IL VERSO DELLA VOLPE
“…è come mettere un
quadro su una parete
e dire, cosa ne pensi?
È molte cose
differenti, (…)
e lo lasciamo aperto
all’interpretazione”.
Serj Tankian, sul
significato del nome della band.
Sono in trepidante attesa.
Finalmente, dopo tanto tempo, tornerò a vedere i volti dei
miei amici. I più grandi compagni di vita che ho avuto.
D’altronde, la mia esperienza con i System of a Down mi ha
reso celebre, ha forgiato la mia immagine e la mia voce.
Gli altri componenti della band non solo hanno le mie stesse
origini da esule, ma sono una parte integrante del mio passato. Loro sono stati
la mia seconda famiglia, in fondo, e sono ancora importanti per me.
Quando abbiamo scelto di comune accordo di sospendere il
nostro percorso condiviso, ho pianto a lungo, anche se è stata la scelta
migliore da fare. Tuttavia, anche andarmene dall’altro lato del mondo è stata
una mia scelta radicale, pensata per lenire il dolore che mi straziava l’animo.
Adesso però mi sento finalmente pronto per voltare pagina:
ora posso. E che questa nuova reunion possa aiutarci a rafforzarci di nuovo.
Ho il cuore che batte forte, mentre attendo i ragazzi in
aeroporto. Ci abbiamo già provato in passato a tornare assieme e a ridare vita
al nostro progetto comune, ma poi ci siamo sempre allontanati. Che questa sia
la volta buona?
Cavolo, ho ormai sessant’anni. Dev’essere per forza il
momento giusto per tornare a dare lustro alla band. Ce lo meritiamo.
Abbiamo ancora tantissimi fan che urlano a squarciagola i
nostri nomi, sparsi in tutto il mondo. Ci adorano nonostante i lunghi periodi
di inattività. Non dimenticano, e noi non dobbiamo dimenticare loro.
Quando scorgo due figure familiari che si muovono tra la
folla, non posso fare a meno di raggiungerle. Sono loro, ma, appunto, sono solo
in due.
“Ehi! Shavo! John!
Fratelli!”, corro ad abbracciarli, mentre ancora arrancano con due trolley a
testa. I ragazzi hanno un’espressione stanca impressa sul viso, ma quando li
raggiungo e li stringo a me si sciolgono in una profonda e genuina risata.
“Serj!”, esclamano all’unisono. Le nostre braccia sembrano i
tentacoli di una piovra, dal tanto che ci abbracciamo a vicenda e con foga.
Attorno a noi, le altre persone di passaggio ci fissano con
curiosità. D’altronde siamo in un aeroporto, gente che va e gente che viene, è
bello tornare a incontrarsi.
Lasciano i loro trolley per continuare a darmi sonore pacche
sulla schiena.
“Come va, ragazzi?”, li interloquisco non appena il primo
istante di euforia si smorza.
“Non c’è male, tu?”, risponde diplomaticamente John. È
leggermente invecchiato da quando l’ho salutato di persona l’ultima volta, i
segni del tempo si mostrano sul suo viso come sul mio. Resta tuttavia serio, ha
quell’espressione gradevole e distinta che l’ha sempre caratterizzato.
“Alla grande, amico”, replica invece Shavo, dopo aver
lasciato parlare il compagno di viaggio. Lui invece è rimasto tale e quale, non
è cambiato di una virgola. Sempre dall’aspetto così originale e trasandato, le
labbra increspate in un simpatico ed estroverso sorriso.
“Io… be’, non c’è male anche per me”, borbotto, “e… ragazzi,
sarebbe meglio se vi accompagno a casa mia. Vi vedo stanchi e stare qua, nel
mezzo di questo casino, di certo non aiuta. Ne parliamo meglio davanti a una
tazza di tè, che ne pensate?”.
Entrambi annuiscono.
“Il viaggio è stato lunghissimo, fratello. Le turbolenze sono
state dure da affrontare, non abbiamo più l’età”, ironizza Shavo, strizzandomi
l’occhio destro.
“Allora andiamo, miei carissimi ospiti”, affermo, per poi
volgermi verso la grande uscita. So bene che si sono imbarcati a Los Angeles, e
giungere fin qui in Nuova Zelanda dev’essere stato duro. Certo, l’aereo è un
mezzo comodo, ma stare seduti e fermi per ore poi stanca, figuriamoci se ci
sono pure delle turbolenze di tanto in tanto.
Mi chino per afferrare uno dei due trolley di John, tentando
un gesto gentile, ma egli banalizza con un rapido gesto delle mani e si
affretta a occuparsene da solo. Noto allora che Shavo invece continua a
fissarmi. Pare in imbarazzo.
Rilevando il mio sguardo fisso su di lui, mostra un sorriso
sghembo e quasi infantile.
“Ehm, Serj… devo dirti una cosa… chiederti un piacere…”,
balbetta.
Divento subito serio. Chissà cosa ha combinato!
Sono abituato alle sue stranezze, in fondo ha ancora l’animo
di un ragazzino. È goffo e pasticcione, ma resta pur sempre un buon amico.
“Dimmi tutto”.
“Ho portato con me due amici. Non te la prendere con John,
eh, lui non sa quasi nulla, è stata tutta una mia idea…”. Non riesce a
completare il discorso poiché due ragazzi fanno capolino alle sue spalle, felici
e sorridenti. Non li avevo notati prima, probabilmente erano ancora impegnati
nel recuperare i bagagli.
Infatti, quello che ha i capelli più scuri ha un leggero
fiatone. Tipico stress da scalo frettoloso.
“Ciao, Serj! È un piacere conoscerti”, dice, per poi
stringermi la mano.
“E grazie per averci offerto ospitalità”, aggiunge l’altro,
più biondiccio, poi mi stringe a sua volta la mano.
Resto muto di fronte a tutto ciò. In realtà, è vero che
aspettavo qualcun altro… un certo Daron, che mi dà sempre buca, a quanto pare.
Ma questi due tizi sono completi sconosciuti, e in più non ho idea non solo di
chi siano, ma anche di cosa vogliono da me.
I miei occhi cercano quelli di Shavo, mentre un leggero
rossore imporpora le sue guance pallide. Anche i due sconosciuti volgono lo
sguardo verso di lui, forse hanno intuito che io non ne so nulla.
“Loro sono gli Ylvis, un duo comico che si dedica anche alla
musica. Lui è Vergard”, e indica il moro, “e lui è Bard. Ci tenevano a venire
in Nuova Zelanda per conoscerti. Sono in cerca di ispirazione”, si spiega il
mio amico.
“Ah”, affermo, ma i due ragazzi sembrano essersela presa a
male.
“Shavo, avevi detto che ne avevi parlato con Serj e che era
tutto a posto…”, dice Vergard, che tra i due sembra il più sveglio. Sono
entrambi in imbarazzo.
