggior idiozia da fare per non affrontare il problema e avere un rigurgito di buon senso all'ultimo istante.

Questa storia è per coloro che dovranno sapere.
È per tutti i dolori dietro i sorrisi.
Per tutte le verità che non sono solo da una parte sola.
Per chi vorrà leggere. Per chi vorrà spendere qualche minuto a commentare.
Come sempre è debitrice a ElinaFD a cui deve l'esistenza di tutto questo.
È per Nicola che mi ha tenuto la mano.


 

RIFLESSI





Il più solido dei fatti può soccombere o prevalere, a seconda dello stile in cui è esposto: come quel bizzarro gioiello organico dei nostri mari, che si fa più brillante quando una donna lo indossa e, indossato da un’altra, sbiadisce, si fa opaco, diventa polvere. I fatti non sono più solidi, coerenti e rotondi, e reali, di quanto non lo siano le perle. Entrambi, però, sono sensibili.

U.K. Le Guin – La mano sinistra delle tenebre.

 

 

Giappone, 2022

– 7 giorni  ai  Campionati Mondiali di Osaka

 

    Ogni volta che prendeva quel treno che lo portava dall’aeroporto verso il Giappone rurale, Otabek si sentiva del tutto libero e allo stesso tempo del tutto prigioniero. 

    Da tre anni a quella parte Giappone voleva dire estate. Voleva dire lasciarsi alle spalle il Kazakistan, suo padre e la sua interminabile lista di cose da fare, sua madre e la sua interminabile lista di preoccupazioni, suo fratello e la sua interminabile lista di guai. Il suo allenatore con l’elenco di tutto quello che non sapeva fare, il suo relatore all’università con l’elenco di tutto quello che sapeva fare e che dunque doveva fare, la federazione e da ultimo anche il ministero dello sport kazako con la lista di ciò che doveva sembrare di essere. Giappone voleva dire limitarsi ad essere se stesso. Lui, la pista di pattinaggio, il mare e Yuri.    

    E allo stesso tempo Giappone significava anche abdicare a parte della propria libertà.

    Otabek si considerava una persona intelligente. Non un genio, questo no, ma comunque capace di laurearsi con il massimo dei voti in matematica mentre procedeva con la propria carriera di pattinatore professionista. Eppure il giapponese gli riusciva del tutto incomprensibile. Scritto era una serie di buffi disegnetti che non volevano dire assolutamente nulla. Parlato era una sequenza di suoni cantilenanti da cui non riusciva a trarre alcun significato. Persino quando un giapponese gli parlava in inglese il più delle volte non capiva. Addirittura a volte faticava a capire l’inglese di Yuuri, che pure conosceva da anni. Di solito, la prima cosa che Otabek faceva appena arrivato in una città straniera, cosa che accadeva per lo più per qualche gara, era noleggiare una moto. Questo gli dava la sensazione, fittizia ma ugualmente consolante, di poter fuggire in qualsiasi momento. Di essere in qualche modo padrone del proprio destino. Ma come poteva farlo in un luogo in cui non decifrava i segnali stradali, in cui non era in grado di chiedere la più banale informazione? Andare a Hasestu significava mettersi del tutto nelle mani di Yuri, dipendere da lui anche per cercare qualcosa di commestibile o chiedere dove fosse il bagno. Questo amplificava la sensazione di entrare in un mondo altro, al quale lui non apparteneva, ma in cui gli era permesso essere ciò che altrove era impossibile. Il Giappone per Otabek era la terra del sogno. Come ogni sogno, poteva sfumare facilmente nell’incubo o nel sublime, ma mai, neppure per sbaglio, poteva essere confuso con il reale.

    Questa volta, però, era diverso. Era inizio aprile e sette giorni dopo si sarebbero tenuti a Osaka, per caso o per calcolo da parte della federazione giapponese, i mondiali. Mondiali che Otabek aveva un disperato bisogno di vincere e quasi nessuna speranza concreta di poterlo fare.

