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Autore: koan_abyss    09/07/2019    2 recensioni
Tom Ludlow, investigatore privato, tende a gettarsi nei suoi casi con tutto se stesso, e quando Maria Butler lo assume per ritrovare il padre scomparso, si sente immediatamente legato alla vicenda. Ma sembra che ci siano anche altri interessi in gioco e Tom si ritrova presto avvolto in più trame e strattonato in più direzioni.
Genere: Angst, Azione, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I Tre Fili

I Capitolo


La ragazza era entrata subito nell’ufficio, senza fermarsi nella sala d’aspetto. Era probabilmente dovuto a una combinazione di fattori: non c’era una segretaria all’ingresso a pregarla di accomodarsi mentre lei “avvertiva il signor Ludlow”, la porta del suo ufficio era già aperta per vedere arrivare i clienti, cosa che nascondeva la scritta ‘Tom Ludlow, investigatore privato’ sul vetro ondulato, e infine c’era da dire che la sala d’aspetto non era per niente accogliente: un tavolino da caffè, una scrivania un po’ defilata, un vaso sulla piccola finestra che dava sulla strada principale e due poltroncine che avevano visto giorni migliori.
‘Farei meglio ad assumere un’altra ragazza che accolga i clienti’, si disse Tom, mentre si alzava dalla sua sedia e augurava un buon giorno alla nuova venuta. ‘O quantomeno dovrei bagnare quelle felci…’
In realtà era troppo tardi, per bagnare le felci: erano irrevocabilmente morte.
“Il signor Ludlow?” domandò la ragazza, facendo un paio di passi verso la scrivania di legno scuro ingombra di carte.
‘Non mi farebbe questa domanda, se avessi una segretaria’ si disse Tom, confermandoglielo.
Non doveva aver fatto una grande impressione alla sua potenziale cliente, finora. Di sicuro non se lei si aspettava l’ufficio di Nero Wolfe.
La stanza non era granché: piccola, con i pavimenti in legno consumato e le pareti quasi spoglie, ad eccezione della sua licenza da investigatore e pochi quadri che non ricordava perché aveva scelto (una veduta di campagna, il partenone e una nave…proprio non vedeva un nesso. Alla fine, forse non era poi un granché come investigatore); mesi prima, in un attacco di depressione aveva tolto tutte le fotografie in bianco e nero, che ora se ne stavano in uno scatolone nella stanza sul retro.
La ragazza si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania: quello che aveva visto non l’aveva scoraggiata tanto da girare sui tacchi e andarsene.
In effetti era successo, una volta: Tom aveva visto apparire uno schianto di ragazza, alta, bionda come un angelo, con vestito verde scuro fasciante e una pelliccia appoggiata sulle spalle. La donna aveva gettato uno sguardo alla stanza, col mento leggermente sollevato, gli occhi profondi e attenti e terminata la sua ispezione si era semplicemente girata ed era uscita senza una parola.
Tom era rimasto totalmente ammirato dal movimento fluido ed altero con cui aveva valutato e trovato mancante ogni aspetto della sua vita, prima di piroettare sui suoi strabilianti tacchi e sparire per sempre. Quello era carattere.
Una volta sistemata la sedia alla sua ospite, Tom tornò dietro la scrivania.
“Sarei curioso di sapere se e come posso aiutarvi, signorina,” le disse una volta seduto.
La ragazza aveva un’aria particolarmente nervosa. Sedeva rigida, con le ginocchia strette e la borsetta a farle da scudo. Aveva un viso molto grazioso, a suo modo, del tutto opposto a quello della sconosciuta bionda che tempo prima era fuggita da quella stessa stanza. La carnagione era olivastra, gli occhi scuri e liquidi, i più grandi che gli fosse mai capitato di vedere; il naso era a patata, ma non del tutto sgradevole, armonizzato con il resto dei suoi tratti.
Dai capelli e dalle sopracciglia, neri e foltissimi, Tom dedusse che avesse origini messicane, benché non avesse avvertito tracce di accento, quando aveva aperto bocca. Non portava la fede, quindi Tom scartò l’ipotesi che potesse trattarsi di un caso di infedeltà coniugale. Era piuttosto giovane e l’investigatore si domandò se non si trattasse dell’ennesima ragazza messa nei guai dal presunto amore della sua vita, poi scomparso nel nulla.
“Mi chiamo Maria Butler. Mio padre è scomparso,” esordì lei, coinvolgendolo nella faccenda che gli avrebbe procurato tanti guai da bastargli per un anno intero.
Ma d’altronde, Maria Butler era solo uno dei capi della matassa in cui si sarebbe trovato avvolto e forse niente gli avrebbe impedito di ritrovarsi invischiato in quel casino.
Quando avrebbe ripensato a quella storia, negli anni a venire, Tom Ludlow avrebbe ripensato a Maria Butler come al ‘filo rosso’, in onore delle sue labbra.
Tom prese nota del nome della ragazza.
“Quando è successo?” chiese.
“Non ho più sue notizie da una settimana. Io e mio padre non viviamo insieme, ma ci vediamo spesso. Io ho un piccolo appartamento sulla quarantasettesima e lui ultimamente stava nei dintorni di Lexington.”
Tom le chiese l’indirizzo esatto.
“Avete detto che vi vedevate spesso?”
Lei annuì: “Sì. Talvolta lui passa qualche settimana a casa mia, prima di cercarsi un altro posto…si sposta spesso…”
Lo disse arrossendo leggermente e Tom maledisse di non potersi comportare da gentiluomo e dare così per scontato quello che invece era necessario chiedere.
“Vostro padre ha dei debiti?”