“Ehi, amici, va bene così! Chi è amico di Shavo, è anche il
mio. Siete i benvenuti! Prego, venite con noi”, li rassicuro. Sono sempre stato
un tipo disponibile, inoltre mi sembrano due giovani per bene. Se il mio
fratello armeno ha scelto di portarli da me, ha di certo avuto le sue ragioni
valide.
John ci ha osservato poco distante, quando torno a incrociare
il suo sguardo noto un leggero scetticismo.
“Ho detto a Shavo di avvisarti, prima di portarli da te. Ma
sai come è fatto, è sbadato e le cose se le dimentica”, mi dice a bassa voce,
non appena lo affianco.
Anche Shavo tenta di raggiungermi, poi mi appoggia una mano
sulla spalla.
“Fratello, spero che non sia un problema, ma è stata una
decisione dell’ultimo momento. Ti giuro che sono due tipi a posto, sono solo
alla ricerca di una location ideale per ispirarli e di un qualcuno che sappia
consigliarli! E chi meglio di te potrebbe farlo?”, si spiega. Scuoto la testa.
“Non pensateci più, fratelli. Ho la casa spaziosa, non sarà un
problema due persone in più. È tutto ok, intesi? A riguardo di tutto il resto,
ne parliamo quando saremo a casa mia”, li tranquillizzo, per poi condurli fuori
dall’aeroporto, fino all’immenso parcheggio, dove ho lasciato il mio
fuoristrada. C’è posto per tutti.
Carico gentilmente i bagagli nell’ampio portabagagli, infine
lascio che John si accomodi a mio fianco, nel sedile del passeggero, mentre
Shavo e i suoi due amici si posizionano sui sedili posteriori. Sono così magri
che resta pure dello spazio, tra loro.
Mentre guido verso casa, lascio che la nostra musica risuoni
nell’abitacolo. La musica dei System, quella di quel tempo che ci ha visto
crescere e formarci, facendoci conoscere in tutto il mondo.
Giungiamo alla mia villa che è ancora giorno. La sera a
queste latitudini australi giunge presto, soprattutto quando si vive isolati e
lontani da fonti di luce artificiale.
Tanti anni fa ho scelto di venire a vivere qui perché non ne
potevo più dei ritmi di vita occidentali, dove la Natura è piegata all’uomo e
non c’è più Legge che tenga. La Memoria degli eventi sta venendo cancellata e
nessuno se ne accorge.
La Nuova Zelanda è un’isola incontaminata piazzata ai margini
di un mondo rovinato dall’essere umano. Ancora il verde domina e la fauna
autoctona è spettacolare. Se da una parte tutto questo ha significato
isolamento, dall’altra ha permesso alla mia compagna Angela e a mio figlio Rumi
di vivere in serenità questo periodo delle nostre vite.
Mia moglie e mio figlio infatti ci aspettano nell’ampio e
lussureggiante giardino, sorridono entrambi e sono anche loro in attesa.
Mi sciolgo in un ampio sorriso mentre parcheggio e attendo
poi che gli ospiti scendano dall’auto.
Shavo balza giù dal fuoristrada e si avventa verso la mia
famiglia.
“Oddio, Shavo, sei sempre lo stesso”, ride mia moglie,
sorpresa dall’abbraccio irruento del mio compagno di avventure giovanili. Rumi
alza le braccine a sua volta e si merita a sua volta una stretta amorevole.
“Spero di non averti ingelosito”, afferma Shavo con ironia,
riferendosi all’abbraccio rivolto alla mia compagna. Io li guardo e continuo a
sorridere.
“Idiota”, sbotto, e gli rifilo una scherzosa gomitata.
È il turno di John, che fatica a farsi avanti. Anche da
giovane era così, fa fatica a mostrarsi espansivo. È il suo carattere, timido,
taciturno, riservato. Eppure anche così disponibile e cordiale.
Avanza verso Angela e le stringe cordialmente la mano.
“Oh, John”, torna a ridacchiare mia moglie, “anche tu non sei
cambiato di una virgola”, poi si allunga a dargli due rapidi bacetti sulle
guance, in segno di stima e affetto. Rumi borbotta qualcosa e abbraccia anche
John.
I due ragazzi, invece, sono ancora alle nostre spalle, quasi
mi dimentico di loro. Uno ha appena tossicchiato.
Mi volgo a guardarli e li noto spaesati, ma solo per un
attimo. Infatti il moro raggiunge a sua volta mia moglie e le stringe la mano.
“Io sono Vergard, e lui è mio fratello Bard”, fa cenno verso
il biondiccio, che sorride e china il capo in cenno di cordiale saluto, “siamo
due comici e cantanti alla disperata ricerca di ispirazione. Tuo marito è stato
gentile a offrirci ospitalità durante la sua reunion con gli altri componenti
dei System”.
“In realtà non ne sapevo nulla, ma sono felice che ci siate
anche voi. La nostra casa è grande, c’è spazio per tutti”, replica mia moglie,
sorridendo. Lei ha saputo accogliere i giovani in modo migliore rispetto a me.
So che è davvero una grande donna.
“Poi questa cosa me la devi spiegare, eh”, accenno sottovoce
a Shavo, che sorride a sua volta, spensierato come al solito. A volte mi chiedo
se ha mai avuto un problema. È una sorta di filosofo, con il suo modo di fare.
“A proposito di reunion”, irrompe mia moglie, che si
acciglia, “manca uno dei vostri, o sbaglio?”.
Tasto dolente.
Emetto un profondo sospiro e preferisco il silenzio, come
tutti gli altri. La mia compagna capisce da sé. Daron evidentemente non si è
presentato, quindi non gli interessa alcun possibile progetto con noi. Anche
lui non è cambiato di una virgola, a quanto pare.
“Andiamo a fare merenda, su, che è meglio”, rompo il
ghiaccio, rendendo tutti felici.
Rumi mi si avvicina quasi di soppiatto.
“Papà, quei due mi stanno simpatici”, mi dice, riferendosi ai
due fratelli, ed io gli scompiglio i capelli con affetto. Speriamo sia così.
“Non vi daremo fastidio”, esordisce Vergard, non appena siamo
in veranda e ci stiamo godendo un tè con i biscotti.
“Cercheremo di essere discreti e pagheremo tutto quello che
consumiamo”, aggiunge Bard, che tra i due sembra quello più timido e insicuro.
Vergard è il maggiore, si nota nei tratti ormai da uomo adulto e dal modo di
fare veramente disinvolto.
“Dai, ragazzi, siete ospiti graditi”, cerco di frenare la loro
disponibilità, “piuttosto, potreste spiegarci perché siete giunti fin qui?”.
Mia moglie si siede a mio fianco, anche lei curiosa.