 

    Meno di due mesi prima si erano svolte le olimpiadi, a Pechino. Otabek aveva dato tutto se stesso, e parte del proprio ginocchio, per portare a casa una medaglia d’argento dietro un Yuuri a fine carriera, reduce dalla peggiore caduta che il kazako gli avesse mai visto fare, ma comunque inarrivabile. Era il meglio che potesse fare. La sua performance migliore, il suo punteggio più alto, un 331.20 che era sicuro di non poter ripetere. Aveva avuto la sensazione di essere arrivato all’apice delle proprie possibilità, qualcosa di esaltante e terribile insieme, come ogni volta che si cerca di afferrare qualcosa di effimero e irripetibile. Sul volo di rientro, mentre un giornalista blaterava di feste, interviste e strette di mano presidenziali, lui aveva pensato che forse poteva ritirarsi. Farlo in quel momento felice, senza infortuni irreparabili o viali del tramonto da percorrere nelle nebbie. Cambiare del tutto vita, concorrere per il dottorato, cercare un equilibrio un po’ meno instabile tra ciò che doveva essere e ciò che sentiva di voler essere…

    Era stata una fantasia durata tre giorni. Il quarto giorno, dopo tutti quei festeggiamenti ufficiali che si erano rivelati di una noia assoluta, aveva infine potuto dormire. Era un mercoledì qualsiasi di febbraio. Suo padre era in ufficio, suo fratello Rustam chissà dove a far danni, Aiman e Bolat a scuola. Si era svegliato tardi, come non capitava quasi mai, con la sensazione di poter indugiare su ogni cosa… E aveva trovato sua madre che piangeva in cucina.

    Così, nell’aroma intenso della carne d’agnello che sobbolliva, Otabek era stato messo a parte di tutto ciò che gli era stato tenuto nascosto mentre si preparava per le olimpiadi. 

    Con la testa appoggiata al sedile di quel treno silenzioso in modo irreale che attraversava la sua terra del sogno, il giovane ripensava al rumore ritmico della carne in cottura nella pignatta, ai vetri leggermente appannati della cucina e al volto dimesso di sua madre, che cercava di fingere che andasse tutto bene.  Yuuri gli aveva raccontato che ogni volta che stava per entrare in pista per una gara aveva la sensazione di precipitare. A lui non era mai capitato durante una competizione, ma nella cucina di casa sua, mentre in televisione passava uno speciale sugli eroi del Kazakistan alle olimpiadi, con la sua faccia sorridente in primo piano, aveva provato la stessa sensazione. E la stessa rassegnazione ad andare avanti comunque. Perché lui era il figlio maggiore, quello che doveva ripagare tutto l’impegno e il denaro speso, quello che aveva studiato e, in quel momento, aveva i soldi.

    Otabek si era ritrovato a stringere i denti e a obbligare il proprio ginocchio a fingere di essere guarito. Quel pomeriggio stesso aveva tirato giù dal letto il proprio allenatore, non meno stanco di lui dopo un’olimpiade, ed era tornato alla pista. 

 

    Il giovane sospirò e guardò l’ora. Il buio fuori dal finestrino gli diceva che era sera, ma, sballottato com’era dal fuso orario, gli sembrava di essere in un altrove indefinito. Se accanto al convoglio avesse visto passare una balena volante o una navicella aliena non si sarebbe stupito. Era l’ora di cena e entro mezz’ora sarebbe arrivato da Yuri…

    Il cellulare trillò. 

    Un messaggio di Aiman. 

    La piccola ricattatrice gli ricordava che voleva una serie di cartoni animati, sia chiaro con i sottotitoli in inglese, del tutto inadatti a una brava quindicenne kazaka di fede mussulmana. 

    Doveva fare in modo di ricordarsene.

    Come cazzo aveva fatto a essere così stupido?

