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Autore: Old Fashioned    27/07/2019    17 recensioni
Un’arma segreta del Reich, il dispositivo ombra, viene recuperata quasi casualmente dallo scanzonato pilota di un idrovolante ricognitore.
L’ufficiale inglese che si è visto sottrarre l’oggetto, però, giura vendetta al tedesco, anche perché nello scontro che c’è stato fra i due, egli ha perso una mano e ora è costretto a portare un uncino al posto dell’arto perduto.
I due si incontreranno nuovamente in una misteriosa e sconosciuta isola al centro del Mar dei Caraibi: Ypa'u Oiyva, l’isola che non c’è. Tra indigeni ostili, foreste impenetrabili e luoghi misteriosi, si contenderanno di nuovo il dispositivo ombra e il capitano inglese approfitterà dell’occasione per cercare di saldare vecchi conti rimasti in sospeso.
Seconda classificata al contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP. Vincitrice del premio speciale "Miglior Hero"
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Carissimi lettori, ecco qui un altro mappazzone, stavolta bello grosso, che rivisita in chiave moderna la favola di Peter Pan. Siccome ho scelto di privilegiare l’atmosfera del cartone animato, scanzonata e leggera, aspettatevi che qualche volta il realismo ceda un po’ il passo all’effetto scenico. Ovviamente ho cercato di ridurre al minimo la cosa, ma ho voluto avvisare perché magari non tutti gradiscono questa scelta ed è bene che lo sappiano prima di leggere.







PETER PANKOW E IL SEGRETO DI YPA’U OIYVA



I – Gli antefatti


In cielo non c'era una nuvola, l'aria era talmente immobile che le foglie di palma della tettoia sembravano dipinte.
Da qualche parte un insetto friniva eroico nonostante la calura. Per il resto, l'unico suono che si udiva era una debole risacca, come se anche il mare fosse troppo spossato per generare onde.
La canna del Bofors 40, che sporgeva dal riparo puntata verso il largo, dava l'idea di volersi afflosciare esausta sui sacchi di sabbia.
All'interno della postazione, sotto l'approssimativa ombra di una rete mimetica e qualche frasca, il soldato Matthews voltò la pagina di una rivista che aveva l'aria di essere stata sfogliata altre centinaia di volte. Comparve una ragazza seminuda e in posa provocante. “Ciao, Betty,” la salutò.
Che fai?” gli chiese il soldato Fulton, dall'amaca su cui era sdraiato. “Parli da solo?”
Raccolse un bastoncino di bambù, lo puntò contro la culatta del cannone e si diede una spinta per dondolarsi.
Ormai l'ho vista così tante volte che siamo quasi amici,” rispose l'altro.
Di nuovo calò il silenzio. Ancora più profondo, dal momento che nel frattempo anche l'insetto si era zittito. Rimanevano solo il rumore ipnotico della risacca e qualche raro cigolio quando Fulton si muoveva.
Il soldato Harlow, seduto su un'improvvisata sdraio, con i piedi appoggiati alla barriera di sacchi di sabbia e il cappello calato sugli occhi, brontolò: “Non succede mai niente.”
Ringrazia,” esalò il caporale Clifton, steso su una stuoia in mutande e scarponi. “Adesso potremmo essere in Europa a farci sparare nel culo dai crauti.” Fece una pausa, che utilizzò per grattarsi accuratamente l'addome, poi soggiunse: “Qui è molto meglio, nessuno ci rompe le palle.”
Io vorrei il cambio,” sospirò Matthews. Girò un'altra pagina, comparve una nuova ragazza, questa volta con un succinto costume alla marinara. “Ciao, Kate.”
Nah,” Fulton scosse la testa, provocando un cigolio della sua amaca, “che cambio e cambio: molto meglio starsene qui, dove il rischio maggiore è quello di morire di noia.”
La conversazione si esaurì, l'insetto lontano riprese a frinire. Lo sciabordio della risacca invitava all'abbandono.
D'un tratto cominciò a farsi udire il ronzio lontano di un aereo.
Avete sentito?” chiese Matthews. Abbandonò da una parte la rivista e prese a scrutare il cielo schermandosi dal sole con la mano.
Sarà quello della posta,” disse Fulton alle sue spalle.
Dalla stuoia provenne: “A quest'ora?”
Senza togliersi il cappello dalla faccia, Harlow chiese: “Perché, che ore sono?”
Il ronzio si fece più intenso, nel cielo comparve un puntino nero. Matthews si alzò e andò ad affacciarsi sul mare. “Viene verso di noi,” annunciò.
E certo,” replicò Fulton, col tono di ribadire l'ovvio, “deve portarci la posta.”
L'altro andò alla ricerca del binocolo, quindi lo inforcò e cominciò a scrutare il cielo. “Ragazzi!” esclamò dopo un po', col tono del cercatore d'oro che ha appena trovato una pepita grossa come la sua testa. “Ragazzi, venite a vedere!”
Il puntino nero continuava imperterrito a muoversi avanti e indietro.
Ragazzi, che mi venga un colpo secco se quello là non è un mangiacrauti!”
L'affermazione fu seguita da un silenzio carico di perplessità.
Un mangiacrauti?” fece eco dopo un po' Harlow. “Qui?”
Come ce le abbiamo noi, delle navi da queste parti, ce le hanno anche loro,” disse Matthews col tono che avrebbe usato parlando con un bambino non troppo sveglio. “E anche loro sulle navi hanno gli idrovolanti da ricognizione.” Andò alla ricerca dell'opuscolo con i profili degli aerei e lo sfogliò rapidamente. “Ecco qui,” disse alla fine, mostrando una sagoma nera. “Arado 196. Più crucco dell'Oktoberfest.”
Fulton dedicò all'immagine un'occhiata svogliata. “Preferisco Betty,” sentenziò poi.
Ragazzi!” Matthews cominciò a togliere freneticamente tutto ciò che nel tempo si era accumulato sul Bofors 40: armi individuali, canne di bambù più o meno intagliate, un paio di calzini stesi ad asciugare. “Ragazzi, datevi una mossa o ci scappa!”
Che palle,” brontolò Harlow abbandonando la sua sedia.
Se mi hai fatto alzare per il nostro postale, giuro che ti prendo a calci nel culo,” promise il caporale Clifton in tono sinistro.