Maria annuì nuovamente: “Sì, qualcuno…non grandi cifre, è sempre riuscito a pagare dopo poco tempo. Gioca a poker, da sempre, ma non è mai stato troppo grave, mia madre quand’era viva non ha mai dovuto nascondergli dei soldi, o altro. A me non ha mai chiesto denaro, non mi ha mai chiesto nulla, a parte di potersi fermare a casa mia per qualche giorno. Ma ora che è scomparso, mi chiedo se non ci sia dell’altro…se non sia fuggito perché non riesce più a saldare i debiti. Io potrei aiutarlo, ho dei risparmi da parte.”
‘Padre fuggito per debiti di gioco…cavolo, sarebbe stato meglio un marito fuggito per debiti’ si disse Tom.
Le mogli prima o poi si staccavano da uomini del genere, ma quale figlia abbandonerebbe il padre, potendolo aiutare?  
“Quand’è stata l’ultima volta che lo avete visto?”
“Venerdì scorso…è venuto a trovarmi al lavoro. Lavoro in un ufficio contabile. Mio padre è passato nella pausa pranzo.”
“Vi è sembrato diverso dal solito? Ha accennato ai suoi problemi, al fatto che voleva andare da qualche parte? Come si comportava quando vi chiedeva di stare a casa vostra per qualche tempo?”
Maria si prese qualche secondo per pensarci su, prima di rispondere: “Non mi è sembrato strano…di solito, quando è nei guai e viene da me lo capisco subito, è come una sensazione che mi fa pensare: ecco, ci siamo di nuovo. Ma stavolta…” scosse la testa, scoraggiata. “Avevamo in programma di sentirci per telefono, ma lui non mi ha chiamata e a quell’indirizzo non ha il telefono. Non è un posto molto rispettabile.”
Era un postaccio, concordò Tom. Un pessimo quartiere, il massimo per un giocatore d’azzardo.
Chiese a Maria se avesse provato ad andare a casa di suo padre per vederlo di persona.
Lei disse di no.
“Vostro padre aveva un lavoro?”
“Sì, da qualche mese lavorava per una ditta di trasporti, guidava i camion. Viaggiava per tutto lo Stato.”
“Non può essere in viaggio? Magari lo hanno chiamato per una consegna improvvisa…”
“Mi avrebbe avvertita. Comunque, dopo un paio di giorni ho provato a telefonare alla ditta per cui lavora e mi hanno detto che non l’avevano visto neppure loro.”
“Come si chiama la ditta di trasporti?”
Tom aggiunse sul foglio su cui prendeva appunti il noma della ditta- Quicktrans- e il nome completo dell’uomo: Andrew Butler, detto Andy, presumibilmente.
“Vi siete rivolta alla polizia, signorina Butler?” le chiese Tom.
Avrebbe dovuto chiederlo subito, ma in realtà paventava la risposta. Se un cliente si è rivolto alla polizia e poi si cerca un investigatore privato, significa che non è molto soddisfatto dell’operato delle forze dell’ordine, e queste ultime hanno il brutto vizio di prendersela a male e di sfogare il loro risentimento sui poveri investigatori privati, quando inevitabilmente le loro strade si incrociano. Se invece il cliente ha completamente aggirato i canali ufficiali, o la faccenda è illegale o il cliente vuole rimanere anonimo, o entrambe le cose, e questo inevitabilmente crea problemi di etica, segreto professionale e intralcio alla giustizia.
Alla fin fine, quale che fosse la risposta del cliente, il povero investigatore privato sapeva che molto probabilmente avrebbe avuto contrasti con le uniformi blu. E Tom Ludlow aveva una lunga lista di contrasti passati con le uniformi blu, che a quanto pareva non riuscivano a perdonargli nulla. Come del resto lui non riusciva a perdonare nulla alla polizia.
“Ho sporto denuncia di scomparsa, ma quando ho parlato del vizio del gioco ho avuto l’impressione che l’agente con cui stavo parlando abbia pensato: caso risolto, solo un tizio che fugge dai debiti, e che la cosa non interessasse a nessuno veramente,” spiegò la ragazza, adombrandosi.
“Credete che ci sia qualcosa di più?” le domandò Tom, con tono gentile.
“Io temo che qualcuno possa fargli del male!” esplose Maria, fulminandolo con lo sguardo. “Voglio che lei lo trovi e gli faccia sapere che gli presterò dei soldi e metteremo tutto a posto, risolveremo ogni cosa!”
“E se tra sei mesi la storia si ripetesse? Mettiamo che io trovi vostro padre, voi gli diate tutti i vostri risparmi e tra sei mesi lui accumuli altri debiti e sparisca di nuovo…vi ritrovereste nella stessa situazione di oggi e in più senza un soldo. Vi sembra uno scenario auspicabile?” le domandò Tom, ben sapendo che le sue parole sarebbero cadute nel nulla.
Maria Butler strinse la sua borsa con più foga e sollevò il mento con aria di sfida. Era decisamente meravigliosa, così.
“È mio padre,” gli rispose con voce dura.
Tom se lo aspettava, non si era aspettato niente di diverso sin dall’inizio del racconto. Scrollò le spalle e ricominciò con le domande.
Quando Maria Butler si alzò, Tom l’accompagnò alla porta, promettendole di telefonarle non appena avesse avuto novità da riferirle.
Tornato alla sua scrivania, ricontrollò gli appunti che aveva preso durante il colloquio e cominciò a batterli a macchina con ordine per inserirli nel suo archivio. Era un uomo ordinato, quando si trattava del suo lavoro…per il resto era una causa persa.
La sua cliente gli aveva fornito un elenco degli indirizzi a cui il padre aveva abitato negli ultimi anni e gli indirizzi di un paio di locali di cui l’uomo si era lasciato sfuggire il nome e che Maria riteneva fossero i luoghi dove andava a giocare a poker. Tom li conosceva, conoscere come le sue tasche la città era d’obbligo nel suo campo, e sapeva che benché si giocasse non erano proprio la meta ideale per un giocatore incallito. Poteva controllare in un altro paio di posti nei dintorni dell’ultima abitazione di Andy Butler, ma era certo che gli amici di Andy avrebbero potuto indirizzarlo meglio di chiunque altro.