    Otabek aveva l’impressione da anni di vivere più di una vita. Non era spiacevole. Anzi, gli piaceva tenere le cose separate ed essere considerato sempre solo per quello che era in quel momento. Pochissimi all’università, almeno prima che finisse su tutti i quotidiani nazionali, avevano saputo della sua carriera sportiva. Quasi nessuno dei suoi avversari si curava dei suoi studi. Quando usciva con qualcuno, in Kazakistan, parlava per lo più di moto. A casa a nessuno importava davvero del pattinaggio, della matematica, delle moto o di una qualsiasi delle cose che gli interessavano. Ogni volta che varcava una porta, entrava in un mondo diverso da cui era ovvio lasciar fuori il resto. Ma l’unica cosa che davvero nascondesse era Yuri. Grazie al cielo, con tutto quello che si trovava a fare, nessuno della sua famiglia si stupiva più di tanto che non avesse una fidanzata fissa, anche se lo zio non aveva evitato di presentargli o fargli presente questa o quella brava ragazza. Ad ogni buon conto, non c’era nulla nella sua stanza o sul suo computer che potesse far pensare a una qualche propensione per un certo pattinatore biondo. Aveva un cellulare nero su cui faceva vedere i cartoni animati ai cuginetti, se passavano di lì, e su cui mostrava con orgoglio le foto scattate durante le gare, c’era anche Yuri, ovviamente, un Yuri serio e del tutto presentabile. E aveva un secondo cellulare grigio a uso e consumo del pattinatore russo. Anche così aveva cura di cancellare tutte le foto che si scattavano e si inviavano. Quasi tutte. Non era umano vivere una relazione che doveva consumarsi in cinque, sei occasioni d’incontro durante un intero anno, quasi tutte funestate da improrogabili impegni agonistici, senza poter tornare indietro a rivivere almeno qualche momento. Anche così, quando durante un allenamento si era reso conto di aver lasciato a casa quel cellulare non si era preoccupato più di tanto. Cosa mai poteva succedere? Sua madre faceva sempre le pulizie la mattina e quindi non aveva alcun motivo di entrare nella sua camera… Sua sorella, invece, aveva pensato bene di cercarci un libro che le serviva per scuola, proprio nell’esatto istante in cui quel cellulare, abbandonato sul letto, aveva preso a trillare. Perché in quel momento, in Giappone, qualcuno aveva avuto la malauguratissima idea di girare le foto che Chris, ormai voce ufficiale della televisione svizzera, aveva scattato a Pechino dopo il galà, in un momento di scazzo totale e rilassamento post gara. E, per essere più precisi, si trattava di tre foto comparative a tema «il bacio più bello». Il tailandese e la moglie incinta nel primo scatto, Victor e Yuuri nel secondo e, inevitabilmente, lui e Yuri nel terzo.

    Quindi, e gli era andata ancora bene, davvero bene, al momento si trovava ricattato da una quindicenne abbastanza ribelle da non denunciarlo all’istante ai genitori. 

    Otabek non aveva idea di cosa sarebbe successo se in camera fosse entrato uno dei suoi fratelli, e tra il mezzo delinquente, ma decisamente omofobo Rustam o il dodicenne, tutto scuola, innocenza e studi coranici Bolat, non osava pensare chi fosse peggio. Sempre che Aiman non si tradisse. Perché la sorella era furba come una faina, maliziosa come una volpe e affascinata dal proibito, ma non esattamente un mostro di discrezione.

    Il treno stava entrando alla stazione. 

    Basta pensare. 

    Suo padre, sua sorella e il Kazakistan tutto potevano rimanere in quello scompartimento.

 

    Yuri era facile da identificare in una stazione giapponese. Era l’unico biondo.

    Entro pochi minuti Otabek se lo sarebbe trovato avvinghiato addosso come una scimmia, con i capelli biondi, che grazie al cielo non aveva tagliato troppo corti, sulla sua spalla. Avrebbe stretto quel corpo magro, subito e poi ancora e ancora. Chiusi almeno fino al mezzogiorno di domani nel bilocale di Yuri.