§

Il tenente Pankow diede un'occhiata di lato: la sagoma frastagliata della costa, di un bianco che sotto il sole costringeva a stringere gli occhi, emergeva da un'acqua azzurro chiarissimo, che andando verso il largo diventava di un intenso turchese e poi di un blu profondo e misterioso.
Nell'entroterra, quasi coperte da una vegetazione lussureggiante che aveva tutti i toni del verde, si indovinavano sagome dalla vaga forma geometrica.
L'ufficiale spinse in avanti la barra, l'aereo picchiò appena. “Davanti a noi, Till,” disse, inclinando di lato il velivolo per avere una prospettiva migliore, “vedi niente?”
Nossignore,” giunse la risposta.
Per me sono costruzioni,” insisté il pilota. Le indicò col dito.
Forse sono vecchie case coloniali, signor tenente,” azzardò cauta la voce del radiotelegrafista, “edifici abbandonati.”
E se andassimo a dare un'occhiata?” propose l'ufficiale. Sembrava che stesse invitando il subalterno a fare una gita da qualche parte.
Siamo fuori da parecchio, signore,” giunse la cauta replica. “La benzina...”
Ce n'è sempre un po' di più,” lo interruppe il pilota con un'alzata di spalle, “l'indicatore non è molto preciso. E poi al massimo ammariamo e chiediamo via radio alla Schütze di venirci a prendere.”
Ma signore...” la voce dell'osservatore suonava quasi imbarazzata. “Signore, dubito che il comandante von Stauff devierebbe dalla rotta per venire a raccoglierci in mezzo al Mar dei Caraibi.”
Disinvolto, Pankow replicò: “Ma figurati! Vuoi che il Vecchio lasci il suo unico pilota a mollo come un'anatra? E poi chi gliele fa le ricognizioni aeree?”
Detto questo, puntò verso l'entroterra e diede motore.
A quel punto, un proiettile d'artiglieria passò così vicino che lo spostamento d'aria fece sbandare l'aereo.
Ehi!” esclamò Pankow costernato. Rimise il velivolo in assetto, ma un attimo arrivò dopo un secondo proiettile.
Nell'interfono risuonò la voce preoccupata dell'osservatore: “Signor tenente, andiamo via!”
Aspetta,” Pankow scartò per evitare un altro colpo. “Aspetta, voglio vedere da dove sparano, voglio...”
Un colpo perse in pieno il motore. L'Arado 196 sussultò, l'elica si inchiodò, dalla capottatura cominciò a uscire un fumo nero e denso, che faceva tossire e lacrimare gli occhi.
Il velivolo cominciò a perdere quota.
Signor tenente!” esclamò l'osservatore inorridito. “Signore, stiamo precipitando!”
Accidenti, avevo messo in fresco una bottiglia per stasera.”

La terra si avvicinava con inquietante velocità. Man mano che i metri di quota scemavano, la massa verde della giungla perdeva l'aspetto di uno smeraldo screziato per assumere quello di un sinistro groviglio di piante dal quale spuntavano rami secchi e liane.
Pankow cercò di guardare fuori, ma le folate di fumo gli consentivano solo brevi scorci dell'ambiente circostante. L'unica cosa che si vedeva chiaramente era la terra sempre più vicina. Lavorando di barra e pedali per tentare di mantenere l'assetto, filosoficamente recitò: “Lo sai, Till? Ci sono tre cose inutili in aviazione: il carburante lasciato a terra, i metri di pista dietro le spalle e i metri di quota sopra la testa.” Fece una breve pausa, quindi in tono quasi rassicurante soggiunse: “A noi però non interessano i metri di pista: siamo un idrovolante.”
E poi successe la fine del mondo: qualcosa agganciò uno degli scarponi dell'aereo, il velivolo si rovesciò e cadde fracassando rami, recidendo liane e sollevando nugoli di foglie. All'interno il frastuono era tremendo: si udivano schianti, gemiti, scricchiolii e boati, il rumore del metallo che si piegava e quello del legno che si frantumava. Pankow provò anche a imprecare, ma nel chiasso non riuscì nemmeno a udire la propria voce.
L'aereo capitombolò rotolando come una specie di dado da gioco per un tempo che parve infinito, precipitando sempre più a fondo nella foresta, lasciandosi dietro un pezzo dopo l'altro. Infine, ridotto a poco più di una fusoliera avvolta dalle liane, si fermò penzoloni come un grottesco bozzolo.
Sulla scena cadde un silenzio irreale.

