Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: yonoi    15/07/2019    11 recensioni
In un tempo remoto, quando gli uomini credevano che il sole andasse a trascorrere la notte sul fondo del mare e la presenza di Dio si rivelasse nei colori e nelle forme del mondo, quando gli ambulanti giravano per le piazze vendendo amuleti e altri oggetti di meraviglia, allora ci fu un sogno: unire i due grandi Imperi che si affacciavano sulle sponde del Mediterraneo. Gli storici tramandano che le nozze tra Zoe Porfirogenita, principessa bizantina, e Ottone III di Sassonia, che all'epoca reggeva il Sacro Romano Impero, non furono mai celebrate a causa della prematura morte del giovane imperatore. In questa storia, invece, l’Oriente e l’Occidente si uniscono a formare un unico grande regno; un regno in cui viaggiano reliquie e ciarlatani, una principessa imperiale con il suo seguito, due monaci con un libro, briganti più o meno famosi e soprattutto tre uomini con un carro e il ciuco del titolo.
Questa storia partecipa al contest "Senza Tempo II indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Avventura, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo terzo: Dove si narra di colombe e di serpenti, qualche nodo viene al pettine ma la maggior parte resta così com’è


 
“Se i fatti non si adattano alla teoria,
occorre cambiare i fatti”
(A. Einstein)

 
Non appena fu giorno, ci lasciammo alle spalle il profilo cadente della Torre del Becco e riprendemmo la strada verso Nonantola. Camminavamo con la coda tra le gambe: Rosvita perché le veniva naturale, io e Teodoro con il morale che strusciava sotto ai sandali.
Non potevo fare a meno di ripensare a tutte le ore trascorse su quei folia, ai sette cori angelici, alla Natività che io stesso avevo realizzato con la supervisione del mio magister. Teodoro aveva abbozzato i volti, senza dotarli di quell’espressione fissa che andava tanto di moda a quel tempo e che si pensava fosse una prerogativa della maestà. Al contrario, il mio maestro aveva disegnato i volti in movimento, volgendoli tutti verso la mangiatoia: Giuseppe il giusto e Maria contemplavano il Bambino, i pastori giungevano in processione insieme agli agnelli, qualcuno si affacciava a spiare dentro alla grotta. Io avevo provveduto a posare le lamine dorate per le aureole, a mescolare diverse misure di curcuma e zafferano con la malachite in polvere, per creare un paesaggio che fosse il più possibile luminoso grazie alla mescolanza del verde e del giallo.
Appollaiate in cima ai palmizi avevamo disegnato anche alcune scimmie, sicché l’intero mondo – umano e animale – era presente per venerare il Cristo Bambino.
“La luce contiene ogni colore,” spiegava il mio magister. “Lo dimostra l’arcobaleno, che fu il segno della prima alleanza, quando Dio lo inviò a Noè promettendogli che la terra non avrebbe più subito il diluvio. Fai attenzione ai bordi, il tuo lavoro non richiede fretta ma precisione.” Immersi nella trasparenza mattutina che filtrava nello scriptorium, mi pareva di essere sollevato a quei cieli cosparsi da un sottile strato di gomma, sopra a cui si posavano minute stelle d’argento che il mio maestro tagliava e io posavo a una a una in punta di penna.
“La varietà dei colori rappresenta la Grazia che opera in molteplici forme nel mondo,” diceva ancora Teodoro. “Fiat lux disse l’Altissimo. La luce si separò dalle tenebre e nacquero le diverse gradazioni delle tinte.” Allora ero ben lontano dall’immaginare che quei folia, miniati con tanta pazienza e devozione, sarebbero presto spariti insieme a un pacco di fichi, trasformati in bottino dai ladruncoli di una notte.
Mentre camminavamo sotto al sole già estivo, incrociando a tratti manipoli di coscritti che dai paesi si avviavano verso il castrum di Classe, Teodoro si era chiuso in un mutismo assoluto. Io arrovellavo fra me molti pensieri. Non avevo alcun dubbio riguardo al fatto che a mettere a segno il colpo erano stati i tre del ciuco. Nessun altro sapeva che avremmo pernottato alla Torre del Becco, nessuno avrebbe potuto capitarci fra capo e collo così a colpo sicuro, a meno che i famosi briganti di Paganello non fossero passati di là proprio per caso. Mio padre soleva dire che il caso non esiste, esistono la Provvidenza e gli sprovveduti: ed era piuttosto facile capire in quale delle due categorie dovevamo collocarci io e il magister.
È meglio scivolare sul pavimento che con la lingua, dicono le Scritture. Non avevamo parlato troppo e neppure a sproposito, ma l’accento di Teodoro era quello dei greci e si sa che per i furfanti di tutto l’Imperium essere greci significa ricchezza, anche se ben nascosta sotto al saio di un monaco. Probabilmente i tre avevano pensato di mettere le grinfie su scorte d’oro e d’argento o sui preziosi lapis lazuli d’Oriente, quando invece il colpaccio aveva fruttato loro un intero evangeliario.
Più ci pensavo e più le facce di quei tre mi tornavano davanti agli occhi. Sarei stato in grado di riconoscere persino il ciuco. Era da poco trascorsa l’ora del mezzogiorno e il mio stomaco cominciava a farsi sentire. Già pensavo a come rompere quel muro di silenzio ch’era sorto tra noi, per domandare a Teodoro dove poter rimediare qualcosa da mettere sotto i denti. Assieme al volume, infatti, quei furfanti s’erano presi anche le ultime provviste.