    Otabek scese dal treno con il proprio bagaglio sulle spalle e in viso quel sorriso che sapeva gli rendeva l’espressione del tutto idiota. Non poteva farci niente. Davanti a Yuri era un idiota sorridente.

 

    Qualcosa non andava. 

    Niente corsa incontro. Nessun abbraccio da boa costrittore. 

    Yuri si mosse verso di lui sorridente, ma calmo.

    – Ciao.

    – Ciao?

    Ciao? Da quando in qua il loro saluto era «ciao»?

    – Ehm… – iniziò Yuri. – Sai tutte quelle volte che ho detto a mio nonno di venire a trovarmi?

    Otabek lo vide. 

    Rispetto all’ultima volta che l’aveva incontrato, quattro anni e mezzo prima, aveva la barba del tutto bianca, ma era ancora un omone massiccio quello che si faceva avanti sorridendo.

    – Ben arrivato, Otabek! – gli disse, assestandogli una sonora pacca sulla spalla. – Non sai come sia felice che mio nipote abbia un amico in questo covo di pervertiti!

    – Vieni, c’è un taxi che ci aspetta – disse Yuri. – Ti ho preso una stanza dai genitori di Yuuri.

    Voglio morire.
 

*

 

    Victor, semi sdraiato sul divano, accarezzava con finta noncuranza il muso di Liza. 

    Non era mai stato tanto a disagio davanti a una telecamera.

    Eppure essere ripreso lì, nel salotto di casa sua, era troppo. 

    No, non era neppure solo questo. Era proprio l’idea del documentario in sé, essere seguiti per  dieci giorni e, a quanto pareva, notti, che era troppo. Un insinuarsi eccessivo nella loro intimità.

    Non che sia rimasta molta intimità in cui insinuarsi…

    Forse era stato quella la goccia nel vaso troppo colmo della tensione di Yuuri. 

    Eppure era così terribilmente giapponese. 

    Neppure lui, che pensava di aver visto ogni aspetto, anche quello più squallido, della celebrità, si era accorto di cosa significasse per un giapponese diventare davvero famoso. Assurgere allo status di idolo e modello di comportamento, studiato ed esposto. Non vivisezionato alla ricerca di qualsiasi torbido segreto, come poteva accadere in occidente, ma quasi… Mummificato come Lenin e fatto oggetto di culto ancora in vita?

    Bene, adesso capiva perché, in fondo, Yuuri avesse avuto un così grande terrore non di perdere, ma di vincere.

    Liza sospirò.

    Almeno lei era professionale. Dopo due anni di pubblicità, la barboncina sapeva atteggiarsi a vera star.

    – Bene così. Adesso chiacchieriamo un po’ – disse il documentarista, Kuma, che aveva quel fare da migliore amico da sempre da cui Victor aveva imparato a diffidare. – Non si preoccupi, poi rivedremo insieme il giarato per tagliare qualsiasi cosa possa essere venuto male.

    – Ok.

    – Sappiamo tutto di Victor Nikiforov atleta e allenatore, ma non sappiamo nulla delle sue origini…

    – Non c’è niente da sapere. Sono siberiano – tagliò corto. – Vicino a dove abitavo c’era una pista di pattinaggio.

    Non era su Yuuri quel maledetto documentario? 

    Per una santa volta che non voleva rubargli la scena…

    – Non vedo che interesse possa avere da dove vengo… – provò.

    Kuma, un tipo grassoccio, che nascondeva il viso fintamente arrendevole dietro gli occhiali, fece un sorriso di studiato imbarazzo.

    – Ne faremo due versioni. Una per il mercato giapponese e una per i festival internazionali occidentali. In Europa lei è ancora famoso. E… Siete una coppia che si è dichiarata in conferenza stampa, lei non rimette piede in Russia da quattro anni… È una storia che vale la pena di raccontare.