Pankow sbatté gli occhi: la luce verde che regnava ovunque faceva pensare di essere sul fondo di uno stagno e l'umidità favoriva decisamente l'illusione. “Ma che accidenti...” bofonchiò. Poi, a voce più alta: “Schelle? Till? Tutto a posto?”
Da dietro le sue spalle provenne: “Con il dovuto rispetto, signore: tutto a posto un cazzo.”
Il tenente rinunciò a rispondere. Si guardò invece lentamente intorno: innanzitutto realizzò di essere ancora assicurato al sedile tramite le cinture di sicurezza. La capottina era sparita, il muso dell'aereo puntava verso il basso, per cui dalla posizione in cui si trovava vedeva perfettamente il suolo, distante forse due o tre metri. Tutt'intorno c'era uno sfacelo di rami spezzati, foglie e liane contorte.
Al suolo, per quel che poteva vedere, c'era uno spesso tappeto di vegetali marcescenti, dal quale spuntavano arbusti sconosciuti.
Sarà meglio trovare il modo di scendere,” propose.
Alle sue spalle, Till replicò: “Ma signore, come facciamo?”
Preferisci stare qui ad aspettare gli inglesi?”
Nossignore.”
Allora cerchiamo di scendere.” Pankow cominciò ad armeggiare con le cinghie di sicurezza.
Dopo un po', in tono esitante, il radiotelegrafista disse:”Signore, ho sentito dire che in questi posti ci sono insetti velenosi e serpenti.”
E io invece ho sentito dire che ci sono gli inglesi, che non sono velenosi, ma prendono i tedeschi come noi, li interrogano per vedere se sanno qualcosa di interessante e poi li spediscono nei campi di prigionia fino alla fine della guerra.” Fece una pausa che utilizzò per imprecare contro la cintura che non si voleva aprire, quindi concluse: “Io non ho nessuna intenzione di fare questa fine, Schelle. A bordo della vecchia Schütze ho una bottiglia che mi aspetta e ho tutte le intenzioni di berla alla salute del Führer.”
Sissignore,” sospirò l'altro rassegnato.
Quindi ora diamoci da fare e...” La cintura cedette all'improvviso. Pankow piombò giù con un grido e atterrò in un cumulo di fogliame putrido.
Riemerse dallo strato di vegetali soffiando e scrollandosi, poi alzò lo sguardo a incontrare quello del suo subalterno. “Vieni?” gli chiese. Sembrava che gli stesse proponendo di tuffarsi in una piscina dall’acqua particolarmente gradevole.
Ma signore...”
Tanto lassù non ci puoi rimanere, Till.”
Sissignore.”
Schelle sbloccò la cintura di sicurezza, ma invece di lasciarsi cadere si aggrappò a quel che rimaneva delle strutture dell’aereo e riuscì a calarsi lentamente a terra.
Quando i due furono di nuovo faccia a faccia, Pankow disse: “Sarà meglio spostarci di qui.” Si guardò intorno con l’aria di aspettarsi una strada asfaltata da qualche parte. “E poi potremmo dare un’occhiata in giro, che ne dici?”
Il radiotelegrafista quasi sbiancò. “Ma signore,” rispose, “l’isola è controllata dagli inglesi. Posto che la radio sia ancora in funzione, dobbiamo comunicare la nostra posizione alla Schütze e poi nasconderci.
Il tenente fece una risatina. “Sei diventato un gibbone, per caso, Schelle?”
Prego, signore?”
Pankow indicò il relitto, che penzolava a tre metri d’altezza e gli chiese “Come conti di raggiungerlo, senza le doti di una scimmia?”
Merda,” sospirò Till dopo aver alzato gli occhi a sua volta.