D’un tratto ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un miraggio, simile a quelli che tormentavano i Padri del deserto a causa dei lunghi digiuni: verso di noi avanzava una colonna di armati, che recava nel mezzo i tre della Torre del Becco issati sul loro carro e legati come il prosciutto che si fa dalle mie parti. Il ciuco avanzava a testa bassa, nella polvere sollevata dai calzari dei soldati, e aveva tutta l’aria di vergognarsi con buona ragione. 
Magister!” sussultai, afferrando Teodoro per la manica. “Guarda un po’, sono loro!”
Teodoro resuscitò improvvisamente dal suo stato di apatia e interrogò il primo che gli capitò a tiro: “Chi sono quegli uomini e perché li avete arrestati?”
 “Sono tre ciarlatani, venditori di amuleti e diavolerie varie,” rispose il soldato facendosi da parte, per non bloccare il transito dalla colonna in marcia. “Il signore di Fosso Ghiaia, in obbedienza ai decreti dell’Imperator, ha stabilito che tutti gli ambulanti sorpresi sul suo territorio vengano aggregati alle truppe da inviare in Hispania, in aiuto dei regni di Leόn e Pamplona.”
“Leόn e Pamplona?” ripetei esterrefatto.
“Esattamente, ragazzo. Cipriano ha deciso di riportare l’impero entro i confini di un tempo. Vedremo se riuscirà a riprendersi anche Roma,” sghignazzò il militare. “Quella sì è un osso duro, molto peggio dei mori.”
“I vostri coscritti li legate sempre come presiutti?” intervenne Teodoro che ancora stentava a esprimersi nel nostro volgare ma dalla visione dei tre, che parevano pronti per essere salati, aveva ricavato la mia stessa impressione. Nel frattempo, la colonna si era arrestata ed era sopraggiunto un tizio col pennacchio sull’elmo, molto probabilmente un centurione:
“Avete qualcosa da dire riguardo a quei tre malviventi?” ci interpellò, rude. “Quelli non li abbiamo certamente arruolati. Li portiamo a Ravenna, dove saranno sottoposti al giudizio di Dio. Una bella passeggiata sopra ai carboni ardenti: se ne usciranno indenni, allora saranno riconosciuti innocenti, come si ostinano a dire. Diversamente, saranno loro tagliati i piedi e le mani, come si conviene a dei ladri. Se volete il mio parere, venerabili padri, io sono convinto che a mastro Spillo, il boia, non mancherà il lavoro da fare.”
In silenzio, Teodoro lasciò vagare lo sguardo sui volti dei prigionieri. Quello che doveva essere il capo si ostinava a esibire una faccia di pietra e a tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte, come se l’intera messinscena non lo riguardasse affatto. Il più giovane se ne stava buttato in un angolo e pareva già morto: a vederlo, si poteva ben dire che l’unico ufficio che restasse da compiere a mastro Spillo fosse semplicemente quello di seppellirlo. L’ultimo del terzetto, quello con le gote rubizze e la pancia da bevitore, ci fissava con gli stessi occhi mogi del ciuco. A Liutprando erano letteralmente cadute le orecchie. Si limitò a sollevarne una soltanto quando riconobbe, accanto a noi, Rosvita.
“A me, questi tre uomini par proprio di conoscerli,” disse a un certo punto Teodoro. “Cosa hanno mai commesso di così grave perché si debba ricorrere al giudizio di Dio?”
“Li abbiamo trovati in possesso di un volume pitturato, che quei tre riferiscono di avere acquistato da viandanti di passaggio, mentre sicuramente l’avranno trafugato in qualche chiesa.”
“Potete mostrarcelo?” domandò ancora Teodoro. “Io e il mio novizio siamo miniatori presso l’abbazia di Nonantola. Proprio di recente abbiamo lavorato a un’opera del genere.”
A un cenno del superiore, il soldato di prima cavò dal carro uno scrigno di legno intarsiato, che riconobbi all’istante: dentro, c’era precisamente il nostro evangeliario.
Stavo per aprir bocca, quando mi capitò tra capo e collo il più solenne scappellotto che mi fu mai rifilato dal magister, da quando lo conobbi fino all’ultimo giorno in cui, vegliardo e quasi cieco, continuò a sedere al mio fianco e a correggermi semplicemente ascoltando il fruscio della penna.
“Proprio come immaginavo,” asserì Teodoro scuotendo capo, mentre i tre presiutti sul carro sbiancavano come panni trattati con la liscivia. “Qui c’è stato un equivoco. Se me lo consentite, vi mostrerò chiaramente che questi nostri compaesani sono innocenti.”
Fissai in volto Teodoro, sforzandomi di nascondere il mio stupore. Il magister aprì il volume e prese a sfogliarlo davanti al centurione. Arrivò all’ultima pagina e cominciò a spiegare, sempre tenendo il testo sotto al naso del milite come se avesse a che fare con un esperto par suo: “Quest’opera, come risulta dalla postilla conclusiva, è stata realizzata presso l’abbazia di san Silvestro a Nonantola e di seguito affidata a questi pii pellegrini, perché la recassero al parroco di Borgo Faina in cambio di… cosa avevate stabilito, voialtri, con l’abate Rodolfo?” Teodoro si rivolse direttamente ai tre del ciuco. Due si limitarono a guardarlo trasognati, mentre il più coriaceo, il capo della banda, ebbe la faccia tosta di rispondere a tono: “Tredici libbre di pinoli per il tempo di tredici inverni.”