“Come sapete, siamo due comici e cantanti norvegesi. Siamo in
crisi da quando abbiamo scritto e completato il nostro primo libro per bambini,
What does the fox say?, perché ci piacerebbe accompagnarlo con un bel singolo,
simpatico e adatto a tutti. Solo che… abbiamo viaggiato per mezza Europa,
visitato la taiga, la tundra siberiana, poi siamo andati in Brasile e
successivamente negli Stati Uniti, ma non siamo riusciti a trovare
l’ambientazione giusta per girare un video decente. E nemmeno l’ispirazione. La
Nuova Zelanda potrebbe aiutarci, grazie alla sua natura spesso incontaminata”.
Non posso far altro che annuire, assorto.
“Io li ho conosciuti a Los Angeles! Poveretti, in giro per
quelle strade affollatissime alla ricerca di un’ambientazione ispirante…”,
mugugna Shavo, come se dovesse commuovermi. Gli rifilo un’occhiatina furtiva.
“Comunque, complimenti! Parlate benissimo l’inglese. Non
avrei mai pensato che non foste anglofoni”, dice la mia compagna.
“Abbiamo vissuto in tanti Stati e abbiamo sempre parlato
l’inglese. È la nostra lingua principale. Lo conosciamo meglio del norvegese”,
ci spiega Bard.
“Ora, se non vi dispiace, vorremmo metterci all’opera! Che ne
dici, fratello? Guarda che paesaggio, quanto verde…”, inizia a elencare il
moro, e sulla sua faccia appare un’espressione ispirata.
Mi sorge una risata spontanea, soprattutto quando noto che il
biondo segue lo sguardo del fratello maggiore. Sembrano simbiotici.
“Bene, vi vedo già ispirati! Buon lavoro, allora”, esclamo,
soddisfatto.
I due giovani ci salutano cortesemente, e si muovono verso il
giardino, dove anche Rumi sta giocando con i fiori delle varie piante
ornamentali.
“Dimmi la verità: non li hai scovati per caso in giro per le
affollatissime strade di Los Angeles…”, borbotto rivolgendomi a Shavo, poi mi
lascio sfuggire un’altra risata. Il bassista sorride a sua volta.
“In realtà, no. E’ vero che li ho conosciuti a Los Angeles,
ma erano in un pub a firmare autografi. Io avevo già visto molti dei loro
video, sono un loro fan e adoro il loro modo spensierato di fare musica. Così
mi sono avvicinato, loro mi hanno riconosciuto, e il resto è venuto da sé”, mi
spiega.
Oh, Shavo, sempre il solito.
Decido di lasciar decadere l’argomento, d’altronde ormai mi è
tutto chiaro e le cose sono andate così. Temo inoltre che John si stia alquanto
annoiando. Non ha partecipato al nostro dialogo condiviso ed è sempre rimasto
sulle sue. Ha bevuto il suo tè in silenzio, poi ha iniziato a giocare con il
cellulare.
Dato che finalmente siamo assieme, decido di prendere in mano
le redini della situazione e di affrontare con decisione il motivo fondamentale
del nostro incontro.
“Fratelli, direi che possiamo anche parlare dei System, ora”,
esordisco, e quando mia moglie avverte che stiamo per inoltrarci su un terreno
insidioso, preferisce lasciarci soli. Raccoglie in fretta le tazzine e i
biscotti rimasti, mettendoli sul vassoio apposito, e si allontana con la scusa
di avere delle faccende domestiche da svolgere.
Sa che questa faccenda dobbiamo risolverla tra noi. Non mi
sarebbe dispiaciuto se fosse rimasta, ma in fondo so che è una persona
riservata, non si sarebbe mai permessa di essere una presenza estranea a quella
che in teoria dovrebbe rivelarsi come l’inizio di una reunion.
“Per quanto mi riguarda, è già tutto andato a rotoli”,
afferma John, di poche parole, non appena Angela si è allontanata e siamo
rimasti solo noi tre.
“John ha ragione, da quando… Daron”, e Shavo mormora quel
nome in modo irritato, quasi sputandolo, “ha deciso di darci buca”.
Resto un po’ deluso. Mi sarei aspettato qualcosa di più di un
semplice e diretto rifiuto, proprio all’inizio.
Questo incontro è costato mesi di preparativi, poiché siamo
tutti quanti impegnati e tra famiglia e lavoro resta pochissimo tempo libero.
Ho dovuto far coincidere ogni cosa con attenzione e dopo numerosissime
telefonate con i miei amici.
Anche a me è dispiaciuto il fatto che Daron non abbia fatto
sapere più nulla, anche se mi aveva detto che sarebbe stato presente. Tuttavia,
il nostro mondo non ruota attorno a lui. I miei sforzi quindi rischiano di
essere stati vani, ma non solo, anche il mio animo ne risente.
Mi sento molto triste, la gioia di aver rivisto i miei
compagni di avventure giovanili sta svanendo in fretta.
“Noi possiamo farcela anche senza di lui, sapete?”, irrompo
con la mia domanda retorica. Gli altri due però sono scettici.
“Dovremmo cercare un altro componente per il gruppo. Noi non
abbiamo la stessa duttilità di Malakian. E con un tizio nuovo tra le palle, non
saremo più i System of a Down che eravamo un tempo”, replica Shavo, ancora
molto essenziale e schietto.
“Ragazzi, se le cose stanno così, allora godetevi questa breve
vacanza. Spero che possiate stare bene qui, e mettiamo una pietra sopra a tutto
il resto”, metto allora le mani avanti, frustrato di fronte alla loro chiusura.
Loro sono più giovani di me, anche se solo di qualche anno.
Non capiscono gli sforzi mentali che ho dovuto fare per concepire quel passo
avanti che ho provato a compiere, ma a quanto pare ho fallito. Ho superato i
cinquant’anni, i sessanta già me li sento addosso. Questa potrebbe essere la
mia ultima occasione per gridare su un palco, per fare impazzire un pubblico in
delirio.
Non mi vedo a fare rock a settant’anni, vecchio e rugoso, la
voce troppo roca e rovinata. Mi vergognerei. E adesso mi limito a
razionalizzare che il mio sogno di rivivere qualche momento della mia
giovinezza sta svanendo, collassando su sé stesso con una rapidità disarmante.
I miei recenti sforzi stanno andando velocemente a puttane,
senza che io possa farci nulla per dar loro anche solo un minimo senso.
I miei due amici non incrociano il mio sguardo, sono
improvvisamente molto seri e silenziosi. Shavo sembra John, e viceversa.
Sanno che sono deluso, sanno tutto di me, mi capiscono come
un tempo. Eppure, hanno fatto la loro scelta.
“Se solo quell’idiota…”, prova ad aggiungere il bassista, ma
io lo interrompo con un gesto categorico delle mani e mi alzo in piedi.
“Lascia perdere Malakian, Shavo. Non è solo colpa sua”.
Mi allontano lentamente, lasciandomi trasportare dall’istinto
verso il verde intenso del giardino. Se stiamo continuando a fallire nel
tentativo di ritrovarci sotto un solo nome condiviso, quello di una band
favolosa, di certo non è solo colpa dell’unico assente, bensì di tutti noi.