Una barca devono averla per forza,” disse il tenente Pankow. “Come fanno a non avere una barca in un posto del genere?” Si fermò e rivolse un’occhiata a Till Schelle, che lo seguiva in silenzio. “Se siamo fortunati c’è addirittura un idrovolante. Magari uno di quei loro Swordfish.” Riprese a camminare di buon passo, apparentemente incurante di caldo, insetti, serpenti ed eventuali presenze nemiche. “È un po’ che non piloto un biplano,” considerò poi, come fra sé e sé, “ma è come andare in bicicletta, no? Una volta imparato, non si dimentica più.”
Sissignore,” sospirò il radiotelegrafista.
Si terse il sudore dalla fronte, e poi dal collo. L’aveva fatto tre minuti prima, ma di nuovo ritrasse la mano grondante come se l’avesse immersa nell’acqua.
Strinse i denti sforzandosi di tenere dietro al tenente. Peter Pankow era una specie di folletto smilzo, dotato di energie apparentemente inesauribili e della mentalità, oltre che dell’aspetto, di un sedicenne. In quel momento, ad esempio, più che un ufficiale dietro le linee nemiche, abbattuto su un’isola sconosciuta, con minime o forse addirittura nulle possibilità di sfuggire alla cattura, sembrava un ragazzino che stava giocando agli indiani.
Non che fosse una cattiva persona, questo no, ed era anche un ottimo pilota, però…
La voce trionfante di Pankow interruppe il filo dei suoi pensieri: “Guarda là, Till: te l’avevo detto che c’erano delle costruzioni!”
Il caporale si voltò verso ciò che il suo superiore stava indicando e dovette reprimere un improperio: poco più avanti la vegetazione sembrava essere stata abbattuta con mezzi efficaci ma frettolosi, forse addirittura un bulldozer, o magari un paio di cariche esplosive, e tra le fronde così sfoltite si intravedeva quello che inequivocabilmente era un edificio vetusto, con l’intonaco un po’ scrostato e la poca pittura rimasta ormai coperta da inflorescenze di muffa nera. La bandiera inglese che pendeva dal terrazzo, per contro, era nuovissima.
Schelle agguantò il suo noncurante superiore e lo spinse al riparo di un tronco, quindi sussurrò: “Dobbiamo andarcene subito, signore.”
L’altro lo fissò come se avesse appena parlato in cinese. “Perché?”
Signore, è pieno di inglesi.”
Pankow alzò gli occhi al cielo. “Caporale Schelle,” replicò, con l’aria del maestro che per la terza volta spiega a un alunno un’operazione semplicissima, “i mezzi per andare via di qui non sono mica parcheggiati nel mezzo della foresta: ce li hanno gli inglesi.”
Sì, ma signore… non potremmo almeno aspettare il buio?”
E stare qui con questo caldo? In mezzo agli insetti? No no, io stasera voglio essere già a bordo. E poi ti dirò di più: voglio proprio vedere cosa c’è in questo posto. Se il Vecchio ci ha mandati a fare una ricognizione, è segno che deve esserci qualcosa di interessante.”
Ma signore,” tentò Schelle in extremis, “hanno visto l’aereo cadere, ci staranno cercando ovunque.”
Staremo nascosti,” gli assicurò Pankow disinvolto, “Non ci vedrà nessuno.” Si incamminò con risolutezza.
Till scosse la testa come di fronte all’ineluttabilità del fato. Lo lasciò allontanare di qualche decina di metri masticando improperi a mezza voce, ma quando vide che scompariva nella vegetazione assolutamente certo che lui fosse alle sue spalle, a malincuore si risolse a seguirlo.

Il tenente si decise a mettersi in copertura solo quando l’edificio era così vicino che si riusciva a sentire una radio che trasmetteva musica leggera.
Till lo imitò e i due avanzarono strisciando sul terreno, tenendosi quanto più possibile sotto gli arbusti.
Giunti al limite della vegetazione, si rintanarono sotto un cespuglio e rimasero a guardare: l’edificio dava l’idea di essere stato ai suoi tempi una graziosa villa coloniale. Era difficile dire di che epoca fosse, perché l’umidità e le piante che ancora gli crescevano negli anfratti meno raggiungibili lo facevano sembrare una specie di reperto archeologico disperso nella giungla.
Tutt’intorno alla costruzione vi era appena lo spazio sufficiente a consentire la manovra a un autocarro, tanto che i rami degli alberi più alti si protendevano fin quasi a coprire la struttura.
Davanti alla porta principale della villetta, due piantoni con il Lee-Enfield in spalla camminavano lenti su e giù. Poco lontano un sottufficiale segaligno, con lo swagger stick sottobraccio, fissava serio i dintorni, con l'aria di aspettarsi proprio l'arrivo di due tedeschi dispersi dietro le linee.
Di là non si entra,” sussurrò Pankow. Scosse la testa deluso.
Schelle si voltò a fissarlo stupefatto. “Scusi?” gli chiese, ancora non ben certo di aver udito correttamente.
Non si entra,” fu la replica, proferita col tono di una banale conversazione. “Troppa gente.”
Per qualche secondo il caporale rimase senza parole. Infine, con la pacata lentezza con cui si parlerebbe a un suicida su un cornicione, disse: “Signore, noi non dobbiamo entrare. Dobbiamo procurarci un mezzo per abbandonare quest'isola.”
Pankow fece un gesto noncurante. “Dopo,” rispose. “Abbiamo tutto il tempo per andarcene, ci sono ancora un sacco di ore prima delle effemeridi.”
Till emise un sospiro. Conosceva l'espressione che il suo superiore aveva assunto: era quella che invariabilmente preludeva alle azioni più avventate e irresponsabili. “Signore...” tentò un'ultima volta.
L'altro alzò le spalle. “Un'occhiatina, che vuoi che sia? Saremo fuori prima ancora che si accorgano che siamo entrati.”
Ma signore...”
Per tutta risposta, Pankow si alzò e camminando piegato per mimetizzarsi meglio prese a girare intorno all'edificio. “Ci sarà una finestra aperta... una botola...” mormorava frattanto fra sé e sé.
Till seguiva il superiore indeciso sul da farsi. Impuntarsi e farlo proseguire da solo? Provare a fermarlo in qualche modo? Consegnarsi spontaneamente agli inglesi, prima che qualche stupidaggine del tenente li facesse passare da prigionieri di guerra a spie passibili di fucilazione sul posto?
La voce dell'ufficiale lo fece quasi sussultare: “Eccola!”
Il caporale abbandonò le proprie elucubrazioni. “Che cosa, signore?” Assunse l'espressione di chi sta per ricevere una secchiata di liquami in faccia.
Guarda quella porta.” Il tenente indicò un'uscita di servizio socchiusa. Accanto a essa, riverso sui sacchi di sabbia della postazione, un soldato dormiva della grossa con una rivista aperta sulla faccia per proteggersi dal sole.
Non vorrà passare accanto a quel tizio, signore,” tentò Schelle, ben sapendo quale sarebbe stata la risposta.
Prevedibilmente, Pankow rispose: “Se facciamo piano non se ne accorgerà nemmeno.”