“Purtroppo l’abate si è dimenticato di fornire ai nostri inviati un’adeguata lettera di presentazione. Noi ci siamo messi in cammino apposta per consegnarla a questi buoni uomini, a titolo di salvacondotto per il viaggio. Ad ogni buon conto, eccola qua.” A meno di una spanna dal naso del centurione, Teodoro sventolò la pergamena di benedizione per le nozze, che Rodolfo aveva scritto di proprio pugno per accompagnare il dono all’augusta Teofano. “Qui puoi vedere bene la firma e il sigillo,” aggiunse il mio magister, indicando col dito come si usa fare con gli illetterati, solitamente propensi a farsi impressionare da ceralacca e svolazzi.
Il centurione si limitò a guardare prima la pergamena, poi si voltò in direzione dei tre tapini sul carro. Di nuovo riportò la sua attenzione allo scritto e lo scorse dal principio alla fine, senza battere ciglio. “Forse dovrei sentire il preafectus a Ravenna…” Era evidente che non sapeva che pesci pigliare, sicché Teodoro ne approfittò per battere, come si suol dire, il ferro finché era caldo.
“Tu metti in dubbio le parole di uomini di Dio,” lo incalzò il mio magister. “Solo per questo meriteresti la sorte che vorresti riservare ai nostri delegati. Leggi le parole del nostro abate,” insistette, brandendo la pergamena come se fossero le tavole di Mosè. “Leggi e decidi di conseguenza.”
“Ho letto certamente, venerabile padre,” si difese quell’altro. In breve, diede disposizioni affinché i prigionieri fossero sciolti dai ceppi e restituiti alla proprietà di Nonantola insieme al reliquiario, al carro e a Liutprando. La colonna si mosse con un fragore di ruote, armature pesanti e passi cadenzati, e riprese il cammino.
Quando ci trovammo al riparo da orecchie indiscrete, interpellai il mio maestro: “Magister, perché mai hai voluto rischiare per quei delinquenti?” sussurrai a bassa voce. Quelli del ciuco ci seguivano a debita distanza e lentamente cominciavano a riaversi. “E soprattutto, come facevi a sapere che il centurione non era in grado di leggere?”
“Ricorda che sotto alla ruota del più maestoso pavone si nasconde un comune deretano di pollo,” disse Teodoro, serio. “Alla stessa maniera, sotto alle penne di un centurione si nasconde, di solito, un villico ignorante.”
“Sei stato astuto, magister, anche se io non riesco a capire perché: quei tre sono dei ladri e la pena che li attendeva era giusta. Non era sufficiente recuperare l’evangeliario e per il resto lasciarli al giudizio di Dio?”
“Da quando Dio fa giustizia scottando i piedi ai suoi figli?” replicò Teodoro, serafico. “A Calcedonia c’è un detto: tutti i giorni si svegliano un furbo e uno stolto. Se i due s’incontrano, l’affare è presto fatto.”
“Però la Scrittura condanna la furbizia come opera del demonio,” insistetti, confuso.
“Tu scherzi, figlio mio. Nostro Signore raccomanda ai suoi discepoli di essere candidi come colombe, ma anche scaltri come i serpenti.” Mi arrivò sulla coppa un altri scappellotto e finalmente il mio maestro rise di cuore. Sicuramente, l’idea di mettere alla prova il suo ingegno gli era sembrata un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Così pensai allora, inesperto com’ero delle cose del mondo. Ora invece, ricordando quegli eventi ormai lontani nel tempo, comprendo che il mio magister non aveva agito per sfida o perché detestava certe usanze da barbari travestiti da romani. Lui non lo ammise mai, ma in realtà fu mosso da compassione.
I tre del ciuco ci seguirono per un po’. A un certo punto mi accorsi che non udivo più, dietro di noi, il lento incespicare delle ruote del carro. Mi voltai a controllare e alle nostre spalle vidi solamente la strada e il vento che sollevava un mulinello di sabbia. Il mare non doveva esser troppo distante, il suo odore di spazi aperti e salmastri arrivava fin lì. Mi parve di udire i richiami dei gabbiani, ma forse quello era realmente un miraggio.
“Andiamo, fratello,” mi sollecitò Teodoro. “La strada è ancora lunga e una volta a Nonantola dovremo giustificare il nostro fallimento di fronte all’abate.”
“Perché, abbiamo fallito?” domandai io, smarrito.
“Abbiamo perso la strada e con essa anche il corteo dell’augusta. Ci mancava solo che perdessimo il reliquiario per essere eletti fessi summa cum laude.”
“Quindi alla fine siamo stati dei fessi anche noi?”
“In un modo diverso,” sorrise il mio magister. “come si addice a dei buoni credenti. In fondo, siamo tutti in parte colombe e in parte serpenti. In questo mondo sono ben rare le eccezioni.”
“Come quel centurione?”
“Il centurione, certo, ma anche un altro idiotes di mia conoscenza.”
Mi arrivò dritto sul collo un altro scappellotto, che però questa volta mi parve assai affettuoso.

 
******
 

In una regione imprecisata del nord, in viaggio verso i confini dell’Imperium
 

Di fronte alla visione di quel guerriero armato di tutto punto, che brandiva un’ascia e urlava nel suo linguaggio rauco, furibondo e del tutto incomprensibile, lì per lì ero rimasta impietrita. Mi appiattii contro alle cassepanche che formavano il mio esiguo riparo, vidi l’ascia ruotare e udii il rumore della lucerna che s’infrangeva. Cadde un buio agitato dalle molteplici grida che provenivano dall’esterno, eppure simile a un silenzio colmo d’aspettativa. Il mio stesso aggressore si ritrovò a brancolare: troppo esaltato o probabilmente troppo rozzo per attendere che l’occhio si abituasse alla penombra, menava colpi a caso, cercando di farsi strada in mezzo alle masserizie per giungere fino a me, che nel frattempo continuavo ad arretrare finché arrivai a sfiorare le assi nude del carro.