Con la più profonda amarezza nel cuore, mi avvicino a Rumi,
che è in compagnia dei due norvegesi. I ragazzi stanno parlando al bambino,
forse gli raccontano qualcosa.
Compio qualche passo in più, sono curioso.
In effetti gli stanno raccontando un racconto, probabilmente
una favola, poiché parlano di una volpe e fanno facce buffe e versi strani.
“… e nessuno sapeva quale era il verso della volpe. Che suoni
emetti, volpe? Chiedevano gli altri animali, ma la bestiola taciturna restava
in silenzio. Sapeva di essere la più astuta. Li poteva mettere tutti nel sacco,
senza bisogno di abbaiare, miagolare, muggire o quant’altro”, narra Vergard,
ancora ispirato.
A suo fianco, il fratello accompagna la narrazione con mosse
che mimano i movimenti dei vari animali citati, e con qualche rispettivo suono.
Torna il sorriso sulle mie labbra. Tuttavia, non appena mi scorgono, i due
ragazzi si interrompono.
Rumi, che mi dà le spalle, gira la testolina verso di me e mi
fissa con fare interrogativo. Alzo le mani in segno di pace e resa.
“Scusatemi, non volevo disturbarvi”, dico, consapevole di
aver interrotto la narrazione di una favola che stava piacendo molto a mio
figlio.
Rumi è già un ragazzino molto maturo per la sua età, ma è
ancora affascinato dal mondo infantile e adora ascoltare le storie e le favole.
Di certo, i due norvegesi devono aver già conquistato completamente la sua
attenzione.
“Stavamo giusto per cercare di esprimere il verso della
volpe”, dice il moro, con simpatia.
“Nel nostro libro non emette alcun suono. Ma nella canzone
dovremmo proprio mettercene alcuni”, aggiunge Bard, ora pensieroso.
“Che ne dite di ahuuuu…”, afferma Rumi, euforico e contento.
Si disinteressa subito alla mia presenza e ripete un paio di volte quella sorta
di mezzo ululato.
“Va benissimo, in effetti”, dice il moro.
“Ci sta”, replica il biondo, poi i due ragazzi si scambiano
un sonoro cinque. A seguire, lo scambiano anche con mio figlio.
Scuoto la testa, divertito, e preferisco allontanarmi per
lasciarli divertire. Rumi non ha molti amici e vive in un posto alquanto
isolato, per lui i momenti spensierati sono tutti da trascorrere in solitudine
e con la natura. Chissà che i due giovani possano continuare a farlo divertire
e a donargli qualche momento di sano svago in compagnia.
Quando rientro in casa, Angela mi viene subito incontro.
“Allora?”, mi chiede, ma io scrollo le spalle con negatività.
“Niente, senza Daron non se ne parla. Amen”, fingo che vada
bene così, ma lei sa quanto ci soffro.
“Vedrai che le cose andranno a posto”, prova a metterci una
pezza, ma non c’è frase di circostanza che sappia sopire i miei sentimenti in
tumulto.
Lascio che il mio sguardo si muova verso la prima finestra
che incontro e osservo John e Shavo mentre continuano a chiacchierare in
veranda. Sembrano tranquilli e rilassati, ogni tanto chinano la testa per
guardare lo schermo illuminato dei loro cellulari.
Adoro vederli così complici dopo tanto tempo in cui sono
stati separati e distanti. Chissà che qualcosa di buono, alla fine, accada
veramente.
Alle ventuno, come di consueto, ceniamo. È una cena molto
particolare poiché abbiamo tanti ospiti, e non siamo abituati.
Angela preferisce preparare da sola i pasti per me e per
Rumi, e in genere nessuno si ferma mai a mangiare con noi. Fintanto che eravamo
in America era tutto un altro discorso, ma qui in Nuova Zelanda si è davvero ai
margini del mondo.
Conosciamo poche persone, non abbiamo stretto molti legami.
Cerchiamo di non far mancare nulla a Rumi e di fargli frequentare i suoi
compagni di scuola, ma sembra che lui sia più solitario di me. Be’, almeno
questa sera ride.
I due norvegesi sono rumorosi e fanno baccano anche a tavola,
ma con simpatia. John è assorto nei suoi pensieri, come al solito, e Shavo ride
assieme a Rumi ogni qual volta che i fratelli emettono versi o fanno smorfie.
Sono due comici nati.
La mia compagna invece appare imperturbabile mentre serve a
tavola, e le sue mani curatissime non sembrano affatto adatte al ruolo di
cameriera, né io voglio relegarla a ciò. D’altronde è colpa mia se ora le tocca
sfacchinare in quel modo e mi sento in colpa, non vorrei farla sentire
umiliata.
Non appena torna in cucina per prendere altri piatti da
servire nel nostro salone, la seguo con prontezza.
“Non devi disturbarti così tanto, tesoro”, le dico, appena la
raggiungo e siamo finalmente soli, “chiamo immediatamente le domestiche, così
se ne occupano loro”.
Angela si volge verso di me e mi sorride, tranquillissima.
“E’ tutto a posto, caro. Per me è un piacere. Sono felice che
sia cambiata un po’ aria, in questa casa”, mi rassicura, poi mi abbraccia.
Ricambio la sua stretta con grande calore.
“Ti stanno simpatici i ragazzi, allora?”, le chiedo.
“Certo”, annuisce, “non ti preoccupare”.
Siamo ancora stretti in un amorevole abbraccio quando i
fanali di un’automobile irrompono dalla finestra spalancata. Restiamo un attimo
perplessi, poiché pare proprio che una macchina sia entrata nel nostro giardino
e si stia dirigendo al cospetto della villa.
“Aspetti visite, amore?”, le domando, ma lei scuote subito il
capo.
“Assolutamente no! Vai a vedere chi è, per favore”. Sciolgo
l’abbraccio e abbandono la cucina.
Transito di fronte alla porta aperta del salone, e constato
con una sola occhiata che i commensali stanno ancora gradendo la cena, senza
essersi accorti di nulla. Anche mio figlio ride ed è tranquillissimo.
Vado all’ingresso e sono teso, non so di chi si tratti. Non
aspettiamo nessuno.
Appena varco la soglia, però, devo ricredermi. Mi trovo al
cospetto di un taxi, e quando la sua portiera si apre, fa capolino una sagoma
inconfondibile.
Il tassista scende a sua volta e fa il cortese gesto di
tenere aperto lo sportello, ma l’uomo si stiracchia e gli fa cenno di scaricare
i bagagli.
È appena arrivato Daron.
Malakian non è solo. Dall’altro sportello fa capolino anche
un’altra figura, più esile.
I lampioncini disseminati nel vasto giardino illuminano il
suo volto solo quando si volge verso di me. Si tratta di Vartan, suo padre.