Maria non conosceva amici del padre, ma Tom aveva intenzione di andare alla sede della ditta di trasporti, la Quicktrans, e fare qualche domanda anche a loro. Un paio di colleghi che passavano le loro serate libere insieme ad Andy sarebbero saltati fuori, con un po’ di fortuna.
Probabilmente anche la polizia si era recata sul luogo di lavoro di Andy Butler: era stato certamente il loro primo passo, per controllare il ruolino delle consegne di Andy e verificare che nessuno lo avesse visto dal momento in cui Maria aveva telefonato a quello in cui loro si erano mossi.
In ogni caso, da qualche parte bisognava che Tom cominciasse, e lui non aveva intenzione di farlo parlando con i vecchi padroni di casa di Andy.
Inoltre, non avrebbe cominciato quella sera: aveva un impegno.

Finì di battere a macchina i suoi appunti in tempo per andare a cena, sempre che avere in programma di andare a bere sgranocchiando salatini potesse definirsi andare a cena. Prese soprabito e cappello e lasciò l’ufficio, chiudendo a chiave la porta. Scendendo le scale incontrò altri che lasciavano il lavoro per tornare a casa: il palazzo ospitava diversi studi e presentava l’innegabile vantaggio di avere un portiere ventiquattr’ore su ventiquattro.
Adorava quella sistemazione: aveva affittato l’attico una decina di anni prima (‘Già una decina? Eh, sì, vecchio mio…’) insieme ad un collega. L’edificio era vecchio e sprovvisto di ascensore, cosa che influiva positivamente sul costo dell’affitto e sulla psicologia di quei clienti che preferivano l’anonimato.
L’ultimo piano (il quarto, non è che si trattasse di chissà che grattacielo) dava una sensazione di privacy, specie perché da un paio d’anni non c’era nessuno che occupasse i locali al piano di sotto; inoltre gli altri affittuari erano persone discrete e i loro orari coincidevano raramente: se quella sera Tom usciva alla stessa ora di quasi tutti gli altri era dovuto solo al fatto che aveva un appuntamento; alla mattina era totalmente escluso che qualcuno potesse incrociarlo sulle scale.
Scese in strada e si avviò verso nord sul marciapiede affollato di coppie che andavano a cena e poi in qualche locale per un ballo o due.
Diversi taxi affollavano la strada davanti al cinema dove Tom passava almeno un paio di sere alla settimana. Peggy, la ragazza che vendeva i biglietti all’ingresso lo salutò agitando la mano, sventolando il resto dell’uomo in coda davanti alla cassa. Spinto dal senso del dovere e per sdebitarsi degli ingressi che ogni tanto Peggy gli regalava, Tom l’aveva invitata a ballare qualche volta. La fanciulla sembrava essersi presa una bella cotta per lui e la cosa lo metteva un po’ a disagio: non era interessato a quella mite ragazzina con gli occhiali. Forse era il caso di diradare un po’ le sue viste al cinema Lux, almeno finché Peggy non si fosse trovata uno spasimante, rifletté, regalandole un sorriso.
Passò oltre prima di vederla sospirare con aria beata.
Un paio di uomini lo salutarono per nome mentre si avvicinava al locale nel quale praticamente viveva: la Pantera Blu.
Quella sera non era particolarmente affollato, ma d’altronde era piuttosto presto per la clientela abituale della Pantera. La sala principale era illuminata da luci soffuse e sui tavolini circolari piccole abat-jours davano ad ogni conversazione dei loro occupanti un’aria intima e romantica.
Tom puntò dritto verso il bancone del bar, in fondo alla stanza. Dietro il bancone, in abito da sera, lo accolse Winnie, la proprietaria.
Benché Tom sapesse che il nome del locale derivava da una statua a forma di pantera che un tempo era esposta nell’ingresso, scelta del precedente proprietario, talvolta per scherzare chiedeva a Winnie se invece non fosse dovuto a lei a ai suoi magnifici occhi blu. Lei sbuffava, con gli occhi che ridevano, e fingeva di schiaffeggiargli una mano.
Nel suo lavoro era importante conoscere tutti e avere buoni rapporti con le persone che frequentava: se un tizio di cui non sai nulla se ne va in giro a fare troppo domande non sei molto portato a rispondergli. Winnie gestiva un locale molto frequentato e combinando le sue innegabili doti femminili all’intuito sviluppato dopo anni a servire alcolici, sapeva più o meno qualunque cosa sulla sua clientela abituale od occasionaria.
Tom vantava una discreta conoscenza del quartiere e della città in genere, ma ci sono informazioni cui solo una donna riesce ad avere accesso, quindi l’amicizia con Winnie gli era spesso d’aiuto con i piccoli casi per così dire locali.
“Bentornato, tesoro,” lo accolse la donna, avvicinandoglisi e sorridendo in maniera maliziosa.
Da quando si conoscevano Winnie fingeva di provarci con lui, e lui stava al gioco. Non era niente più che uno scherzo tra di loro. L’inconveniente di dover conoscere le persone per ottenere risposte è che spesso le persone finiscono per conoscere te, e Winnie conosceva quasi ogni cosa di lui. A Tom non dispiaceva più di tanto: non è che vivesse nascondendosi. Inoltre, talvolta parlare con Winnie era un’ottima valvola di sfogo.
“Buonasera, Winnie,” le rispose, accomodandosi in cima a uno sgabello e buttando il cappello su quello accanto a sé per tenerlo occupato.
“È un po’ presto per te tesoro…qualcosa in pentola?” gli chiese Winnie, accennando al posto che aveva occupato. “Cosa ti servo?”
“Qualcosa di leggero. Aspetto una persona,” le confermò.