Più in là non potevo andare, sicché mi toccò affrontare di petto l’avversario e lo feci d’istinto, lanciandogli contro l’unico oggetto che avevo a portata di mano, ossia la santa reliquia.
Quel che accadde a quel punto mi risulterebbe del tutto incredibile, se non fosse per il fatto che io stessa ero presente e vidi con i miei occhi: il pesante broccato si avviluppò all’elmo del mio aggressore, dotato di molteplici punte che divennero altrettanti appigli. Più quello tentava di scrollarselo più il drappo si avvolgeva come se fosse vivo. La porzione di panno che recava impresso il volto del Cristo si piantò esattamente sulla faccia di quel gigante vestito di ferro, armato come un intero esercito. L’uomo cominciò a urlare mentre da ogni parte si levava un lezzo di carne bruciata. Impietrita, assistetti a quel fenomeno straordinario: sotto alla cappa di tessuto ricamato, il corpo di quel tizio ardeva come un tizzone avvolto dalle fiamme di un’intera fornace. In breve lo straniero cadde riverso a terra, sussultò in uno spasimo e poi rimase immobile. Fu a quel punto che Rustico fece capolino dalle cortine: “Piccola augusta,” mi chiamò, con la voce che vibrava di tutte le possibili note della paura. “Piccola augusta, sei qui?”
All’esterno erano cessate le voci della battaglia. Scivolai fuori dal mio nascondiglio, lasciandomi illuminare dalla fiaccola che Rustico muoveva qua e là cercandomi, riempiendo il carro di ombre e bagliori confusi. Ovunque affioravano cocci e assi sfondate. Da sotto al broccato, sottili volute si levavano verso l’alto.
Al vedermi, Rustico parve risollevato. Quando però il suo sguardo cadde sul corpo ancora coperto dal broccato, sgranò gli occhi e m’interrogò stupefatto: “Cos’è successo qui? Ti hanno aggredito?” Puntò la torcia illuminandomi dal capo fino all’orlo dell’abito, in cerca di qualche segno evidente di violenza.
“Non mi hanno fatto nulla. La reliquia del Cristo mi ha protetto,” mi limitai a dire. Ancora stentavo a credere a quel che avevo visto. Dietro a Rustico comparvero altri uomini della scorta, che calarono il corpo del bruciato fuori dal carro e lo abbandonarono insieme ai molti altri che giacevano nella macchia.
All’orizzonte, cominciava ad albeggiare.
Durante quella notte, ci eravamo lasciati alle spalle le terre delle paludi con i monaci chini a sollevare argini e a recare qua e là carriole di pietrisco. Il cammino era proseguito attraverso un’altra pianura segnata da profondi acquitrini e foreste. A differenza della spianata delle Carceri, questa era totalmente disabitata. Passando per il bosco, là dove il terreno era meno imbevuto, i carri avanzavano più spediti, senza correre il rischio d’impantanarsi nel fango. Finché, lungo un viottolo che a stento procedeva tra i rami bassi dei salici, era subentrato l’agguato.
“Hanno preso Berta di Classe e le altre donne,” m’informò Rustico, asciutto. “Quelli di noi che sono rimasti li vedi qui.” Erano un pugno di uomini, in buona parte malconci e sorretti dai pochi che ancora riuscivano a reggersi in piedi.
A partire da quel momento, il pensiero di Berta e quello per la mia scorta decimata a quel modo occupò interamente i miei pensieri, relegando in un angolo gli strani fatti occorsi riguardo alla reliquia di Compostella. Secondo i pretoriani, l’attacco non era stato condotto da una banda di briganti, sebbene quelle terre fornissero asilo a molti sbandati e fuorilegge.
“Era un’intera coorte di armati,” disse un soldato giovane, ancora profondamente impressionato e forse esagerando.
“Non dire enormità,” lo biasimò un centurione, un certo Rutelio. “La verità è che ci hanno colti di sorpresa.”
“Ci sono venuti addosso come se ci stessero aspettando,” puntualizzò un altro.
“Normale, per dei briganti.”
“Non era gente qualsiasi. Quelli erano ungari”, intervenne Quintilio, che non era un pretoriano ma un veterano di guerra. “Li ho conosciuti ancora ai tempi di tuo padre, piccola augusta, quando Stefano il Pio inviò una delegazione per stipulare un patto di alleanza con l’Imperium. Si dicono convertiti ma sono gente selvaggia, incline alla razzia.”
“Come fai a dirlo con sicurezza?” lo rimbeccò Rutelio, che era coperto di sangue da capo a piedi ma evidentemente non si trattava del suo, dal momento che era combattivo come un leone, quanto meno a parole. “Ti rammento che sei alla presenza di Teofano di Ravenna e che la meta del viaggio è proprio il regno degli Ungari.”
“So chi ho di fronte e dove siamo diretti,” disse Quintilio chinando leggermente il capo al mio cospetto, “ma so anche quello che dico. Conosco bene quel popolo e non per sentito dire. Dopo aver stretto accordi riguardo alle tue nozze, inscenarono una battaglia con alcuni dei nostri, durante i festeggiamenti in onore dell’Imperator. Ti dico solo che ci furono molti morti, piccola augusta, ma non puoi ricordarlo: eri nata da poco.”
Nel frattempo, il giorno s’era levato e subito nascosto dietro a una coltre di nebbia, quasi avesse timore di guardare verso il basso. Una luce cinerea indugiava tra i cespugli e allungava le ombre degli alberi. Il resto della truppa era intento a radunare i feriti sui carri e Cassiano era indaffarato a fasciare ferite, preparare decotti e benedire i morti.