Non lascio che lo stupore per quell’arrivo ormai insperato
rovini tutto, e mi lascio trasportare dal momento.
“Fratello”, saluto, poi abbraccio Daron. Il mio amico di un
tempo mi congeda con una rapida pacca al centro della schiena, prima di
interrompere il contatto.
“Serj”, mi saluta a sua volta, di seguito, con un tono di
voce neutro. Cerco di non far caso alla freddezza dell’uomo, e mi volgo con
cortesia verso suo padre, stringendogli la mano destra.
“Vartan, che piacere”.
“Piacere mio, Serj. Oh, ti trovo in grande forma!”.
Il padre di Daron è una persona molto gentile e disponibile,
infatti mi sorride e ricambia la stretta con calore.
“Ti ringrazio, anche per te vale la stessa cosa”, gli dico,
mentre Daron liquida il tassista con una generosa ricompensa.
“Possiamo andare in casa, ora? Sai, abbiamo viaggiato mezza
giornata per arrivare in questo posto sperduto. Non ne posso più”, interviene
bruscamente il mio amico.
Torno serio e sospiro.
“Perché non siete venuti assieme a John e a Shavo? A loro
avrebbe fatto piacere, e avreste potuto usufruire di un po’ di compagnia…”.
“Mi spiace, ma preferisco i jet privati agli aerei di linea”,
torna a interrompermi.
Cerco di mantenermi neutrale. Mi viene da buttare lì qualche
rispostina, ma non voglio rovinare l’atmosfera. Ora che Daron è con noi, le
carte in tavola tornano a cambiare.
“Chiedo scusa per la mia presenza, spero non sia
ingombrante”, aggiunge Vartan, in imbarazzo evidente, “quando ho saputo che mio
figlio sarebbe giunto fin qui per la reunion, non ho potuto fare a meno di
seguirlo. Sai, non sono mai stato da queste parti e credo che la Nuova Zelanda
meriti di essere visitata almeno una volta nella vita”.
Sorrido all’anziano.
“Non ti preoccupare, anche se abbiamo parecchi ospiti la
nostra casa è molto grande e abbiamo tante stanze. Non è assolutamente un
problema, anzi, mi fa piacere”, lo rassicuro, poi faccio cenno di seguirmi.
Entrambi entrano in casa mia e lasciano che la luce artificiale del corridoio
si rifletta sui loro vestiti neri e sulle scarpe laccate.
“Ragazzi, abbiamo visite”, annuncio, affacciandomi
sull’ingresso della sala. Quando tutti gli occhi sono su di me, Daron e Vartan
fanno il loro ingresso.
“Malakian”, dicono all’unisono John e Shavo, increduli.
Nemmeno loro ci credevano più.
“In carne e ossa”, afferma Daron, e per la prima volta
sorride. Nonostante la successiva ondata di entusiasmo, però, il nuovo arrivato
resta molto freddo.
Le mie speranze non si attenuano.
Dopo aver messo a letto Rumi, raggiungo mia moglie. È l’una
di notte, e siamo riusciti a sistemare tutti i nostri ospiti nelle accoglienti
stanze da letto che abbiamo in più.
“Sono felice che la nostra casa si sia riempita un po’”,
afferma Angela, che mi osserva mentre mi svesto.
“Anche io”, mormoro.
“Anni fa l’abbiamo fatta costruire immensa e spaziosa, come
il nostro giardino. Abbiamo sempre sperato di essere circondati di amici, di
vivere in pace e in serenità”.
“Eh, sì”, acconsento, di poche parole.
“Cosa c’è che non va, Serj?”, mi domanda allora mia moglie,
incuriosita dalla mia scarsa voglia di parlare.
Sospiro e vado a sdraiarmi a suo fianco. Angela è bellissima,
ha ancora un corpo da far invidia alle modelle più giovani e ogni volta che mi
avvicino alla sua pelle nuda, be’, provo un brivido di passione.
“E’ solo che ho paura che qualcosa vada storto”, replico, e
mi giro su un fianco. Non voglio che mi guardi negli occhi, so che scoprirebbe
quanto ci sto male. Daron è venuto, ma è cambiato. Se continua così, la vedo
brutta.
“Ancora con questa storia della reunion…”, bisbiglia Angela,
con dolcezza, poi mi accarezza le spalle dolcemente. “Non lasciare che questa
tua recente fissa rovini il momento. Guarda che bellezza, avere tutti i tuoi
amici storici attorno a te! Poi ci sono i due ragazzi, che sono simpaticissimi.
E Vartan, un uomo dall’animo d’oro. Ci siamo io e tuo figlio, felici di tutto
questo. Non essere vittima di un sogno”.
L’ascolto e fingo di addormentarmi, restando immobile finché
non avverto che il suo respiro è lieve e delicato. Quando sono certo che si è
lasciata andare al sonno, scuoto piano la testa.
“Non mi hai capito, allora, amore mio”. Il mio è un sussurro
che si perde nel silenzio di una notte ormai inoltrata. Nessuno l’avverte, se
non il mio cuore.
Mi sveglio alle nove in punto. È stata una notte lunghissima,
ho dormito solo qualche ora, dall’alba in poi.
Sono certo che questa sarà la giornata decisiva per il nostro
futuro, quindi l’ansia quasi mi fa sentire male. Devo resistere.
Angela nota la mia ansia, tuttavia non dice niente. Grazie al
Cielo lei è il mio angelo custode, e mi trasmette tanta forza per andare
avanti.
Trovo i nostri ospiti già pronti per la colazione, e noto con
sorpresa che Shavo ha preparato il latte macchiato per tutti. Gli batto un
cinque.
“Grande, fratello”, e ridiamo assieme. Anche Angela e Rumi ci
raggiungono.
Ancora una volta, Daron resta in disparte e non gradisce.
Quando gli porgo una tazzina, declina con un gesto secco.
“No, grazie. Più tardi chiamo un taxi e mi faccio portare in
città, così faccio colazione e non disturbo”.
Shavo e John hanno sentito le sue parole e si irrigidiscono,
sono costretto a provare di mettere una pezza da solo.
“Daron, qui sei un ospite, non un peso. Favorisci, per
favore”, insisto, ma solo dopo diverse richieste accetta. Con il broncio che lo
caratterizza, mi sembra un bambino.
Mentre ancora mangiamo, i due ragazzi norvegesi si mettono a
fare di nuovo delle boccacce e dei versi per Rumi, che ride a perdifiato.
“Dove li hai trovati questi soggetti?”, mi chiede Malakian,
osservandoli.
“Sono amici di Shavo”, rispondo con diplomazia.
Daron si permette uno dei suoi rari sorrisetti compiaciuti.
“Figuriamoci”, ridacchia, “dovevo immaginarlo”. Fingo di non
aver sentito.