    Insomma, la vivisezione di lui e Yuuri erano la materia dei loro futuri premi.

    – Perché per il Giappone non andrebbe altrettanto bene? – provocò.

    Ovviamente conosceva la risposta.

    La mummia di Lenin non aveva relazioni di sorta, sopratutto non omosessuali. Altrettanto doveva fare un idolo giapponese. Era tanto se nella versione per il mercato interno si fosse accennato al fatto che vivevano insieme. Dopo tutto lui veniva intervistato in salotto e Yuuri fuori casa…

    Kuma non si preoccupò neppure di rispondere alla sua domanda.

    Stava cercando qualcosa nel suo zaino.

    Con sguardo trionfante, tirò fuori una cartellina, la aprì e la passò a Victor.

    – Cosa mi dice di questa fotografia?

    Il russo sobbalzò e Liza, offesa, si allontanò dal suo grembo per andare nella propria cesta.

    La foto, vecchia di almeno venticinque anni, mostrava una quindicina di bambini in posa davanti a un edificio che l’intonacatura chiara non riusciva a far sembrare allegro. Tutti portavano lo stesso grembiule stinto. I bambini portavano i capelli cortissimi, le bambine raccolti, senza fiocchi di sorta. Le uniche persone che sorridevano erano i due adulti, un donnone dall’aria marziale e un uomo dallo sguardo un po’ perso. La fotografia era stata scattata a metà pomeriggio e di solito a quell’ora il direttore era già ubriaco.

    Da dove diavolo salta fuori? Non si può dire che non sappia fare il suo mestiere.

    Victor sorrise.

    – Cosa vuole che le dica?

    Che era cresciuto in un istituto? Perché? Nessuno lì, di certo non Kuma col suo bel salvagente di lardo, aveva idea di cosa avesse significato davvero crescere in un istituto. Victor ricordava ancora con orrore la volta che ne aveva accennato a Chris. Tutte le domande morbose che l’amico aveva evitato di porre, ma che gli si erano dipinte in viso in modo fin troppo eloquente. Tutte domande a cui la risposta era «no». No, non era mai stato picchiato. No, non aveva mai sofferto davvero la fame o il freddo. No, non si era mai sentito così tanto sfortunato, perché la maggior parte dei suoi compagni di scuola se la passava peggio. Nessuno gli aveva mai spento le sigarette sul braccio o lanciato addosso bottiglie di vodka appena svuotate, tanto per citare due fatti di cui il suo primo compagno di banco aveva fatto esperienza diretta. Quindi dichiarare da dove venisse serviva solo a scatenare un immotivato moto di panico e compassione.

    – Lei qual è? – chiese Kuma.

    – Il terzo da destra.

    Il bambinetto con il ginocchio incerottato, ricordo dei suoi primi allenamenti, e i capelli rapati quasi a zero. Aveva lo sguardo che ogni tanto si trovava in qualche vecchia foto delle gare, prima di un’esibizione. Quello di quando si concentrava su ciò che lo faceva arrabbiare.

    – Si è tenuto in contatto con qualcuno degli altri bambini?

    Victor scosse il capo.

    Da quanto non pensava davvero a loro?

    Arina, con cui condivideva i dolci che in qualche modo lui riusciva a recuperare alla pista di pattinaggio. Liev, che aveva la sua età, che gli faceva copiare i compiti e tentava, con scarsi risultati, di suggerirgli le risposte durante le interrogazioni. Boris, che era il primo ad attaccar briga, ma anche il prima a correre a difenderli quando qualcun altro li prendeva in giro…

    – No, mi spiace. Prima dei quattordici anni mi sono trasferito a San Pietroburgo, sotto la tutela del mio allenatore e allora non era così facile mantenere i contatti – mentì.

    – Pensavo… Potremmo cercare di contattarli noi e magari organizzare una videochiamata… Sarebbe un bel finale.

    Ci mancava solo questo.

    – No. Non sarebbe un bel finale.