“Di chiunque si tratti, conviene che ce ne andiamo il prima possibile,” stabilì il centurione, cominciando a impartire gli ordini necessari per riprendere la marcia. “Quella gente potrebbe essere ancora nei paraggi e non possiamo permetterci di mettere a repentaglio la vita dell’augusta.” 
“Per conto mio, faremmo meglio a tornare a Ravenna,” disse ancora Quintilio, aggiungendo solo poche parole che per fortuna furono udite solo da me: “Ci farai ammazzare tutti, maledetto imbecille.”
Quell’anziano soldato mi diede l’impressione di sapere esattamente cos’era avvenuto, tuttavia non ebbi il coraggio di interrogarlo. “Che ne sarà di Berta?” mi limitai a chiedere, a tutti e a nessuno. “E delle altre donne? Che ne sarà di loro?” Rutelio era già lontano, impegnato a sbraitare con voce così tonante da farsi udire da tutte le stirpi dei barbari da qui fino in Ungheria. Anche il veterano era sparito chissà dove. Solo Rustico era rimasto al mio fianco: mi aiutò a riprendere posto sul carro e a quel punto gli chiesi di restare con me. Avevo troppa paura di rimanere sola. Paura, soprattutto, di quelli che potevano essere i miei pensieri.
“Se quelli erano ungari, forse è davvero il caso di tornare a Ravenna,” dissi una volta chiuse le cortine del carro. “Ho fatto una promessa all’anima di mio padre, perché non torni a vendicarsi della mia disobbedienza e possa riposare nella sua pace. Ma adesso, veramente, non so più cosa fare.”
“Quintilio è un veterano di molte battaglie. È un ottimo combattente e di lui ti puoi fidare.” Rustico mi pareva tranquillo, o forse era semplicemente stremato da quell’attacco a sorpresa. “Accade spesso che bande di armati sconfinino dai loro territori e si dedichino al brigantaggio. Purtroppo, non ci vedo nulla di strano.”
“Siamo ancora molto lontani dalle terre di Ungheria,” mi limitai a osservare. In realtà, Rustico mi pareva sapere molte più cose di quelle che pareva disposto a rivelare.
“Vedi, piccola augusta, non tutte le tribù del regno degli Ungari ritengono opportuno allearsi con l’Imperium. È gente fiera e poco propensa a sottomettersi al re Stefano. Riguardo a questo, tuo padre ci aveva avvertito.”
“Quindi, non ci hanno assalito solo per derubarci.”
“Temo di no, piccola augusta,” mormorò Rustico, sfinito. “Ma questo è solamente il mio punto di vista. Purtroppo, Stefano il Pio ha ancora molti nemici, come del resto ne aveva Ottone di Sassonia. Ho parlato a lungo col messo che ci ha recato la notizia della morte di tuo padre: pare che sul corpo dell’Imperator siano state rinvenute numerose bruciature, laddove erano stati posati dei fazzoletti intrisi di medicamenti. Quei fazzoletti erano stati inviati dai nobili di Roma in segno di amicizia e invece, probabilmente, si trattava di un tranello. Almeno così sostiene Cipriano di Armenia, che proprio ora si trova a guidare l’assedio contro quella città.”
D’un tratto mi ricordai della reliquia di Compostella. “Dunque esistono stoffe in grado di distruggere la carne degli uomini? Il corpo dello straniero che ha assalito il mio carro è bruciato letteralmente sotto ai miei occhi, nel momento in cui io gli ho gettato addosso la reliquia del santo Volto.”
“Riguardo a questo non saprei dirti nulla,” disse ancora Rustico con gli occhi ormai in procinto di chiudersi e scivolare nel sonno. “Non credo di essere in grado di distinguere tra un prodigio e un inganno. Forse il Cristo Signore ha voluto operare un miracolo a tuo favore. Dovresti parlarne a Cassiano.”
Molto probabilmente, Cassiano avrebbe imputato quello strano avvenimento alla giustizia di Dio, che pone sul loro trono i re della terra perché governino i popoli nel Suo santo nome. Ma quelli erano tempi di grandi turbolenze e io sapevo bene che gli intrighi degli uomini non tengono in gran conto quel che Dio stabilisce dall’alto della sua imperscrutabile sapienza.
 Lasciai che Rustico si abbandonasse al suo riposo. Di nuovo spiegai il broccato e il Volto di Compostella si palesò ai miei occhi nella quieta penombra del carro. Quei lineamenti fini esprimevano una sovrana compostezza e soltanto a guardarli ci si sentiva pervasi da una profonda pace. Eppure, non mi erano mai sembrati così enigmatici. 

 
******

 
Monastero della Visitazione di Alba Regia in Ungheria, nell’anno 1031 dall’Incarnazione

 
Scampammo a un altro agguato poco dopo essere entrati in terra di Ungheria, dopo aver attraversato le valli solitarie sopra a cui incombevano, innevate, le vette del ducato di Carantania e di seguito gli acquitrini che circondavano il grande lago detto il mare degli Ungari.
In mezzo agli alti canneti che ospitavano uccelli di ogni forma e richiamo, alcuni dei quali issati su lunghi e sottili trampoli, riuscii a sottrarmi nuovamente ai miei aggressori grazie alle formidabili e misteriose virtù della reliquia di Compostella. La voce di quei prodigi si sparse probabilmente per tutte le tribù e i borghi di quelle terre. Fatto sta che di lì in poi riuscimmo a proseguire senza ulteriori intoppi. In ogni caso, a quel punto del viaggio il mio corteo s’era ridotto a un carro dov’erano ammassate le ultime masserizie e le armi, mentre quelli che rimanevano della mia scorta avanzavano senza insegne, in modo da dare il meno possibile nell’occhio. In luogo delle ricche vesti dell’Esarcato indossavo una tunica, un mantello e calzari di foggia maschile. Il mio sogno di emulare le gesta di Marina di Bitinia, che per amore di suo padre si celò in un cenobio di soli uomini, si realizzò quindi in circostanze che non avrei mai saputo immaginare. Io stessa avevo dato disposizioni in tal senso, consigliata da Rustico e nonostante l’opposizione di molti.