§

Nello stesso momento, a pochi metri in linea d'aria dai due tedeschi, un capitano di fregata britannico stava tracciando una rotta su una carta nautica. Usava squadra e compasso con una disinvoltura che denotava una lunga pratica, interrompendosi di tanto in tanto per scrivere cifre su un taccuino.
A un certo punto, l'ufficiale abbandonò gli strumenti sul piano della scrivania e volse lo sguardo verso la finestra. Attraverso le fronde si intravedeva il turchese chiaro dell'acqua. Per quanto umida e calda, appesantita dagli afrori della vegetazione tropicale, l'aria conservava una traccia del profumo di salsedine del mare aperto. Egli se ne beò socchiudendo gli occhi, quindi emise un sospiro che aveva al tempo stesso il tono malinconico della nostalgia e quello gagliardo di un anelito a stento trattenuto.
Si udì bussare. Colpi poderosi, sonori, sotto i quali la porta tremò come se dall'altra parte ci fosse un cavallo che scalciava.
Senza scomporsi, il comandante si lisciò appena i sottili baffi neri, raddrizzò di una frazione di millimetro il perfetto nodo Windsor della cravatta e disse: “Avanti.”
L'anta si spalancò, rivelando la figura massiccia di un sottufficiale. Questi si mise più o meno sull’attenti, salutò e annunciò: “Con il suo permesso, comandante, la Jolly Roger è pronta a salpare!”
Hook annuì. “Molto bene, signor Soak,” apprezzò sobrio. Si alzò in piedi, rivelando un’altezza decisamente superiore alla media. Fece qualche passo nella stanza e si fermò accanto alla finestra. Da quella posizione si vedeva bene uno snello incrociatore alla fonda presso il limitare della laguna. Anche a distanza, la nave dava una confortante impressione di ordine, pulizia ed efficienza.
Molto bene,” ripeté il comandante.
Grazie, signore,” rispose l'altro senza muoversi dalla soglia.
Venga avanti, nostromo,” lo invitò l'ufficiale, quindi tornò a rivolgere lo sguardo all'incrociatore. “Abbiamo notizie di quel velivolo?” domandò poi, col tono di chi chiede informazioni sul prossimo torneo di bridge. “Mi consta che fosse nemico.”
È stato abbattuto, signore,” rispose prontamente il sottufficiale, “ci ha pensato una delle nostre batterie costiere.”
Il capitano sollevò un sopracciglio con l'aria di aspettarsi la seconda metà – quella importante – della risposta. Soak deglutì.
Passò qualche secondo, durante il quale l'unico rumore che si udì fu un vago stormire di fronde agitate dalla brezza, poi l'ufficiale gli venne in aiuto: “Che ne è stato dell'elemento umano, signor Soak?”
L'elemento umano...” ripeté l'altro, con l'aria di riflettere furiosamente sul significato della locuzione, “ecco...” Infine gli si accese la lampadina: “L'equipaggio! L'equipaggio, è chiaro.” A quel punto, l'entusiasmo si esaurì come un fuoco malamente alimentato, il sottufficiale emise un sospiro. “Li stanno cercando, signore.”
Il sopracciglio si levò nuovamente, in un silenzio carico di riprovazione. Il sottufficiale incurvò appena le ampie spalle.
Signor Soak,” disse infine il capitano, “È superfluo che io le rammenti l'estrema importanza della nostra missione, non è vero?”
Perfettamente superfluo, signore,” confermò volenteroso l'altro.
L'ufficiale annuì grave. Con andatura misurata tornò alla carta nautica, che rappresentava il Mar dei Caraibi, vi fece scorrere sopra lo sguardo, quindi proseguì: “La Jolly Roger è chiamata a un compito di fondamentale importanza.” Chino sulla mappa, fissò di sottecchi il subalterno. “Un compito segreto,” gli confidò, abbassando appena la voce.
Sissignore,” fu la risposta del sottufficiale.
Il capitano si raddrizzò, di nuovo si lisciò i curatissimi baffi con gesto elegante. “Le nostre spie in Europa hanno acquisito un'arma sperimentale del Reich,” disse con aria di mistero, “e sarà compito della Jolly Roger piazzarla e renderla operativa.” Puntò il dito sulla mappa, in una posizione che sembrava perfettamente equidistante dalle coste di Nicaragua, Giamaica, Panama e Colombia, e disse: “Proprio qui.”
Il nostromo si protese a sua volta sulla mappa. La scrutò grattandosi pensoso la testa, quindi chiese: “In mezzo al mare, comandante?”
L'altro scosse il capo come se si fosse aspettato esattamente quella domanda, e la considerasse anche piuttosto sciocca. “A Ypa'u Oiyva,” rispose. “L'isola che non c'è, in lingua locale.”