    Boris, per quel che ne sapeva, era ancora in prigione. Liev, l’ultima volta che ne aveva avuto notizia, lavorava come operaio e beveva, come tutti, lì. Arina era venuta a vederlo una volta, alle nazionali, aveva diciotto anni. Stava con un tizio, aveva detto. Uno a posto. E il livido allo zigomo se lo era fatto cadendo.

    Lui era un sopravvissuto. 

    Era quello che aveva imparato davvero quand’era bambino. A sopravvivere, cogliendo sempre l’opportunità migliore. Sempre disposto a dare qualcosa per ottenere in cambio un vantaggio.

    – Non possiamo parlare di pattinaggio? Di Yuuri? – provò.

    Quando si erano accordati aveva chiesto che non gli facessero domande dettagliate su quanto gli era successo quattro anni prima in Corea. Pensava che fosse quella la cosa più da temere.

    Kuma mise le mani avanti.

    – Non pensa che sarebbe una bello spiegare da dove viene? Un messaggio di speranza?

    Victor si mise a sedere.

    – Ma da dove crede che vengano gli altri? Pensa che la maggior parte degli atleti russi o cinesi o di qualsiasi altro fottuto stato nazionalista venga da case come questa? Crede che sia un messaggio di speranza? La prima volta che ho fatto i nazionali sono arrivato ottavo. Che fine hanno fatto gli altri sette? E quasi nessuno veniva da un passato migliore del mio. Sono stato fortunato a trovare per caso una cosa che potevo amare e che mi veniva bene. E, sia chiaro, rifarei tutto. Ma non è, in nessun caso, uno storia di speranza. 

    Sentì il cellulare vibrare. 

    Noncurante dello sguardo di disapprovazione di Kuma, guardò i messaggi.

    Il primo gli provocò una fitta allo stomaco e allo stesso tempo un mezzo sorriso sarcastico. 

    Appropriato, molto appropriato al momento. 

    Come avrebbe reagito il documentarista se gli avesse detto che era una vecchia questione di famiglia? Ma era meglio non istillargli ulteriore curiosità.

    Il secondo messaggio riguardava le analisi di Yurio.

    Victor aggrottò la fronte e sospirò.

    Il giorno dopo non ci sarebbe stata una mattinata piacevole. Per nessuno. 

    Kuma attendeva di riprendere l’intervista, mentre il russo voleva solo che se ne uscisse da casa sua. Voleva che Yuuri tornasse, si sedesse accanto a lui sul divano, gli passasse una mano sulla nuca e gli chiedesse cosa c’era che non andava. E gli dicesse cosa c’era che non andava. Ma per come andavano le cose in quel momento, con ogni probabilità Yuuri sarebbe passato direttamente dalla porta d’ingresso alla doccia e poi al letto. Nella camera degli ospiti.

 

*

    Yuuri bevve un sorso del suo cocktail. Non aveva idea di cosa fosse, Izumi aveva ordinato per lui. Era buono, però, non troppo dolce, né troppo alcolico.

    – Quindi il vostro prossimo progetto sarà sulla musica tradizionale della Nuova Guinea? – chiese.

    Doveva essere l’intervistato, ma per lo più era stato lui a porre domande alla documentarista.

    – No, il mio – rispose la donna. – Kuma rimarrà a fare la post produzione del documentario su di te, io andrò da sola, parto tra un mese esatto.

    In qualche modo, nel corso della serata, lui e Izumi erano passati dalla fredda cortesia a una forma più colloquiale. Non capitava spesso a Yuuri di sentirsi così d’istinto a suo agio con qualcuno, sopratutto se apparteneva a un mondo del tutto diverso dal suo. 

    Forse era di questo che avevo bisogno. Uscire, bere qualcosa e parlare di argomenti che non abbiano nulla a che vedere con il pattinaggio.

    – Adesso però dobbiamo parlare un po’ di pattinaggio – disse Izumi.