“E adesso andiamo a cercare un’ambientazione per il nostro
nuovo video… yeee!”, grida Vergard all’improvviso, come se fosse un bambino di
cinque anni.
Rumi pare euforico e insiste affinché possa seguire i due
fratelli.
“Se non vi reca fastidio, può venire con voi”, faccio
contento mio figlio, mentre i due norvegesi mi rassicurano con veementi cenni
d’assenso, per poi uscire di casa seguiti dal bambino. A questo punto, penso
siano solo la sorpresa di quelle giornate che dovevano invece essere dedicate
ai System.
“Non ho visto tuo padre. Tutto bene?”, interpello Daron,
notando l’assenza. Lui scrolla le spalle e resta indifferente.
“E’ uscito presto con i suoi strumenti da pittore. Sai com’è
fatto”.
Resto mortificato al cospetto di quella valanga di menefreghismo
che il mio amico di un tempo si porta appresso. Non lo riconosco più.
Quando abbiamo fondato la band, decenni fa, Daron era
simpatico e disponibile. Non è mai stato bello fisicamente, anzi, ma il suo
carattere simpatico e affabile l’ha presto condotto ad avere frotte di
ammiratrici. Adesso mi sembra una persona smorta, senza emozioni.
“Avanti, amico”, lo incentivo, con tanto di un’amichevole
pacca sulla spalla, “non dirmi che adesso non ti importa nemmeno di tuo padre.
Non fare l’antipatico a tutti i costi”.
Daron si scrolla di dosso la mia mano e sembra irritato.
“Non sono antipatico, è solo che… mi sono trovato nel bel
mezzo di… di questo circo, ecco, non saprei nemmeno io come definirlo. Se
dovevi riunire dei pagliacci, non c’era bisogno che mi chiamassi! Sai che ho
tanto da fare”, replica.
A questo punto, con John e Shavo che finora hanno ascoltato
in silenzio, lo scontro pare inevitabile. Angela preferisce ritirarsi,
lasciandoci soli noi quattro. Ha sempre avuto un discreto sesto senso per le
situazioni spinose.
“Senti, fratello, hai rotto il cazzo con questo muso lungo e
tutti questi discorsi da cazzone. Sei più ripetitivo di un vecchio di
novant’anni affetto dalla demenza senile. Se non ti sta bene tutto questo, alza
i tacchi e leva le tende”, affonda Shavo, diretto ed esplicito.
“Ehi”, cerco di placare gli animi, ma non ci riesco.
“Shavo ha ragione, Malakian. Sei un gran coglione, e come se
non bastasse non sai nemmeno divertirti”, aggiunge John, in supporto all’amico.
“Parli tu che non sai nemmeno sorridere”, Daron affonda a sua
volta verso John, preda più facile rispetto a me e a Shavo, “e poi avete
ragione, io qui cosa ci sto a fare? Di fenomeni da baraccone ne hai già
raccolti a sufficienza, Serj. Posso anche andarmene subito”.
Freno subito Daron, prima che gli altri due gli saltino
letteralmente addosso.
“Amico, noi siamo qui per parlare di un argomento importante,
e cioè dei System of a Down. Tutti questi tuoi pensieri fuori luogo puoi
tenerli per te”, dico, ma la parentesi pare già chiusa.
I tre tornano ad alzarsi dalle sedie sulle quali sono stati
seduti finora e si scambiano occhiate roventi. Sento Shavo che borbotta
qualcosa, ma è Daron ad alzare la voce e a surclassare ogni altro brusio.
“Per me questo è un argomento chiuso, come ho affermato tante
altre volte. Io ho una nuova carriera, e con gli SCARS mi sto divertendo molto.
I System per me sono morti e sepolti”, afferma con decisione.
“Sono d’accordo con te, Malakian. Dopo questo nostro
incontro, credo che sia molto meglio evitarci per un po’. Altrochè reunion”,
John esprime così il suo parere, disarmante.
“Ti diverti a fare la primadonna con quei ragazzini, eh?
Essere il loro frontman, quello che tutti guardano e ammirano nei video e ai
concerti? Be’, non sei nessuno, non montarti la testa e non venire qui a farci
una lezione di vita di merda”, aggiunge Shavo.
Mi metto le mani tra i capelli: sono disperato, la situazione
sta precipitando sempre più e non ho idea di come rimediare o provare a mettere
una pezza.
“Intanto io sono su tutte le locandine dei concerti. In tutto
il mondo. Tutti ascoltano la mia voce, tutti guardano i miei video, tutti
pagano per vedermi e incontrarmi. E voi, invece? Ah, è brutto stare fermi a
prendere la polvere, vero?”, carica Daron, freddo e spietato.
“Ecco, bravo! Tu hai sempre agito per la fama e per soldi, è
anche per questo che hai fatto concludere la nostra carriera con i System! Sei
un rompicazzo incredibile, Malakian, io ti detesto”.
Blocco Shavo prima che possa proseguire.
“Basta”, quasi grido. Voglio davvero riportare la discussione
su binari giusti e costruttivi, voglio ritentarci.
Devo riprovarci.
Devo.
“Io..”, provo a dire, ma Daron inforca quel suo cappellaccio
nero e se lo ficca sulla testa come se fosse un sombrero. È così rabbioso che
il suo solo sguardo pare incenerirmi e mi costringe al silenzio.
“Tra me e voi è tutto finito e concluso. I System non
torneranno più, o almeno non con me. Non avrete nemmeno la mia approvazione nel
caso vorreste sostituirmi”, parla lentamente, scandendo le parole, “metto
allora la parola fine a tutto questo. Grazie, Serj, per l’ospitalità: io però
ho tanto da fare a Los Angeles, e devo proprio andarmene al più presto”.
Detto questo ci dà le spalle e abbandona la sala. John e
Shavo tacciono, prima mi donano un’occhiata ma capiscono che è meglio non
aggiungere altro.
“Io… credo che andrò in veranda…”, borbotta poi Shavo, dopo
aver guardato un po’ lo schermo illuminato del suo cellulare.
“Anche io”, dice John, prendendo la palla al balzo.
Così torno a essere solo, con il volto stretto tra le mani e
una gran voglia di piangere. E pensare che solo qualche giorno fa ero così
positivo, così felice. Ho sbagliato a illudermi. Ben mi sta, la vita non è
fatta per i sognatori.
Noto con la coda dell’occhio che Angela mi osserva, in piedi
sulla soglia della porta, ma poi decide di lasciarmi in pace. Questo è uno dei
giorni più cupi della mia vita.
Trovo la forza per alzarmi da lì solo dopo oltre mezz’ora di
raccoglimento interiore. Scelgo di uscire di casa e di provare a schiarirmi le
idee all’aria aperta, ma desidero evitare John e Shavo.
Non vado nei pressi della veranda, limitandomi a muovermi verso
il folto della flora del giardino. La natura già mi rincuora.