§

Addossato alla parete, Pankow scrutò il corridoio in penombra che gli si apriva davanti. Diede appena di gomito al subalterno: in fondo c'era una porta chiusa, contrassegnata da un cartello su cui a caratteri cubitali e con molti punti esclamativi si vietava l'accesso a chiunque non fosse addetto ai lavori. “Roba forte,” commentò, con un brillio avido nello sguardo.
Magari c'è solo il quadro elettrico, signore,” replicò Till, ansioso invece di abbandonare l'edificio.
Macché quadro elettrico,” fu la risposta, “sono sicuro che là dentro ci sia qualcosa di interessante.”
Signore,” tentò Schelle, “non potremmo cercare di prendere quell'idrovolante ormeggiato lungo il molo? Quando siamo passati davanti alla finestra ho visto che lo stavano rifornendo.”
Ma sì, ma sì, dopo,” sussurrò Pankow sbrigativo, “ora voglio vedere cosa c'è.” Rivolse alla porta lo sguardo che un ragazzino avrebbe riservato ai regali ammucchiati sotto l'albero di Natale.
Till ebbe la tentazione di agguantare il suo superiore, metterselo in spalla e andare via così. Lo trattenne solo la certezza che quella specie di folletto si sarebbe divincolato e liberato nel breve volgere di pochi secondi. Considerando che era lui il pilota, non sarebbe stata una buona idea farselo scappare, o peggio permettere che finisse in mani nemiche. Emise un sospiro, quindi aprì la bocca per dire qualcosa, ma il rumore di passi in avvicinamento lo convinse invece a tacere. Tirandosi dietro il tenente arretrò fino al vano di una porta e da lì rimase a osservare lo svolgersi degli eventi.
Da un corridoio laterale sbucarono alcuni uomini. Il primo era un ufficiale di marina alto, elegante, che esibiva una distaccata albagia. Accanto a lui camminava un uomo più basso, con gli occhiali e i capelli brizzolati, che portava un camice bianco sull'uniforme e aveva in mano un mazzo di chiavi. Seguivano un sottufficiale grande e grosso e un paio di marinai. Tutti si stavano dirigendo verso la famosa porta col cartello.
I due si scambiarono uno sguardo.
Il gruppetto si fermò, ufficiale e militare in camice bianco confabularono un po' a bassa voce, poi il secondo infilò una chiave nella toppa e la fece girare, producendo lo scrocchiare di una pesante serratura. La porta si schiuse, rivelando uno scorcio di scaffali ingombri di oggetti.
A quel punto sopraggiunse un altro marinaio, che si mise sull'attenti e riferì qualcosa. Il gruppetto, che stava per entrare nella stanza, si mosse compatto per seguire il nuovo arrivato. L'ufficiale in camice bianco si tirò dietro la porta, ma non fece scattare la serratura. I passi si allontanarono fino a scomparire.
Io vado a vedere,” annunciò Pankow.
Oh, no,” gemette Till. “Signore, la prego, andiamocene. Là fuori c'è l'idrovolante, nessuno ci ha visti. Non si ripeterà più un'occasione del genere.”
Solo un'occhiatina,” ribatté disinvolto l'ufficiale, e senza attendere risposta si diresse risolutamente verso la porta chiusa.
Schelle si passò una mano sul volto con fare esasperato. “Signore Iddio,” sospirò. Si vide già legato a un palo, con la benda sugli occhi e l'ultima sigaretta fra le labbra.
Pankow frattanto aveva raggiunto la porta, e dopo essersi guardato intorno con l'aria di un furetto che scopre un nido incustodito, stava abbassando la maniglia.
Till si appiattì maggiormente contro il muro, l'altro scivolò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle.
Ecco fatto,” sospirò tra sé e sé il radiotelegrafista.
Rimase a fissare la porta chiusa, dalla quale non proveniva il minimo rumore. Col cazzo che entro, si disse. Non sono mica stupido, io. Arretrò di qualche passo, raggiunse una finestra che dava sull’esterno: al di là si vedeva una spianata che terminava in un molo. Ormeggiato a una bitta, un bellissimo Swordfish ondeggiava appena, spinto dal movimento dolce della risacca.