    Ecco…

    – Non fare caso alla telecamera, facciamo finta di chiacchierare, come prima – sorrise lei. – Com’è vivere col proprio allenatore?

    Yuuri si strinse nelle spalle. Come si faceva a rispondere in due parole? In nessun modo Victor poteva essere descritto a parole. Con una musica e una coreografia, forse.

    – Intendo dire… Non è oppressivo, alla lunga? – lo aiutò lei.

    Yuuri pensò che assomigliava un po’ a Yuko, aveva gli stessi modi schietti e il viso bello anche senza bisogno di trucco.

    – No – rispose, mentendo.

    Ripensò alla cena. A come aveva fissato con odio il proprio piatto di grani alimentari sud americani bolliti e a come Victor lo avesse obbligato a finirlo come se fosse stato un bimbetto capriccioso. A onor del vero c’era da dire che Victor nel piatto non aveva nulla di diverso e che tutto sarebbe stato più facile se uno dei due fosse stato almeno vagamente portato per la cucina. Tuttavia quella sera il giapponese aveva provato l’impulso di prendere il piatto e svuotarglielo in testa.

    – E comunque, tra poco più di una settimana non sarà più il mio allenatore – aggiunse.

    – Non sei neppure un po’ triste al pensiero di ritirarti?

    – No – questa volta Yuuri era del tutto sincero. – Sono anni che penso che ogni stagione sia l’ultima e poi c’è sempre qualche ragione che mi spinge ad andare avanti. Questa è stata… Dura. E non vedo l’ora che finisca.

    Se non ci fosse stato tutto il Giappone ad attenderlo al varco alle olimpiadi e poi a quei mondiali a due passi da casa, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Le olimpiadi… Anche un idiota avrebbe capito che non era una buona idea per Victor tornare in un villaggio olimpico, ma lui era un idiota. Aveva persino insistito. Quindi, tutto quello che era successo era colpa sua. Adesso poteva solo andare avanti, contare i giorni. 

    Sette giorni…

     Ancora sette giorni…

    … Una parte di se stesso sperava, ogni sera, che Victor si riscuotesse, che lo affrontasse e lo obbligasse a dirgli cosa stava accadendo. E allo stesso modo ogni sera, quando si permetteva di piangere per il dolore nella stanza vuota, ringraziava gli dei per il fatto che lui non se ne era accorto, che un altro giorno era passato e il mondiale era un poco più vicino…

    – E dopo? – stava intanto chiedendo Izumi. – Non hai voglia di fare qualcosa di diverso?

    – E cosa potrei fare?

    Phichit stava per diventare padre. Quello sì che era un cambiamento. Phic, nella mente di Yuuri, aveva sempre avuto qualcosa di spensierato e fanciullesco. Chissà come sarebbe stato con un figlio? Yuuri se lo immaginava come uno di quei padri sempre disposti a giocare con i propri bambini, ma allo stesso tempo in grado di incoraggiarli con un sorriso. Un buon padre, insomma. Meglio di come sarebbe stato lui. Non che la cosa fosse possibile, ovviamente.

    – Non so, il professore di storia della musica – stava rispondendo Izumi. – Documentari in Nuova Guinea?

    – Documentari in Nuova Guinea? – quello sì che era improbabile.

    Yuuri sorrise.

    – Quello che vorrei fare davvero è rimanere un po’ a casa tranquillo. Alzami tardi. Andare a correre sulla spiaggia. Giocare con i cuccioli. La nostra cagnolina partorirà dieci giorni dopo i mondiali, sai? Leggere, guardare film. Oziare per un mese di fila. Non ho mai fatto un mese intero di vacanza…

    Yuuri si accorse che gli si stavano riempiendo gli occhi di lacrime. L’ultima cosa che voleva era mettersi a piangere davanti a Izumi.

    Si immaginò mentre correva sulla spiaggia, inseguito da cinque cuccioli di barboncino. 

    Desiderava tantissimo poterlo fare…

    

   
 
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