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Autore: Shadow writer    02/08/2019    2 recensioni
Qualcuno ha rubato la radio della mia auto.
Nell'abitacolo c'è silenzio, un silenzio assordante.
Il viaggio è lungo e la notte scorre, fuori dal finestrino, molto più lentamente di quanto farebbe se ci fosse della musica, qui dentro.
Stringo il volante, fisso la strada nera, riempio i polmoni di aria, li svuoto. I pensieri corrono veloci.
Il silenzio mi ricorda casa mia, quando sono solo e mia moglie non c'è. Senza i suoi passi decisi sul parquet del pavimento, senza il suo leggero canticchiare, senza il suono dell'acqua della doccia che scorre.
Silenzio.
[Storia partecipante al contest “S come Song-fic" indetto da Iamamorgenstern sul forum di EFP]
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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SOLO NEL SILENZIO
 
 





 
I have these thoughts, so often I ought
To replace that slot with what I once bought
'Cause somebody stole my car radio
And now I just sit in silence

Car radio, Twenty-one pilots
 
 
 




Qualcuno ha rubato la radio della mia auto.
Nell'abitacolo c'è silenzio, un silenzio assordante.
Il viaggio è lungo e la notte scorre, fuori dal finestrino, molto più lentamente di quanto farebbe se ci fosse della musica, qui dentro.
Stringo il volante, fisso la strada nera, riempio i polmoni di aria, li svuoto. I pensieri corrono veloci.
Il silenzio mi ricorda casa mia, quando sono solo e mia moglie non c'è. Senza i suoi passi decisi sul parquet del pavimento, senza il suo leggero canticchiare, senza il suono dell'acqua della doccia che scorre.
Silenzio. 
Come un giardino innevato ed immobile.
Comincio a contare il tempo. Arrivo fino a dodici, come Neruda, e il silenzio rimane.
La quiete è peggio di una tempesta. Il silenzio stringe, osserva, assorda, serra e riempie, colma lo spazio dell'abitacolo, permettendomi solo di alzare il petto, inspirando, e di riabbassarlo, espirando.
Una volta ho lavorato al caso della scomparsa della moglie di un istruttore di yoga. L'uomo era un esperto di Respirazione. Diceva che il 70% della disintossicazione umana passa attraverso il respiro e che respirando correttamente si mantiene la vitalità del sistema nervoso.
I miei nervi funzionano troppo. Sento tutto, ogni singolo sbuffo d'aria che entra dal finestrino non del tutto chiuso e sibila pacatamente schiaffando il mio braccio, ogni singola buca che fa sobbalzare l'auto e cigolare i sedili consunti, ogni singola goccia di pioggia che batte sul parabrezza e viene cancellata dai tergicristalli quasi fossero dita stizzite che tolgono una lacrima dal viso. Vedo tutto. Anche figura bianca in mezzo alla strada.
Schiaccio il pedale del freno e l'auto inchioda con uno stridore gracchiante. Non ci sono altri automobilisti sulla corsia e la figura che mi sembrava di aver visto, si è smaterializzata. Apro la portiera, scendo dall'auto, incurante delle gocce di pioggia, e guardo la strada, alla ricerca di quella sagoma bianca, tra l'oscurità della notte.
I coni di luce dei lampioni, rivelano che sono solo, che mi sono immaginato tutto.
Cerco di rivedere mentalmente la figura: una donna, in mezzo alla strada, con la veste candida incollata al corpo per la pioggia e gli occhi sgranati che guardavano la mia auto avvicinarsi.
È stata un'allucinazione.
Mi rimetto dietro al volante e lancio uno sguardo allo specchietto retrovisore.
Il riflesso di un paio di occhi dal sedile mi fa sobbalzare. Sono gli stessi della donna.
Mi volto e nella penombra scorgo la forma di un seggiolino, su cui è seduta una bambina silenziosa, ma non addormentata. I suoi occhi sono svegli, sgranati, e mi stanno fissando. I capelli dorati le circondano il volto delicato, come quello di una bambola di porcellana.
Non parla, è troppo piccola per poterlo fare. 
«Ti voglio bene» le dico e riprendo a guidare.
Sento lo sguardo della bambina su di me, tramite il riflesso dello specchietto retrovisore. È in silenzio, ma, come al solito, è proprio questo il problema. Il suo silenzio mi schiaccia come il peso di mille domande a cui non posso rispondere.
Continuo a guidare e la bambina si addormenta. Il sonno ha avuto la meglio e le palpebre sono calate sui suoi occhi sgranati.
Quando il sole comincia a schiarire l'orizzonte, anche la pioggia si placa, come gli incubi svanissero insieme, il buio e il temporale se ne vanno tenendosi per mano.
Le strade che percorro sono sempre più lontane dai centri abitati e poco alla volta mi ritrovo circondato dalla boscaglia.
La vista comincia ad appannarsi molto prima di quanto avessi previsto. Ho la mania di credere di avere tutto sotto controllo, ma la verità è che non dormo da giorni e credo che il mio apparato lacrimale abbia battuto il deserto dell'Atacama come luogo più secco al mondo. Sento gli occhi gonfi e doloranti.
So di non poter continuare a guidare in queste condizioni, così parcheggio l'auto a bordo della strada, prendo la bimba ancora addormentata, avvolgendola in una copertina, recupero la borsa dal bagagliaio e mi metto in cammino.
Sono circondato da alberi alti e scuri e la luce dell'alba è a malapena sufficiente per impedirmi di inciampare.
Dopo una decina di minuti di camminata, la strada asfaltata termina e devo infilarmi all'interno della boscaglia. La bimba si è svegliata, ma fatica a tenere gli occhi aperti, così alterna versi strozzati a brevi pisolini silenziosi.
Quando raggiungo la mia meta, rimango senza fiato, come se fosse la prima volta che la vedo.
La scogliera è nascosta dagli alberi, così non si rivela fino alla fine, spalancandosi in tutta la sua maestosità. Le rocce nude si tuffano nell'oceano blu punteggiato da sbuffi di schiuma candida. Il sole nascente si riflette sulla superficie scura spezzandosi in frammenti di luce, mentre il cielo sta attraversando tutte le sfumature del rosso prima di lasciarsi andare al turchino.
Anche qui c'è silenzio, ma un silenzio diverso, imperfetto, interrotto dal sibilo del vento e dallo scrosciare lontano delle onde.
Mi avvicino al bordo e, tenendo sempre in braccio la bambina, estraggo una fotografia dalla tasca dei jeans.
La porto davanti ai miei occhi, così che il cielo sia il suo sfondo. Raffigura una donna sorridente, vestita con un lungo abito bianco, ma che, a causa dell'acqua, aderisce al suo corpo come una seconda pelle. Nonostante si trovi sotto alla pioggia, il suo volto è felice.
Quando guardo la bimba che stringo tra le braccia, gli stessi occhi della donna mi fissano attraverso lei.
Bacio la bambina sulla fronte e lei ride come se la cosa la divertisse.
Prendo la borsa che tenevo nel bagagliaio ed estraggo il contenitore di metallo. L'urna è fredda al contatto e rabbrividisco.
Poi la apro e, faticosamente a causa dell'unica mano disponibile, lascio che la cenere sia strappata via dal vento.
Riesco a vedere un istante la nuvola scura prima che sparisca nell'aria e si perda tra i colori della scogliera.
«Finché morte non ci separi» mormoro, aggrappandomi alla bambina come se fosse lei a sorreggere me.
Un'ultima lacrima rimasta mi riga il volto, solitaria.
 
 
 
 
 
   
 
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