Quasi non mi accorgo quando incappo per caso in Vartan, che,
immerso tra la vegetazione, è alle prese con un dipinto.
“Serj”, mi saluta. La sua voce da uomo anziano è dolce e
accomodante, mi sento subito a mio agio.
“Vartan, grande artista”, lo saluto e lo elogio, a mia volta
con grande rispetto.
Egli abbandona per un attimo il suo pennello e avvicina la
mano destra alla mia, prendendola e stringendola forte. Non distrae però lo
sguardo dalla sua opera.
“Non dirmi che mio figlio ti ha ferito”.
Non trovo il coraggio di rispondere a quella domanda che in
realtà appare come un’affermazione. Sono colto alla sprovvista dalla profondità
dell’anziano. Lui però mi comprende, dal profondo della sua saggezza.
Scioglie il deciso contatto e inizia a parlarmi.
“Daron è fatto così. Come sai è figlio unico, io e mia moglie
abbiamo fatto di tutto per farlo crescere al meglio. Da quando siamo fuggiti
dall’Iraq, l’abbiamo sempre messo al primo posto, poiché dopo tutto quello che
abbiamo passato lui è stato l’unico prezioso dono che ci ha fatto la vita”,
racconta con voce spenta. Ancora non trovo il coraggio né la forza per dire
qualcosa.
“Tuttavia ultimamente sta vivendo un periodo difficile ed è
molto stressato. Immagino che vi avrà raccontato della sua fama e quant’altro,
però vi garantisco che non è tutto oro quel che luccica. Mio figlio si sente
molto solo e sto cercando di stargli vicino, di fare quel che posso affinché le
ansie, le paure e lo stress non vincano su di lui”.
Si volge improvvisamente verso di me, smettendo di rimirare
la sua tela.
“Ricordi quando era un ragazzino pieno di sogni e di
progetti? Be’, quel Daron non è morto. È solo sepolto sotto strati e strati di
spazzatura quotidiana. Tutti quei… come li chiamano… selfie, quelle foto in
giro, le ragazze che lo inseguono, e anche il timore continuo di cadere dal
piedistallo. Ecco, lui sta male in tutto questo. E vi vuole ancora bene, ma non
sa come dimostrarlo”.
“Non ne dubito”, trovo la forza per spiaccicare tre parole.
La verità è che quando l’anziano artista mi guarda con quegli
occhi profondi, sembra che mi catapulti in quel che mi spiega. Vartan è un uomo
tutto d’un pezzo e senza quei grilli che suo figlio ha per la testa. Sa ancora
riconoscere il giusto dallo sbagliato.
Mi rendo conto che mi fido molto di lui e delle sue parole.
“Non lasciare mai appassire i tuoi sogni, Serj, e vedrai che
essi un giorno diverranno realtà. Dovrai crederci intensamente, però”, e mi
sorride, bonario, “tutto nella vita torna indietro, soprattutto il bene. Mio
figlio un giorno tornerà con voi, a illuminare le notti delle capitali con i
vostri concerti mozzafiato”.
“Lo spero”, dico io, “ma il fatto è che… temo di essere io il
problema. Non so se mi spiego…”.
Vartan sorride, increspando le labbra sotto la folta barba.
“Per l’età, forse? Ma smettila, ed io cosa dovrei dire,
allora?”. Ride, ma non mi sta prendendo in giro. È una risata di comprensione,
che non sa di sfottò. “Non farti troppi problemi, figliolo, o diventerai come
mio figlio. Vedrai che l’età, assieme a tutto il resto, impallidisce al
cospetto della passione. E tu hai talento, voce, voglia di fare, creatività:
goditi questa lunga pausa e pensa che un giorno sarai stanchissimo, ma
pienamente soddisfatto. Metti su carta pensieri e idee, vedrai che ti
torneranno utili prima di quel che credi”, continua a rassicurarmi, poi, come
se il nostro dialogo sia stato soltanto un breve momento di pausa dalla sua
attività, torna a volgersi verso la sua tela.
Immerge il pennello nel verde e disegna i contorni di un grande
albero.
“Tutto torna, Serj, non dimenticarlo mai. Nulla ha una fine,
finché non lo vuoi tu”.
Torno a casa ancora abbastanza scosso dalle parole di Vartan.
La saggezza del pittore è stata provvidenziale, ma anche leggermente
frastornante.
Si può continuare a sperare in un sogno, anche quando ormai
pare tutto perduto per l’eternità? La risposta non sta a me darla. È meglio che
continui a sperare, a crederci, se voglio vivere serenamente e trasmettere
positività anche a chi mi sta a cuore.
Sto per rientrare quando torno a scorgere i miei due amici in
veranda, e decido di andare da loro. Mi accolgono con un sorriso.
“Ci dispiace per quello che è successo un’ora fa. Non era
nostra intenzione gettare scompiglio a casa tua e nei tuoi progetti”, esordisce
John.
Alzo le mani.
“Nei nostri progetti, semmai”, specifico, “però dovevamo
chiarirci, il confronto è stato necessario anche se negativo”. Entrambi
annuiscono, grevemente. Poi è Shavo a prendere la parola.
“Credo che domattina partiremo, Serj. Abbiamo qualche
progetto nel cassetto, non possiamo stare fermi per più di due giorni. Ma se
vorrai e ti farà piacere, tra qualche mese torneremo a farti visita”.
“Sarete i benvenuti”, rispondo. Mi siedo e mi sforzo di
sorridere. “Sarete per sempre i miei fratelli, comunque vada”, affermo, e a
sorpresa avverto il bisogno di abbracciarli.
Mi alzo e allargo le braccia, stringendoli a me. Loro
ricambiano con calore e affetto.
Quella sera, a cena, siamo tutti più mogi rispetto alla
precedente.
I due norvegesi sono tornati assieme a Rumi, mio figlio è
contentissimo. L’hanno divertito molto. Mi hanno riferito che hanno trovato
un’ambientazione che spacca, e che questo breve soggiorno in Nuova Zelanda li
ha illuminati.
Sono felice per loro, anche se so che non hanno detto a Rumi
che l’indomani mattina partiranno con il primo volo delle otto, assieme a Shavo
e John. Io stesso non ne ho avuto il coraggio: mio figlio non si è mai
divertito così tanto come durante questi due giorni.
A tavola solo i due ragazzi ogni tanto fanno qualche battuta
e qualche verso animalesco, facendoci udire lo scherzoso repertorio che
vorrebbero inserire nel loro nuovo singolo.
Daron è seduto a fianco di suo padre ed è assorto, mentre il
genitore ogni tanto occhieggia verso di me e sorride quando incrocia il mio
sguardo. È una presenza rassicurante.
Conclusa la cena, mi avvicina mentre gli altri vanno a letto.
“Serj, domani partiamo anche io e Daron, nel pomeriggio. Lui
vuole tornare dalla sua band ed io, be’, ho ritrovato l’ispirazione e ho
dipinto fin troppo”, mi spiega.