“È assai disonorevole per un soldato rinunciare a combattere per viaggiare travestito da contadino,” aveva detto il centurione Rutelio.
“Una donna che si veste da uomo è un abominio dinanzi a Dio,” aveva tuonato Cassiano. “Così dice la Scrittura.”
“In nessuna parte della Scrittura Dio raccomanda all’uomo di essere stupido,” tagliai corto di fronte a quei due. “E il dovere di un soldato è di eseguire gli ordini di coloro a cui Dio stesso ha concesso il potere.”
Rutelio stava per dire che nessun guerriero è tenuto a obbedire a una donna. Glielo leggevo in faccia, sicché ritenni opportuno prevenirlo: “Se vuoi andare a combattere contro gli ungari da solo, non hai che da accomodarti. Sappi però che il destino che spetta ai disobbedenti è di ardere per l’eternità nella pace bollente. Là vi sarà pianto e stridore di denti. Dico bene, venerabile padre Cassiano?”
A quel punto, nessuno ebbe più il coraggio necessario o gli argomenti giusti per continuare a discutere. Giungemmo così alle mura di pietre vive e stendardi della città di Alba Regia, sorta per volontà di Stefano il Pio e simile alla possente Civitas Dei di cui parla l’Apocalisse, come ebbe a dire Cassiano. Sin dall’ultimo tratto del nostro cammino la vedemmo comparire all’orizzonte, splendente nella luce del primo mattino. Al suo interno, quella fortezza racchiudeva un viavai di vicoli torti, casupole addossate da cui provenivano le esalazioni pestilenziali della concia, gli sbuffi di calore dalle fornaci e i colpi di martello ritmati sull’incudine nelle botteghe degli spadai. Canali d’acque chiare erano scavalcati da stretti ponti di legno su cui s’incrociavano – e finivano molto spesso per incastrarsi – i carri trainati dai buoi e dagli asini, in un continuo imperversare di ragli, muggiti e altri versi da parte dei conducenti. Mentre attendevamo il passaggio di un poderoso carico di granaglie, mi venne la curiosità di sapere quali parole stava rivolgendo il carrettiere al suo collega che riteneva di avere, assai verosimilmente, la precedenza. Mi rivolsi a Quintilio e alla sua conoscenza della lingua del luogo e fui illuminata in men che non si dica:
“Levati dai piedi, imbecille,” riferì, non senza imbarazzo, il mio traduttore. “Parole sue, augusta.”
Altri imbarazzi ci attendevano presso la corte di Stefano il Pio, dove giungemmo attraversando i mercati, le bancarelle immerse nell’odore delle spezie dove villici e ambulanti decantavano le qualità della loro merce, spiegavano davanti agli occhi dei clienti rotoli di tessuto e concedevano assaggi di carni affumicate. Al palazzo reale mi presentai nuovamente rivestita dei miei panni e del diadema scintillante da cui ricadevano, da entrambi i lati, tre file di perle alternate a turchesi. Non facevo in realtà una grande figura, perché durante il viaggio avevo perso peso e in luogo di conferirmi un contegno solenne, l’abito mi cadeva addosso da ogni parte. Con un senso di pena pensai allora a Berta, alla cura che usava nell’accostare le tinte e scegliere per me l’acconciatura più adatta. Chissà dov’era adesso e dov’era l’altra dama dal lungo naso a becco, che credeva che il diavolo portasse a spasso la moglie durante il temporale.
Di fronte al possente arco che delimitava l’ingresso alla reggia, faticammo non poco a convincere le guardie che il nostro corteo a dir poco cencioso era quello di Teofano di Ravenna.
“Certamente, signori. E io sono Julius Kaisar,” ghignò uno degli armigeri, levandosi l’elmo e abbozzando un inchino. “Guardate attentamente e vedrete spuntare la corona d’alloro,” rise di nuovo, grattandosi la pelata. Mostrai la pergamena sottoscritta per l’occasione da Ottone di Sassonia e contrassegnata dal suo sigillo. Quelli, naturalmente, non sapevano leggere né tanto meno comprendevano il latino. Cassiano era più che disposto a darne lettura ma le guardie lo interruppero ancor prima di cominciare: “Il mercato è più avanti, sempre dritto e poi a destra. Per i postriboli, invece, svoltate sulla sinistra e arriverete nel quartiere che più si addice a voi e alla vostra buona donna.”
L’aria cominciava a farsi pesante e l’intera faccenda a mettersi male: anche se la maggior parte dei miei aveva compreso ben poco delle parole dei due armati, il loro tono di scherno era stato recepito da tutti. Già vedevo occhi infuriati volgersi verso il carro dove erano conservate le armi. A evitare una zuffa sopraggiunse, in quel momento, un ragazzo sottile come un salice di palude, che quasi scompariva negli abiti di corte esattamente come anch’io sparivo dentro a vesti, sopravvesti e sotto al mio copricapo.
“Lasciateli passare,” disse rivolto ai due, che lo superavano almeno di due spanne ma che al vederlo s’inchinarono con deferenza. “La Bibbia invita a onorare i pellegrini come se fossero Dio stesso. Come dice il santo Apostolo, molti facendo questo hanno accolto angeli senza saperlo.”