Winnie sembrò illuminarsi, mentre gli serviva un Manhattan: “Aspetti qualcuno? Finalmente mi porti a conoscere un boyfriend?”
Tom sorrise scuotendo la testa: “Un vecchio amico. E non gradirebbe questo genere di battute,” aggiunse, più serio.
Winnie annuì, facendogli capire che non avrebbe scherzato.
Era vero, James non avrebbe gradito. In fin dei conti quale graduato dell’esercito degli Stati Uniti avrebbe apprezzato insinuazioni sulle sue preferenze sessuali per gli uomini?
Conosceva James da quando aveva deciso di frequentare l’accademia di polizia: si allenavano insieme in vista in vista dei test d’ingresso. James aveva finito per scegliere l’esercito, invece dell’uniforme blu, mentre lui…aveva sopportato per un po’, aveva combattuto, perché era un tipo tenace, ma alla fine aveva mollato.
Aveva preso la licenza da investigatore e aveva cominciato a lavorare per Butch Morrison, con cui aveva affittato l’attico in cui si trovava il suo ufficio, una volta che erano divenuti soci.
James invece aveva fatto carriera. Sembrava nato per la vita militare, a parte per un piccolo problema, lo stesso che aveva costretto Tom a lasciare l’accademia di polizia una vola scoperto dai suoi colleghi. James preferiva gli uomini, come Tom.
Ma spesso Tom si sentiva più fortunato di lui. Tanto per cominciare era venuto a patti con la cosa, o almeno era riuscito finora a non impazzire. Non si nascondeva: non che avesse attaccato un avviso sulla porta dell’ufficio, ma non si era neppure trovato una moglie da usare come copertura, come facevano certe checche ipocrite nel mondo dello spettacolo o delle gallerie d’arte dei quartieri alti.
Inoltre, al contrario di James che provava ribrezzo all’idea di labbra femminili, lui amava le donne. Le apprezzava, le ammirava. Ammirava soprattutto il carattere e la fermezza di alcune di loro (era forse per questo che continuava a ripensare ogni tanto alla sventola bionda che era fuggita dal suo ufficio) e da queste ultime si era sentito attratto. Aveva avuto un paio di fiamme, accumunate, secondo l’opinione di Winnie, dalla loro sicurezza e dalla sensazione di controllo che emanavano.
“Tu cerchi qualcuno che metta ordine intorno a te, a cui lasciare le redini mentre ti abbandoni. È perfettamente naturale,” gli aveva detto Winnie una volta.
Era rimasto alla Pantera Blu fino all’orario di chiusura, mentre Winnie riempiva alternativamente il suo bicchiere e quello di Tom. Entrambi erano pesantemente appoggiati al bancone, con le fronti che quasi si toccavano e Tom si sentiva allo stesso tempo esausto, divertito, pronto a lasciarsi andare all’autocommiserazione. Anzi, probabilmente si era lasciato andare all’autocommiserazione, se si ritrovava quasi all’alba a ubriacarsi con la barista.
“Cerchi solo qualcuno che ti ami nel modo giusto,” aveva continuato Winnie, accarezzandogli una guancia. “Peccato davvero che non possa essere io. Anch’io cerco la stessa cosa. Non ci conviene mettere la fame con la sete,” aveva concluso infine, vuotando il bicchiere.
Tom ricordava di essere scoppiato a ridere talmente forte da cadere dallo sgabello.
Winnie rimase a osservarlo prendere un sorso del suo drink: “Uhm…si tratta di un amore non corrisposto?” indagò.
Tom scosse la testa: “Solo un vecchio amico che è passato in città. Preparagli un whisky, è appena entrato,” le disse, studiando il riflesso di James nello specchio alle spalle della donna.
Il Maggiore James Biggs era alto, imponente, solare, con i capelli castano-dorati e gli occhi azzurri. Anche in abiti civili dava impressione di autorevolezza. Praticamente il sogno di ogni madre per la sua bambina.
“Santo cielo, che schianto. Volevo essere solidale con te, Tom, ma cavolo se sono grata che non giochi con le tue stesse carte!” dichiarò Winnie alzando lo sguardo sul nuovo venuto.
Tom ruotò lo sgabello fino a fronteggiare James, che lo aveva raggiunto e lo fissava con un angolo della bocca sollevato.
“Sai che per trovare il posto mi è bastato chiedere dove va a bere quell’investigatore da quattro soldi che sta sulla decima?” esordì, facendosi avanti e stringendogli la mano con calore.
“Spero che tu abbia detto ‘quell’affascinante investigatore da quattro soldi’,” gli rispose Tom, alzandosi.
James sbuffò e se lo tirò contro. La fronte di Tom gli arrivava più o meno all’orecchio.
“È un secolo…” sussurrò James.
“Dal funerale di Morrison. Un paio d’anni…” corresse Tom, districandosi dall’abbraccio.
Aveva avuto modo di notare che James sembrava invecchiato e stanco. C’erano segni intorno ai suoi occhi che era certo di non aver mai visto. E il suo sorriso. Era il solito, certo, ma appena malinconico se non si ingannava. E non si ingannava, lo conosceva troppo bene.
Ma in fin dei conti neanche lui poteva dire di essere passato indenne attraverso gli ultimi anni: beveva troppo, era disgustato da tre quarti dell’umanità, si sentiva solo. Certamente tutto questo traspariva dai suoi tratti.
‘Il giorno che trasparirà da un capello bianco è molto vicino…’si disse e rabbrividì mentalmente.
Era molto orgoglioso dei suoi capelli castano scuro.
James si accomodò sullo sgabello che Tom gli aveva riservato, ringraziando distrattamente Winnie per il drink che gli aveva servito.
La donna gli rivolse un ultimo sguardo estasiato, poi fece a Tom un piccolo cenno di saluto con il capo prima di allontanarsi per lasciar loro un po’ di privacy.
Tom le fece l’occhiolino.