Ooh!” fece Pankow, guardandosi intorno meravigliato. La stanza sembrava una via di mezzo tra un laboratorio e un magazzino ed era piena di cose strane. Da una parte c'era un siluro mezzo smontato, con il sistema propulsivo collegato a quella che sembrava una grossa batteria da camion. Lungo le pareti c'erano scaffali su cui si trovava qualsiasi cosa, dai remi ai fari da segnalazione, passando per oggetti pieni di lenti e di antenne, di cui nemmeno immaginava la funzione. Da una parte era appoggiata una semiala verniciata di uno strano colore iridescente, che sotto la luce prendeva sfumature azzurre e violacee.
In fondo alla stanza c’era una porta aperta.
Il tenente la raggiunse e guardò dentro: c’erano un ponteggio, una fossa d’ispezione e un paranco che pendeva dal soffitto, ma tutto era immacolato, senza la più piccola traccia di sporcizia.
Su uno dei banchi da lavoro c’era una grossa sfera nera e lucida, dal diametro di circa mezzo metro, irta di aculei. Pankow la raggiunse e dapprima la fissò incuriosito, poi toccò una delle protuberanze che la ricoprivano ed essa emise un breve, sinistro ticchettio.
Il tenente si ritrasse aggrottando le sopracciglia, e così facendo urtò col piede contro un carrello che si spostò cigolando.
Abbassò lo sguardo e gli occhi gli si dilatarono per la sorpresa: sulla piattaforma mobile era posato un contenitore che aveva più o meno le dimensioni di una cassetta da vino, a tenuta stagna, contrassegnato con l’aquila del Reich.
Sul coperchio c'era la scritta in rosso GeKaDoS[1].
Merda,” mormorò tra sé e sé.
Senza staccare gli occhi dalla misteriosa cassa, come se smettendo di guardarla avesse potuto scomparire, si chiese come fosse capitata lì, e naturalmente cosa ci fosse dentro. Doveva esserci roba segreta, ovviamente. Forse armi, magari documenti. La afferrò per i manici che aveva sui lati, cercò di sollevarla: non doveva contenere lingotti d’oro, anche se di sicuro non era leggera.
Sollevò lo sguardo verso la porta, poi di nuovo lo rivolse alla cassetta. GeKaDoS: quella era roba che scottava, roba segreta. Roba che non avrebbe assolutamente dovuto trovarsi in mano agli inglesi.
Senza pensarci due volte, agguantò il contenitore per i manici e fece per correre fuori.
A quel punto, la porta che dava sul corridoio si aprì ed egli vide entrare il gruppetto che se n’era allontanato poco prima: l’ufficiale con la scopa nel culo, il tizio col camice e i tre marinai.
Senza mollare la preziosa cassa, il tenente spinse il carrello sotto uno dei tavoli da lavoro, poi saltò dentro la fossa d’ispezione e si rannicchiò nell’angolo più buio di essa.
Sentì dei passi avvicinarsi. Una voce impostata e vagamente sussiegosa chiese: “Cosa sarebbe questo oggetto?”
Una mina navale sperimentale,” rispose un’altra voce, più sollecita, col tono dello scolaro che vuole mostrare le proprie conoscenze al professore. “La Crocodile. No capitano, prego, non la tocchi: basta una pressione di qualche secondo per attivarla.”
Di nuovo la voce impostata: “Che cosa accadrebbe in tal caso?”
Beh… il suo potenziale esplosivo è enorme, potrebbe squarciare senza fatica il fianco di una corazzata.”
Interessante.”
L’apprezzamento conferì alla voce sollecita una vibrante nota di entusiasmo: “Una volta attivata, la mina scompare al di sotto della nave, posizionandosi esattamente in corrispondenza della chiglia. Nessuno si accorge della sua presenza.” Il tono si abbassò di un’ottava, facendosi cospiratorio. “Al momento buono, l’ordigno abbandona la sua posizione, riemerge e comincia a ticchettare. Se a quel punto i suoi sensori incontrano una superficie solida… Boom!”
Quale sarebbe il momento buono?” domandò la prima voce, cui la pittoresca spiegazione non aveva conferito sostanziali variazioni.
Si udì un sospiro. “È questo il problema: non siamo ancora riusciti a scoprirlo. Per ora, la Crocodile abbandona la sua posizione sotto la chiglia in maniera apparentemente casuale e...”
Una terza voce, forte, rude e arrochita da una lunga consuetudine a rum e sigari, interruppe la spiegazione: “Signore, dov’è la cassa che dobbiamo portare a bordo?”
Seguirono non meno di cinque secondi di un silenzio che aveva la connotazione della tregenda.
Pankow a quel punto immaginò il gioco di sguardi fra i tizi, e poi le occhiate che sempre più ansiose dardeggiavano in giro per la stanza.
Pensò che non ci avrebbero messo molto a cominciare a guardare in giro.
Cercò di appiattirsi maggiormente contro la parete della fossa d’ispezione, ma per quanto fosse magro, neppure lui sarebbe riuscito a nascondersi in un buco vuoto.
Sentì una goccia di sudore scendergli lungo la tempia, i pensieri cominciarono a saettargli in giro per il cranio come vespe intorno a un favo molestato.
Pensò a Till, si chiese dove fosse finito, se l’avessero già preso. Pensò alla Germania, alla Schütze che lo aspettava e – perché no – pensò anche alla sua personale pelle, cui in fin dei conti era discretamente affezionato.
Si decise in un attimo: reggendo la cassa fra le mani balzò fuori dalla fossa come un tappo di champagne e cominciò a correre verso la porta con tutta la velocità che le gambe gli consentivano.