“Va bene”, dico, e mi sforzo per l’ennesima volta di sorridere.
Domani se ne andranno tutti, ed io… tornerò solo.
Dormo male, anzi, malissimo.
Mi sveglio di tanto in tanto e resto per lunghi quarti d’ora
a occhi aperti nel buio, a riflettere e a soffrire.
Angela lo sa, e ogni tanto mi riserva qualche affettuosa
carezza, però non c’è nulla che possa lenire il mio malessere interiore.
Una nuova alba, la più drammatica, si avvicina rapidamente.
Alle sette e mezzo del mattino successivo sono già in
aeroporto ad accompagnare i ragazzi.
Rumi dorme ancora, ho preferito non svegliarlo. So che
avrebbe fatto un sacco di storie per venire anche lui, e purtroppo in macchina
c’è posto solo per cinque persone, guidatore compreso.
In un silenzio tombale aspettiamo che giunga l’ora della
partenza. C’è un leggero ritardo, e questo ci permette di prolungare gli ultimi
saluti.
Abbraccio tutti e quattro e li invito a tornare a farci
visita e a tenerci aggiornati.
“Ragazzi, non posso perdermi il vostro nuovo video”, affermo,
rivolgendomi ai norvegesi, che scoppiano a ridere.
“Oh, vedrai! Spaccherà. Tuo figlio ci ha dato tante idee per
renderlo spettacolare e divertente anche per i più giovani”, mi rassicura Bard,
mentre il fratello maggiore annuisce e sorride.
Ci salutiamo così, e pare che qualcosa sia rimasto in
sospeso. Sarà solo il tempo a offrirci le ultime risposte.
Torno a casa e trovo anche Daron e Vartan in procinto di
partire.
“Non era di pomeriggio?”, chiedo, riferendomi alla partenza.
Daron mi riserva un’occhiata scocciata.
“Prima di partire, andiamo a concederci un bel pranzo in un
ristorante di lusso”, risponde. Vartan lo riprende con una severa gomitata.
“Non badare a mio figlio”, afferma, “e grazie per
l’ospitalità. Come sai, per noi orientali non c’è nulla di più importante”.
Chino il capo in segno di gratitudine, mentre il figlio è a
disagio.
“Voglio farti un regalo”, prosegue il pittore, allungandomi
la tela a cui stava lavorando il giorno prima.
Mi soffermo un attimo a osservare ciò che ha dipinto: un
grande albero, verde scuro e rassicurante, e sopra di esso alcuni astri
rotondeggianti, come se fossero delle stelle simili al Sole… sembra che al loro
centro ci siano disegnati alcuni volti, anche se stilizzati. Sono quattro.
Siamo noi, i System of a Down, e siamo quattro stelle che splendono sull’albero
della vita…
Resto così assorto nell’osservare l’opera che fatico ad
accorgermi che il taxi è arrivato a prenderli. A quel punto abbasso la tela
dall’altezza dei miei occhi, mentre avverto un profondo senso di impotenza che
mi attanaglia l’animo.
Daron dà ordine al tassista di sistemare i loro pochi bagagli
e sale sui sedili posteriori del mezzo senza nemmeno salutare. Vartan invece
aspetta che le valigie siano al loro posto, poi mi sorride e mi stringe la
mano.
“Su con la vita, Serj! Vedrai che ci sarà un nuovo inizio. Ma
non smettere mai di sperare…”, apre lo sportello ed entra, lentamente, “…forse
è proprio questo, un nuovo inizio…”.
Le sue ultime parole vengono attutite e successivamente
cancellate dal rumore dello sportello che si chiude.
Il taxi parte, piano, e per un secondo, solo una frazione di
secondo, noto Daron che mi osserva al di là del finestrino. A sorpresa noto che
mi fa un cenno di saluto con la testa. Non vorrei immaginarlo, ma pare che
abbia gli occhi umidi.
È solo un istante prima che il veicolo sia già troppo
distante da me.
E mi ritrovo a pensare, chissà come e chissà perché, che
forse è davvero questo un nuovo inizio. Un inizio che incomincia da una fine.
Mi ritrovo così di nuovo solo, assieme alla mia famiglia.
Rumi non vuole tornare a scuola e non fa altro che piangere,
posso solo rassicurarlo dicendogli che i nostri amici torneranno presto. Angela
stessa pare un po’ triste e malinconica, e mi sta sempre appresso. Sa che ci
sto soffrendo.
Ha avuto ragione anche questa volta. Mi ha consigliato di
godermi il momento, ed io non credo di averlo fatto appieno. Adesso non mi
resta altro da fare che soffrire, poiché i ragazzi se ne sono andati.
Sento già la mancanza di tutti loro, Daron compreso, anche se
un po’ mi scoccia ammetterlo. Non mi importa più se la reunion è andata a
rotoli. Potessi tornare indietro nel tempo, anche solo di quarantotto ore… ma
il tempo è una realtà fugace, che scorre e corre via in modo costante. Gli
attimi bisogna saperli cogliere, perché non tornano mai più.
Con questa malinconia che mi resta dentro non posso far altro
che stare vicino alla mia piccola famiglia e renderla felice. Inoltre, grazie
al saggio Vartan, ho ripreso a pensare e a cercare di scrivere. Presto avrò
tanto materiale nuovo a mia disposizione.
Poi, chissà… che tutto torni per davvero? O che sia solo
un’illusione?
Nel frattempo, ho e avrò la certezza di aver sempre fatto del
mio meglio, mettendocela tutta.
Io spero.
Io voglio continuare a sperare e a vivere.
La vita è bella, mi ha già dato tanto, ma posso continuare a
lottare per conquistare altre vette, e ciò anche grazie a chi crede in me, dal
semplice fan a mia moglie e a mio figlio.
Grazie, vita, per tutto il bello che hai saputo donarmi.
NOTA DELL’AUTORE
Da tanto tempo sognavo di scrivere una ff come questa. Grazie
alla giudice per avermi ispirato e per avermi concesso questa preziosa
opportunità.
Per chi non lo sapesse, Ylvis è un duo comico norvegese
formato dai due fratelli che qui appaiono nella storia, e che hanno pubblicato
un singolo che è diventato famosissimo, e cioè What does the fox says?, credo
che lo conosciate tutti più o meno.
Li ho voluti inserire perché mi aveva folgorato l’idea di
creare una sorta di miscuglio tra il triste e il divertente, e grazie alla loro
simpatia hanno saputo creare un collante che sapesse rendere partecipe del
racconto anche il piccolo Rumi, ma non solo, che coinvolgesse anche gli altri personaggi
più adulti.
Naturalmente ciò è frutto della mia immaginazione e non credo
che Ylvis e System si siano mai incontrati sotto lo stesso tetto xD però questa
idea mi ha compito tantissimo e mi ha fatto sorridere.
Grazie per aver letto ^^