“Mi aspettavo di vederti in divisa. Winnie sarebbe svenuta,” disse a James, dando un’occhiata al cappotto scuro dell’amico e alla giacca sportiva che si intravedeva sotto di esso.
James scrollò le spalle: “Sono arrivato in aeroporto alle due, ho avuto tutto il tempo di andare in albergo, pranzare e cambiarmi.”
“Credevo fossi in città per lavoro. Per qualche patriottico incarico da svolgere in alta uniforme e con piglio solenne.”
James annuì: “È per lavoro, infatti, ma non oggi. Mi sono preso qualche giorno per sbrigare un po’ di faccende personali, vedere te e infine l’impegno ufficiale: sono a L. A. perché venerdì si riunisce una commissione d’inchiesta.”
“Commissione d’inchiesta? Avete avuto qualche casino, giù al Sud?” chiese Tom, riferendosi alla base militare di Encino, dove l’amico era di stanza.
“Più che un casino direi una catastrofe,” confermò James bevendo. “Più o meno un mese fa un convoglio che trasportava armi da Encino al nostro deposito sul confine è sparito. La camionetta di scorta è stata assaltata, gli uomini messi fuori combattimento.”
Tom fischiò: “E le armi sono sparite? Sembra un attacco alla diligenza, messa così…”
“Erano un gruppo molto organizzato: il camion che trasportava le armi si è fermato, forse avevano bloccato la strada in qualche modo. Era buio, la strada da Encino al deposito 114 è per buona parte sterrata, non illuminata. La camionetta della scorta si è fermata, gli uomini hanno pensato che ci fosse da rimuovere qualche ostacolo sulla careggiata e sono scesi per dare una mano. Erano tutti pivelli, arruolati dopo la guerra. Appena sono stati a terra li hanno circondati e disarmati. Ci sono state delle indagini, condotte da noi con l’appoggio della polizia locale, ma non abbiamo trovato i banditi, per riprendere la tua similitudine.”
Scosse la testa.
“Hai detto che forse hanno bloccato la strada? Cosa ha detto il conducente del camion?” chiese Tom.
James buttò giù quanto restava del suo whisky in un sorso: “Niente. Dopo aver disarmato la scorta gli hanno sparato. Forse ha cercato di reagire.”
“Ma c’era solo una camionetta? Solo quattro uomini per scortare un camion di armi e munizioni? Perché?”
Non gli sembrava prudente.
James allargò le braccia, con l’aria di chi aveva dovuto ripetere la stessa risposta all’infinito, ben sapendo che risultava insoddisfacente: “Siamo a corto di uomini. Il deposito è vicino, nonostante le condizioni della strada il viaggio normalmente non richiede più di due ore e certo non attacchiamo i manifesti per far sapere a chiunque quando spostiamo carichi pericolosi. In poche parole: chi se lo aspettava?” concluse, con tono forse troppo leggero.
Ma era una farsa: Tom era perfettamente in grado di capire che la cosa aveva sconvolto il suo amico.
“E tu come ci entri? Fai parte della commissione d’inchiesta?”
James gli rivolse un sorriso auto derisorio: “Ho autorizzato io la partenza del convoglio. Mi è stata delegata l’organizzazione degli armamenti della base. Doveva essere una promozione. Ho festeggiato, lo scorso anno, quando mi hanno conferito l’incarico.”
Tom imprecò sottovoce, per sottolineare la gravità del fatto.
“Quindi dato che i responsabili non sono stati arrestati, la commissione cerca qualcuno su cui scaricare la colpa?”
“Sono un ufficiale. Sono responsabile delle decisioni che prendo,” rispose James. Fece cenno a Winnie di riempirgli di nuovo il bicchiere.
“Non ho sentito nulla, di questa storia. È successo il mese scorso, hai detto? Non c’era una parola sui giornali.”
“Grazie al cielo. È stato uno smacco incredibile, per l’esercito. Tutti hanno tenuto la bocca cucita.”
“Chi sospettate?”
“Così vicino al confine? I Messicani. Al di là del confine episodi di questo genere non sono così infrequenti, girano diverse bande armate.”
Era davvero una catastrofe, ed era evidente che James stava facendo un po’ di fatica a mantenersi calmo.
“Domani sera ho un incontro informale al palazzo del Governo, per valutare la linea di condotta da tenere, e venerdì c’è l’incontro ufficiale davanti alla commissione,” continuò.
“La commissione reclamerà la tua testa?”
“Al massimo formuleranno un’accusa e da quel momento potrò difendermi. Dai, ora basta parlare di questa storia, sono venuto per vederti. Dimmi come te la passi,” gli sorrise, facendo un cenno con il bicchiere come a voler accantonare tutta la faccenda, l’assalto al convoglio, la morte di un uomo e la sua presunta responsabilità per tutto quello che era successo.
Tom fece roteare le ultime gocce di liquore sul fondo del suo bicchiere.
“Non c’è molto da dire. Nessuna grande novità, niente rivelazioni sconvolgenti, a parte un nuovo foro di proiettile sul fianco destro,” scherzò.
“Meglio così. Come va il lavoro?”
“Direi bene. La solita routine di fedifraghi, dipendenti disonesti e truffe assicurative, e da oggi un caso di sparizione, che me lo sento, mi procurerà un sacco di grane con la polizia. Il distretto è quello di Kuntz.”
Si poteva dire che il capitano Kuntz non avesse proprio grande stima di Tom Ludlow, sin dai tempi dell’accademia di polizia che per un periodo avevano frequentato assieme.
Quando il piccolo e oscuro segreto di Tom era venuto alla luce (parole di Kuntz stesso; Tom pensava alla cosa come alla sua ‘posizione sul campo da football della vita’), Kuntz e suoi compagni e tirapiedi avevano deciso che denunciarlo e farlo sbattere fuori dall’accademia sarebbe stato troppo facile e poco divertente. Avevano optato per persuadere Tom ad andarsene di sua scelta, “con le tue gambe o su una barella, a seconda di quando ci metterai a decidere”, per riportare esattamente come l’avevano messa loro prima di rompergli due costole.