Fu allora che, pur senza averne il minimo sospetto, feci conoscenza con Imre degli Árpád.
Mentre attraversavamo la corte con gli abbeveratoi e il suo viavai di maniscalchi e addetti alle stalle, mi ricordai di quel giorno in cui tre uomini e un ciuco erano giunti a Ravenna recando ogni sorta di strane meraviglie, dalle lozioni per far ricrescere i capelli fino alla misteriosa reliquia di Compostella. Mi resi conto allora che le vicende degli uomini non sono altro che un ciclo che si ripete e che la differenza tra un re e un accattone molto spesso è soltanto questione di tempo.
Quanto alla reliquia, ritenni più opportuno non farne parola a nessuno. Da Rustico e Quintilio, che inviai nuovamente a Ravenna con un salvacondotto che recava il sigillo di Stefano il Pio, ottenni la promessa di diffondere soltanto le notizie relative al mio arrivo e alla celebrazione delle mie nozze con l’erede al trono degli Ungari.  
La pace che provai in mezzo ai festeggiamenti fu per me il segno che i desideri di mio padre erano giunti a compimento e che il suo spirito riposava nella pace di chi è ormai libero da ogni vincolo terreno. Anche Berta di Classe, ovunque si trovasse, poteva riposare nella quiete di chi ha adempiuto al proprio dovere. Il mio matrimonio con Imre degli Árpád non fu diverso dai tanti che furono celebrati a quel tempo, prima e dopo di noi: fragile come un’alleanza tra due regni lontani, a tratti consolante come capita a chi, nel corso di un cammino difficile e solitario, incontri un altro viaggiatore che si è perso. Fu in ogni caso breve.
Di lì a poco Imre morì durante una battuta di caccia e io ottenni da Stefano di potermi ritirare in questo monastero della Visitazione, dove la reliquia del Volto di Compostella venne esposta alla venerazione dei fedeli e dove io stessa ho provveduto a redigere l’esatto resoconto dei suoi molti prodigi.
Qui seppellii anche l’astuccio che conteneva il cuore di mio padre, Ottone il Sassone.
Ormai da molti anni vivevo nella quiete e nel raccoglimento di quel luogo santo, dedicandomi allo studio della sapienza degli antichi e delle Sacre Scritture, quando ricevetti la visita dei miei protettori di un tempo, Quintilio e Rustico da Ravenna. Li ritrovai invecchiati e carichi degli acciacchi di una vita di viaggi, lotte e peripezie. Da loro appresi della morte di Cipriano d’Armenia e di quanto si diceva nel Palazzo dell’Esarcato, a proposito del fatto che l’Imperator era morto dopo aver ricevuto in dono dai nobili romani, quale pegno di pace, una veste adorna di ricami assai particolari, perché era possibile vederli soltanto al buio. L’originalità di quel dono non si esauriva qui. Pareva che quei fregi possedessero indubbie qualità medicamentose, quanto mai utili a Cipriano che durante l’assedio di Roma aveva contratto le febbri delle paludi. Stando ai fatti, l’Imperator era trapassato solo pochi giorni dopo aver ricevuto quel dono, ufficialmente a causa di uno sbilanciamento dei suoi umori. L’arsura che l’aveva tormentato nelle sue ultime ore gli aveva lasciato sul corpo segni di bruciature.
Molte voci correvano anche riguardo alla basilissa, che di lì a poco aveva contratto nuove nozze con altro suo favorito, Lucio di Efeso. Vi era chi diceva che quelle stoffe non provenissero da Roma ma dal gineceo di Ravenna. Zoe era un’amante dei profumi di lusso, ma conosceva anche, fin troppo bene, il potere di certe erbe.
All’udire quelle notizie, molti pensieri e colmi di una luce sinistra si fecero strada in me riguardo alla reliquia di Compostella e ai suoi straordinari effetti. Come ai tempi in cui il veterano Quintilio accennò all’avversione che contro di me covavano alcune tribù degli Ungari, ritenni opportuno non indagare oltre. La reliquia continuò a essere venerata ancora per molti anni in questo monastero della Visitazione, finché il tempo e la corruzione della sua stessa materia non la ridussero a un’ombra che lentamente scomparve. Il Volto del Dormiente sparì lasciando solo un fazzoletto ingiallito e portando con sé il mistero della sua origine.
 

 
******

 
Da qualche parte nella terra di Al Andalus, qualche anno prima

 
“Aggiungi un’altra fetta,” brontolò Michelaccio, rimestando la brace.
Sandrone infilò sullo spiedo ricavato da un ramoscello un altro pezzo di carne. Nell’ora del tramonto, la canicola che aveva arroventato insieme ai combattimenti quella piana di polvere incominciava lentamente a scemare. Passò un filo di brezza e con essa l’odore del sangue e del sudore.
“Puzzi come una bestia,” bofonchiò nuovamente Michelaccio, all’indirizzo del compare.
Sandrone si spogliò della tunica e la adoperò per tergersi le grosse gocce che gli imperlavano la fronte. Non si trattava solo di un effetto della calura, né del fumo che gli abbrustoliva le gote salendo da quel misero focolare di sterpaglie.
Attorno alla fiamma che cuoceva quei bocconi, tolti da uno dei puledri uccisi nella mischia, i tre del ciuco cominciarono a rimestare nella gavetta. Si guardavano attorno il meno possibile, per non vedere i corpi ammassati qua e là, quelli dei mori ingabbiati in armature dorate e quelli dei coscritti di tutto l’Imperium. Pisquano da Napoli stringeva un curniciello, l’ultimo rimasto. Temeva le ombre che calavano dalle rocce intorno al campo aperto e di tanto in tanto lanciava un’occhiata apprensiva ai cadaveri degli uccisi, come se quelli dovessero levarsi tutt’a un tratto, raccogliere le budella e trasformarsi in spettri.