Ci furono una cacofonia di interiezioni, un tramestio e infine passi di corsa alle sue spalle. Poi si sentì afferrare per la collottola, capitombolò all’indietro, si raddrizzò con un colpo di reni. Il tizio enorme fece per strappargli la cassa di mano, lui balzò indietro, perse l’equilibrio finendo addosso all’ufficiale azzimato, che senza un attimo di esitazione cercò di abbrancarlo.
Pankow si svincolò rapido, si fece indietro, ma il sottufficiale, spalleggiato dai due marinai, gli si stava inesorabilmente avvicinando.
Senza abbandonare la cassa indietreggiò di un altro passo, finendo a ridosso di uno dei tavoli da lavoro, proprio accanto all’incombente massa nera della mina Crocodile.
L’ufficiale gli rivolse un’occhiata di degnazione, e in un tedesco che non avrebbe sfigurato in una sessione universitaria gli disse: “Sia gentile, tenente, smetta di crearci problemi.”
Vagamente ansante, Pankow fece saettare lo sguardo dall’uno all’altro degli uomini che lo circondavano, quindi fece un sorrisetto e rispose: “Spiacente, comandante…?”
James Hook,” si presentò l’altro con sussiego.
In tal caso, spiacente, comandante Hook: creare problemi è la mia specialità.” Gli tirò addosso la cassetta con un gesto repentino, quindi cercò di schizzare via, solo per essere nuovamente acciuffato dall’erculeo sottufficiale, che subito dopo lo sollevò per la collottola come se fosse stato un gatto.
In quel momento si udirono un colpo e un grido, il sottufficiale mollò la presa e si accasciò al suolo.
Alle sue spalle comparve Schelle, con un remo in mano. “Andiamo, signor tenente!” esclamò il caporale. Qualcuno cercò di colpirlo, ma Till roteò l’improvvisata arma una seconda volta, spargendo in giro meccanismi e attrezzi, ma anche abbattendo uno dei marinai. Hook si chinò per recuperare la cassetta, ma a quel punto Pankow diede una spinta alla mina Crocodile, che cadde dal tavolo sui cui era posata, finendo direttamente sulla mano del comandante. A dispetto di tutto il suo aplomb, questi gettò un grido e lasciò andare il contenitore per stringersi al petto l’arto sanguinante. Ticchettando in modo sinistro, l’ordigno prese a rotolare adagio verso la parete.
A quella vista, il tizio col camice bianco strabuzzò gli occhi e saltò a pesce nella fossa d’ispezione.
Oh, cazzo...” cominciò Pankow, ma non riuscì nemmeno a finire la frase: un’esplosione mostruosa fece saltare il muro come se fosse stato di cartone, lo spostamento d’aria ribaltò gli scaffali con tutto il loro contenuto e spedì oggetti a spiaccicarsi contro le pareti come pillacchere di fango. Polvere e fumo invasero la stanza, da qualche parte cominciò a suonare un allarme aereo. Si sentivano delle urla, la contraerea sparò qualche colpo.
Il tenente saltò in piedi, si scrollò e individuò la cassa sotto un mucchio di detriti. La afferrò per una maniglia. “Till, ci sei?” chiamò, guardandosi intorno. C’erano sagome umane in giro, ma erano talmente coperte di polvere che non si distingueva più il colore delle uniformi. “Till?”
Un cumulo di pietrisco si sollevò con un acciottolio. “Qui, signore,” disse il radiotelegrafista.
Bene, andiamo.”
Corsero fuori. Nella confusione che regnava ovunque nessuno fece caso a loro, tanto che prima di essere notati da qualcuno erano già riusciti a togliere gli ormeggi dello Swordfish, a salire a bordo con la preziosa cassa e a iniziare la procedura di decollo.
L’elica si mise in movimento, l'aereo prese velocità sul pelo dell’acqua e s’involò noncurante, mentre a terra crepitavano salve di fucileria e i Bofors 40 cercavano di piazzare qualche colpo prima che finisse fuori tiro.
Quando si furono allontananti a sufficienza, Pankow scrollò la testa e disse: “Sono ancora mezzo rintronato, Till. quell’aggeggio era veramente potente.”
Ne abbiamo uno sotto, signore,” disse il caporale per tutta risposta.
Il tenente si voltò a fissarlo inorridito. “Tu vuoi dire che noi qui sotto abbiamo uno di quei cosi che non si sa quando possono esplodere?”
Signorsì.”
Beh, non ci tengo a trasformarmi in un fuoco d’artificio dopo tutto questo casino,” rispose Pankow. Inclinò appena l’aereo per scrutare i dintorni e individuò una nave al limitare della laguna. “Lo regaliamo a quelli là,” annunciò. Tolse motore, diede una tacca di flap e scese di quota. Quando fu quasi sul pelo dell’acqua premette il pulsante di sgancio e la minacciosa palla nera cadde giù, rimbalzò un paio di volte sulle onde, quindi si inabissò proprio accanto alla nave.
Il tenente tolse i flap e ridiede motore, lo Swordfish si alzò di quota e in breve scomparve all’orizzonte.







[1] Abbreviazione di Geheime Kommandosache, corrisponde a Top Secret








Una piccola precisazione: i nomi degli “indiani” (che qui diventano indios) che si incontreranno col progredire della storia non sono inventati, ma tradotti in una lingua ormai morta del Centroamerica che la moglie di un amico, originaria del luogo, ha la fortuna di conoscere. Aggiungo qui sotto le traduzioni:

Toro in Piedi = Vaka Ména Oñembo Ýva
Giglio tigrato = Yvoty Jaguarete
Aquila volante = Taguató Ovevéva
Isola Inesistente (che non c'è) = Ypa'u Oiyva
   
 
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