Tom aveva sopportato sei mesi di continue minacce, umiliazioni e agguati. A una settimana dalla cerimonia di diploma il bilancio dei danni comprendeva in tutto tre costole rotte, mignolo e anulare della mano sinistra spezzate (ancora un po’ storte adesso), un dente saltato, un taglio che aveva richiesto dei punti dopo una discussione nel bar dove le reclute andavano a bere a fine giornata.
A sua volta, Tom aveva restituito un discreto numero di colpi: lo stesso Kuntz si era guadagnato una frattura alla mandibola e uno dei suoi cari amici aveva preso tante botte da lasciare il gioco e non avvicinarsi mai più a Tom.
Tutto questo, cercando di evitare l’attenzione dei loro istruttori. Soprattutto Tom doveva preoccuparsene: se avesse lasciato troppi segni e i superiori si fossero accorti di qualcosa gli altri si sarebbero spalleggiati a vicenda e lui sarebbe stato buttato fuori. Si era fatto amico un dottore che non faceva troppe domande che ancora esercitava, nella trentasettesima.
All’epoca James si era appena arruolato e anche se si vedevano appena riuscivano a far combaciare le rispettive licenze, di tutta la faccenda era al corrente solo di un paio di episodi.
“Cristo, Tom, non puoi stare lontano da quell’uomo? Ho il sospetto che tu te le cerchi, le grane con la polizia,” fece James, con aria di biasimo.
Forse non era così lontano dal vero.
“Lo sai come siamo io e Kuntz: non perdiamo occasione di ribadire quello che siamo, un sadico bastardo e una checca orgogliosa,” replicò Tom, stringendosi nelle spalle.
“Questa guerra con Kuntz non avresti mai dovuto iniziarla, Tom. E non sarà mai troppo presto per farla finita. Perché non puoi semplicemente lasciare perdere?”
“Perché rifiuto di andare a nascondermi ogni volta che quel bastardo attraversa la strada,” ringhiò Tom, a denti stretti.
Stava cominciando ad arrabbiarsi.
Non aveva lasciato l’accademia a una settimana dal diploma perché ne aveva finalmente avuto abbastanza dei soprusi di quella banda di violenti.
Se si fosse diplomato avrebbe semplicemente potuto chiedere di essere assegnato a un distretto diverso da quello di Kuntz. Prima che le chiacchere su con chi passava il suo tempo libero lo avessero raggiunto, non dubitava che sarebbe riuscito a farsi apprezzare per il suo lavoro e il suo cervello. Sapeva di essere intelligente e sapeva di poterlo dimostrare. Era certo di riuscire a farsi accettare dai suoi colleghi e se anche qualche idiota di un altro distretto avesse sparso la voce che era un invertito i suoi colleghi lo avrebbero comunque sostenuto, perché così fanno i poliziotti: sono solidali tra loro e ancor più solidali tanto più l’ambiente è ristretto, come all’interno dello stesso distretto o dello stesso quartiere.
Avrebbe potuto avere la sua uniforme blu, prima o poi le chiacchere sarebbero cadute nel nulla. Senonché, così facendo avrebbe dovuto nascondersi. Non avrebbe dovuto dar sostegno alle dicerie sul suo conto. Avrebbe dovuto mentire, comportarsi da ipocrita, costruirsi una vita che supportasse le sue menzogne.
Sentiva di non poterlo fare.
E questo James lo sapeva, era con lui che ne aveva discusso una notte intera. Per questo si stava arrabbiando.
“Non ho intenzione di comportarmi da codardo. Ho fatto la mia scelta e devi rispettarla. Non venirmi a parlare di lasciar perdere, di ignorarli o di far finta di niente! Tu hai scelto la tua vita e io cerco, per quanto mi riesce, di non intromettermi. Non puoi rendermi la cortesia?” gli sibilò contro.
“Sappiamo entrambi che tra noi due sono stato io a fare la scelta del codardo,” gli rispose James, senza perdere le staffe.
Lui non perdeva mai le staffe.
“Anche se ti assicuro che vivere nella paura che tutto possa saltare fuori non è semplice. Ma l’altra opzione mi spaventa ancora di più. Mi preoccupo per te, che uno di quei bastardi ti possa sparare in un vicolo, o…”
“So badare a me stesso,” gli rispose Tom, un po’ addolcito.
“Lo so. Hai intenzione di invitarmi a cena o no?” concluse James, alzandosi in piedi e lasciando un paio di banconote accanto al bicchiere per saldare il conto.
Anche Tom si alzò: “Ti va una bistecca? Conosco un posto. È poco più di una bettola, ma la cucina è grandiosa.”
Uscirono dalla Pantera Blu, lanciando un saluto a Winnie, occupata con i clienti arrivati negli ultimi minuti.
“Poco più di una bettola? Preferirei un posto di classe: cosa mi sono portato a fare il frac in valigia, altrimenti?” ridacchiò James.
Si avviarono per i vicoli del quartiere.
“È un posto intimo. Magari non ti va di farti vedere troppo con me. Qui tutti mi conoscono e le voci girano,” gli rispose Tom con tono leggero.
Non avrebbe mai e poi mai messo in difficoltà James. Il problema non era solo un eventuale scandalo. James adorava la vita militare, non avrebbe sopportato di essere cacciato.
James gli si fece più vicino e gli diede una spallata giocosa: “Non è un problema. Nessuno conosce me.”
“È vero. Se fossi da solo probabilmente qualcuno ti avrebbe già rapinato. Ma dato che sei con me...” disse Tom.
“Sono venuto fin qui da solo e non mi è successo niente,” gli fece notare l’amico.