Spigolando qua e là nell’erba arsa dal sole, Michelaccio mise insieme un pugno di foraggio da portare a Liutprando, che li attendeva nascosto in una delle grotte che avevano scoperto solo pochi giorni prima. Là s’erano rifugiati subito al primo attacco, approfittando della confusione degli ordini, dell’assalto imprevisto da parte dei mori che avevano colto di sorpresa la retroguardia. Sempre là avevano atteso la fine degli scontri, Sandrone annichilito come se fosse già morto, Michelaccio in attesa che quel turbine di armi, polvere e cavalli giungesse al termine ed entrambi gli eserciti prendessero altre strade. Pisquano sgranava un rosario di sua invenzione, invocando san Gennaro, san Gerolamo e san Giustino. La consueta filastrocca era stata modificata per l’occasione: questa volta il cornetto non doveva servire a far vincere il quattrino ma a conservare sana e salva la pelle.
San Gennaro, che la legione se ne vada col suo rumore. San Gerolamo, che i mori non mi cavino gli occhi. Santa Eufemia e sant’Assunta…”
“Piantala, razza di vigliacco, o ci farai scoprire,” aveva ringhiato Michelaccio, assestandogli una manata con quella specie di vanghe che Iddio gli aveva attaccato alle braccia al posto delle mani. Pisquano era ruzzolato a gambe all’aria, riuscendo comunque a trovare il fiato per rispondere:
“Vigliacco io? Mica mi sono nascosto da solo. Io qua, di vigliacchi, ne conto almeno altri due.”
Dopo averla scampata una prima volta, evitando di finire coi piedi arrostiti grazie alla parlantina dei monaci di Nonantola, i tre del ciuco erano stati riacciuffati nel giro di poche ore da un altro convoglio diretto al castrum di Classe. Una volta accertato che erano ambulanti e sempre in ottemperanza di quanto disposto dall’Imperator e dal suo tirapiedi, il signore di Fosso Ghiaia, il centurione di turno non aveva esitato ad arruolarli sul posto.
“Voialtri, nei ranghi. Avanti, camminare!”
“Ma dice proprio a noi?” aveva bisbigliato Sandrone, ancora frastornato dai molteplici fatti che si erano susseguiti in una sola mattina.
“Chiudi il becco e cammina, imbecille,” gli aveva soffiato contro Michelaccio. “Alla prima occasione, vedremo di filarcela.”
Quell’ambita occasione, in realtà, non era mai arrivata. Non erano riusciti a squagliarsela né durante il tragitto, né al campo di addestramento e neppure durante la lunga marcia fino in Hispania.
Paradossalmente, erano riusciti a riacquistare la libertà proprio grazie ai mori, i leggendari guerrieri famosi per il loro vezzo di affettare il naso e le orecchie ai cristiani.
Sandrone cavò dalla brace l’ultimo pezzo d’arrosto. Il crepuscolo indugiava sulle creste rocciose di fronte alla spianata, tingendole dello stesso colore vermiglio che si addensava attorno ai corpi dei caduti di quel giorno.
“E adesso dove andremo?” Pisquano diede voce alla domanda che tutti si stavano facendo in quel preciso momento, compreso Michelaccio anche se non l’avrebbe mai ammesso. “Abbiamo perso tutto, anche il carro. Ci resta solo Liutprando.”
“Possiamo prendere la via di Compostella. In fondo siamo pellegrini del buon Dio,” propose Sandrone.
“Tu la strada la sai?”
“In verità non ne ho la più pallida idea. Ma si dice che tutte le strade dell’Hispania portino a Compostella.”
“Quella è Roma, ignorante.”
“Direi che è il giunto il momento di rimetterci in marcia,” disse Pisquano, ritrovando finalmente il coraggio per rimettersi in piedi. “A Compostella ci sarà del mercato, potrò comprare qualche rametto di corallo e costruire una manciata di curnicielli napulitani. Scommetto che là non ne hanno ancora sentito parlare.”
“E come pensi di procurarti il corallo?” lo smorzò Michelaccio, che per la prima volta pareva sfiduciato e oppresso da chissà quali pensieri. “Ormai ci sono rimaste solo le pezze ai piedi.”
“Come abbiamo fatto sempre. Qualcosa inventeremo.” Pisquano si grattò la pancia e allargò le braccia per asciugare le ascelle, fradice di paura, alla brezza notturna. Per la prima volta da quando li conosceva, Michelaccio pensò che in fondo, molto in fondo, i suoi compagni di avventura avevano ragione. Assestò a Pisquano e a Sandrone una formidabile pacca sulla spalla di ciascuno: “Vado a prendere Liutprando. Voi guardate un po’ in giro, vedete se c’è qualcosa che valga la pena di portar via.”
Di lì a poco, una luna piena e chiarissima uscì a illuminare la via su cui s’incamminarono quei tre uomini e un ciuco. Il cielo si animò di una moltitudine di stelle.
“Questo è un buon segno,” disse Pisquano. “Compostella significa appunto il campo delle stelle. Possiamo considerarlo un presagio.”
“Se una di quelle cade, puoi esprimere un desiderio,” aggiunse Sandrone. A lungo tutti e tre rimasero col naso voltato per aria. Liutprando alzò le orecchie e le mantenne ben dritte per tutto il resto del viaggio. Forse era anche lui lieto di ritrovarsi libero o forse, di tanto in tanto, pensava ancora a Rosvita, la più bella mula della lontana, ormai lontanissima abbazia di Nonantola.
 
 
 
  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: yonoi