“Vediamo come andrà stanotte quando usciremo dal ristorante e tornerai in albergo da solo,” lo rimbeccò Tom, leggermente piccato che James avesse snobbato la sua protezione.
Anche se doveva ammettere che solo un idiota avrebbe provato a derubare un tipo alto un metro e ottantacinque, con il fisico di un pugile e un taglio di capelli che urlava ‘forze armate’. Inoltre, forse un pivello non lo avrebbe notato, ma un delinquente esperto avrebbe riconosciuto il rigonfiamento provocato dalla pistola d’ordinanza di James. Quindi forse la sua offerta di protezione era inutile, ma non per questo meno cavalleresca, no?

La cena fu piacevole. Il ristorante non era un granché, ma le bistecche erano anche meglio di come Tom ricordasse, e gli alcolici passabili. Tuttavia non era posto dove passare tutta la sera a bere e dato che l’atmosfera si era fatta un po’ malinconica (‘Segno della vecchiaia imminente’ si disse Tom), propose di farsi ancora qualche drink nel suo ufficio.
Il portiere del palazzo rivolse loro niente più che un cenno della testa e due uomini salirono indisturbati fino al quarto piano.
“Devi bagnare le felci,” gli ricordò James, con un sorriso un po’ brillo.
Tom lo mandò al diavolo.
Un piccolo mobile bar occupava un angolo dell’ufficio. Era appartenuto a Butch Morrison, che lo riteneva più elegante che tenere una bottiglia nel primo cassetto della scrivania.
“Specie quando devi offrirne ai clienti,” gli ripeteva spesso.
Mentre Tom, abbandonata la sua giacca, versava del liquore in due bicchieri, allungando la bibita con un po’ d’acqua, James diede un’occhiata alla stanza.
“Non me la ricordavo così spoglia,” commentò.
Tom gli porse il bicchiere: “Ho tolto le foto. Da poco, in realtà. Non mi hanno mai dato fastidio dopo il funerale, poi un giorno sono entrato e mi sono ritrovato a pensare che se non le toglievo al più presto avrei sfasciato tutto in un attacco di rabbia. Hanno cominciato a farmi impressione così, dal nulla.” Prese qualche sorso. “Le riappenderò, prima o poi. Quando mi prenderà un po’ di nostalgia.”
“Sei sempre stato un sentimentale,” fece James. “Povero Butch. Dava l’impressione di essere insormontabile, indistruttibile. Irremovibile.”
“Già, e invece…”
Morrison era morto per un attacco cardiaco. Lui e Tom erano stati coinvolti in una sparatoria, per un caso di rapina. Avevano sistemato i delinquenti, la polizia era arrivata a dar loro man forte, per una volta, e tutto sembrava risolto. Era tornata la calma, Butch si era acceso una sigaretta ed era caduto nel bel mezzo della strada, sui piedi del poliziotto che gli aveva prestato l’accendino. Probabilmente aveva il cuore malandato da tempo.
“Le altre stanze sono chiuse?” chiese James, accennando con un gesto a una porta laterale.
Tom fece cenno di sì.
“Non ho bisogno di tutto quello spazio. Uso solo la stanza sul retro. Ancora?” chiese, allungando una mano per prendergli il bicchiere vuoto.
James glielo consegnò.
“Cavolo. Niente più acqua,” constatò Tom, una volta tornato al mobile bar.
Aprì la porta della stanza sul retro per riempire una caraffa dal piccolo lavandino di servizio.
James si affacciò nella stanza dietro di lui.
“Ma che…cavolo, Tom, ci vivi, qui?” gli domandò stupito.
La stanza aveva una piccola finestra con gli avvolgibili abbassati, un letto in ferro sgangherato sulla cui spalliera erano appese un paio di camicie. Un cassettone conteneva il resto dei vestiti di Tom.
L’investigatore scosse le spalle.
“Fai tu?” disse, consegnando la caraffa a James, e andò ad aprire la finestra per far circolare un po’ d’aria.
James aggrottò la fronte, ma preparò due nuovi drink.
“Allora? Ti sei trasferito in ufficio?” chiese di nuovo, tornando.
“Ho cominciato a dormirci un paio di volte a settimana. Poi finivo sempre per fermarmi qui. A volte tornavo a casa e dopo due ore ero di nuovo qui,” spiegò Tom: “Così ho lasciato l’appartamento e mi sono attrezzato per restare.”
Si rendeva conto che la sistemazione era quanto mai squallida, e avvertita una punta di vergogna all’idea della bottiglia in fondo al suo cassetto della biancheria. Ma quella sistemazione si accordava perfettamente con il suo stato d’animo degli ultimi tempi: usurato.
“Hai lasciato la casa in Yucca Avenue?” James scosse la testa incredulo. “E io che mi ero quasi offeso perché non hai provato a portarmi a casa tua…” commentò con un sorriso.
Tom si affacciò alla finestra: “Era una casa grande…e non ci portavo mai nessuno.”
James si avvicinò alla sua schiena: “Ma stare qui…non mi sembra salutare. Dovresti allontanarti da qui ogni tanto, dimenticare il lavoro. Ci riesci, con lo schedario dei casi a due metri dal tuo cuscino? E poi, dannazione, Tom, è un attico! Se proprio vuoi viverci perché non lo arredi come si deve, invece di …bivaccare come un uomo cacciato di casa dalla moglie?” fece James, con tono leggermente esasperato.
Cominciava a far fresco per un uomo in maniche di camicia, così Tom richiuse la finestra.
“Non è così male, alla fine. È luminosa, le tubature del bagno sono nuove, al mattino non faccio mai tardi al lavoro e in questo momento nella mia camera da letto c’è uno splendido uomo. Che cosa potrei volere, di più?” rispose, rivolgendo un ghigno a James.
Vuotò il bicchiere. Fece per scostarsi dalla finestra, ma James non si mosse.
Gli rivolgeva uno sguardo che Tom conosceva perfettamente: se l’erano scambiati un milione di volte; era certo, anche se erano passati quasi quindici anni, che il primo sguardo che James gli avesse mai rivolto fosse proprio quello. Era uno sguardo caldo, profondo, tenace nell’attesa che Tom si avvicinasse.
Ogni volta che James lo guardava così finivano l’uno contro l’altro, pronti a finire a letto.
Non erano mai stati una vera coppia. Erano sempre stati attratti l’uno dall’altro ed erano sempre andati a letto insieme, più spesso che no, ma avevano entrambi stabilito che avere un amico con cui condividere quello che erano, quello che li faceva sentire diversi da tutti gli altri era molto più importante di una scopata.
Winnie gli aveva chiesto se James era un amore non corrisposto: per Tom, James era prima di tutto un amico. Lo amava, ed era riamato, ma era un aspetto secondario della loro relazione.
“Mi guardi così perché ti faccio pena per la storia dell’appartamento?” gli chiese prendendo tempo.
E allo stesso tempo facendo un passo verso di lui.
“Ci penso da quando ti ho visto al bar. Dal momento in cui ti ho abbracciato,” rispose l’altro.
“Lo sapevo,” fece Tom, allungando una mano dietro di sé e riabbassando gli avvolgibili.
Entrambi cercarono a tentoni il davanzale della finestra per posare e i bicchieri, e magicamente quel gesto li addossò l’uno all’altro. Non appena Tom reclinò la testa all’indietro James prese a baciarlo stringendolo tra le braccia fino a lasciarlo senza fiato. Tom non ebbe altra scelta che aggrapparsi alla sua vita, sentendo la testa leggera come se si fosse ubriacato di nuvole. Sentiva il cuore nel petto accelerato più del suo respiro e dovette staccarsi dall’amico.
“Dammi un minuto, ti prego…” lo implorò, voltandogli le spalle.
James gli premette il petto contro la schiena e gli baciò una tempia: “Stai bene?”
“Sì, è solo passato molto tempo. Credo di essere nervoso,” spiegò Tom, prendendo l’altro per mano e avvicinandosi al letto. “Meglio non stare a pensarci troppo,” continuò con un ghigno.
Era passato davvero molto tempo. Non si era mai sentito troppo a suo agio ad agganciare qualcuno in un locale, anche se non erano mai mancati i damerini che gli avevano proposto un giro su qualche bella macchina sportiva. Né era un tipo da far sesso in un luogo pubblico, principalmente perché il rischio di rimorchiare un agente della buoncostume non lo eccitava minimamente. Sapeva che James, stando così vicino al confine, trovava tempo ogni tanto per una gita in qualche bordello messicano. In un bordello messicano si può trovare di tutto.
‘Anche cose che preferiresti non vedere mai’ ricordò a se stesso, ripensando a un viaggio fatto da ragazzo con altri due amici.
Scacciò l’immagine dalla mente, mentre guardava James mettersi a sedere di fronte a lui con un sorriso divertito.
Tom cominciò a sbottonarsi la camicia, ma James sostituì le sue dita con le proprie: “Lascia fare a me…” sussurrò.

Tom si svegliò circa verso le due, a sentire il suo orologio interno.
Nella notte James si era alzato e aveva aperto la finestra di pochi centimetri, e ora fumava seduto a letto con un ginocchio piegato, lasciando cadere la cenere in uno dei bicchieri che avevano usato la sera prima. Aveva lo sguardo rivolto verso la finestra, ma quando Tom si stropicciò un occhio abbassò gli occhi azzurri su di lui senza dire nulla.
Ancora non del tutto sveglio, Tom alzò una mano e gliela appoggiò sul petto, quasi a verificare che fosse davvero lì.
Era contento di essersi svegliato. Negli anni lui e l’amico non avevano mai condiviso un appartamento: le volte che si erano svegliati assieme nello stesso letto si contavano sulle dita di una mano. Anche quella notte James aveva con tutta probabilità l’intenzione di tornare a dormire in albergo.
Tom gli accarezzò con la punta delle dita i muscoli ben definiti, scendendo fino agli addominali. Con gli occhi studiò la curva della spalla, il braccio con cui James reggeva la sigaretta continuando a fumare.
Gli sarebbe piaciuto dormire con James, svegliarsi tardi, fare colazione. Talvolta rimpiangeva che non potessero avere una vita insieme, ma non era cosa per un soldato e un detective privato. Al massimo lo facevano quei vecchi omosessuali che gestivano esclusivi negozi di antiquariato.
James continuava a fissarlo, soffiando fumo azzurrognolo a intervalli regolari. Quante cose avrebbe voluto dirgli, Tom. Mi sei mancato. Resta, per stanotte. Possiamo sistemarla insieme, la faccenda della commissione d’inchiesta.
“Scopami,” disse.
James lasciò cadere la sigaretta nel bicchiere che usava come posacenere e si chinò su di lui.


Note:
Grazie per aver letto fin qui!
Questa è una vecchia storia scritta per un NaNoWriMo, ispirata a 'Il lungo addio' di Raymon Chandler e a 'L'ultimo caso di Umney' di Stephen King, ma senza pretese È completa e mi spiaceva abbandonarla senza averla mai pubblicata.
Non ne sono completamente soddisfatta: il titolo è particolarmente stupido (ma è sopravvissuto per anni, ad almeno tre revisioni, quindi restaXD), i riferimenti geografici sono abbastanza raffazzonati, il periodo storico volutamente indefinito perchè all'epoca non volevo perdermi in ricerche infinite invece di scrivere e raggiungere le mie 1667 parole quotidiane.
Inoltre, ai tempi non mi ero neanche posta il problema, ma ora mi domando se io sia davvero la persona adatta a scrivere di un personaggio bisessuale in un ambiente omofobo....spero di non urtare la sensibilità di nessuno.
   
 
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