Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Kore Flavia    05/08/2019    1 recensioni
Gabriele ha un potere speciale ed è quello di vivere attraverso gli altri. Ciò che vedono gli altri lo vede anche lui e ciò che risentono gli altri lo risente anche lui. Conosce la vita di un mucchio di gente, quindi, ma ciò non viene senza sacrificare qualcosa e nel caso di Gabriele a fare da agnello sacrificale è la sua di vita. A 35 anni Gabriele si ritrova però privato di questa capacità ed è perciò costretto a vivere nel proprio corpo. Giostrarsi in un’esistenza completamente vuotata di rapporti e senza risultati degni di nota non è però così semplice. Tra suo fratello che lo odia, sua madre che lo vede come un fallimento personale, Anna che vive a centinaia di chilometri di distanza e Giulia che non l’ha mai veramente provato a capire, sua nipote Francesca è l’unica a stargli accanto.
In questo clima Gabriele si racconta e attraverso sé stesso rivela le difficoltà che le relazioni presentano e la paura onnipresente della solitudine e della propria incomunicabilità. Il tutto senza mai smettere di provare a costruirsi in quanto persona e a ritrovare quel rapporto all’altro che fino ad allora aveva rifiutato.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Quarto Ricordo

 
 
Il quarto e ultimo ricordo riguarda uno dei tanti mali del mondo, come uno dei maggiori beni di cui l’uomo possa godere. Quel fattore che fa andare avanti anche l’uomo più miserabile e la cui ricerca non è mai finita. Quell’elemento che in molti hanno cercato di catturare nella sua natura più pura racchiudendolo tra parole e musica, tra pennellate e marmo. L’ho sentito chiamare “malattia” talvolta, “maledizione” altre, e Amore più spesso. Il quarto ricordo è quello che -forse- mi ha maggiormente colpito e mi ha reso felice e triste e pieno e vuoto. Troppe sensazioni per una persona che non ha creduto di vivere che tre volte in precedenza.
Perciò, come ogni comune mortale, ho provato l’amore e sono arrivato alla conclusione che, almeno una volta nella vita, tu debba averlo provato per dire d’aver realmente vissuto. Io posso vantarmi, dunque, di aver vissuto. Vissuto davvero. Perché l’amore è un concentrato di tutto ciò che si può provare in una vita, con le sue contraddizioni e controindicazioni. E ti può andare bene come ti può andare male.
Ho visto gente morirne e ne ho vissuto la morte, ho osservato gente crogiolarsi nelle loro lettere d’amore mai spedite, ma nulla sarà mai come viverlo in prima persona. È una sensazione –e su questo metto la mano sul fuoco- che ti devasta o ti salva o tutte e due assieme, che è peggio.
Bada, però, che non credo di saperne più di nessun’altro, anzi! Penso d’avere ancora un sacco da imparare.  Nella mia esperienza da innamorato non sono stato fortunato, ma ciò non significa che la cosa abbia cambiato la mia visione dell’amore, penso ancora che sia un’esperienza magnifica.
Il quarto ricordo mi deve aver saturato, forse per questo ho deciso di smettere di vivere la mia vita e dedicarmi nuovamente a tessere quella degli altri.
 
Era una ragazza dai capelli di nuvole e gli occhi di cielo. Capitava, tuttavia, che le nubi dei capelli venissero colte da forti venti e, in questo caso, andassero ad adombrare lo sguardo azzurro. Così il colore diventava squallido e la giovane brutta. Amavo anche questo di lei: le sue brutture. Penso che sia anche questo l’amore: amare i difetti proprio perché tali, perché ti fanno infuriare, urlare, piangere, odiare e amare. Abbracciali e cullali tra le tue braccia.
Una cosa che mi aveva sorpreso di questa ragazza -non tanto speciale, né tanto normale- era il suo sorriso pieno di pianti. Non si poteva dire che il suo fosse un sorriso triste, no, lei quando sorrideva lo faceva veramente e con ogni muscolo facciale. Gli occhi scacciavano le nuvole e divenivano azzurri, un azzurro così bello e così normale. I denti erano scoperti e non perfettamente dritti, ma fieri di sé, e orgogliosi si svestivano delle labbra per mostrarsi al mondo. Il naso si arricciava ai lati e le occhiaie si mostravano trionfanti. I capelli sembravano rischiararsi, imbiondirsi per poi tornare a quel colore desolato. Il suo sorriso era svergognato: si mostrava in tutti i suoi difetti senza turbarsene minimamente. Era, però, un sorriso che non nascondeva in alcun modo le lacrime versate la notte precedente e la mattina stessa.
Trovavo fosse bella nella sua normalità.
Probabilmente era anche questo che mi aveva colpito: che fosse simile a tanti, troppi, ma uguale a nessuno. Avevo provato a vivere anche la sua vita. Ci ho provato con tutti, ma con lei tesserla pareva più complicato. Che la sua semplicità mi impedisse di creare favoleggiamenti straordinari? Ora penso di sì.
La sua perciò non riuscii a viverla. Passai nottate a chiedermi perché di questa mia incapacità e mi resi conto che anche solo nel chiedermi questo avevo ripreso a vivere la mia, di vita. Accade così, un battito di ciglia, uno schioccare di dita, e io ero di nuovo nel mio corpo, ero di nuovo nella mia mente, ero di nuovo nel mio cuore. Una mente che trovai in subbuglio e un cuore che pareva appesantito. Fu sgradevole e gradevole. Incominciarono le contraddizioni, insomma, e così incominciò il mio amore.
C’è gente che dice d’odiare l’amore. Penso che questa gente sia idiota. C’è gente che dice di averne paura. Penso che questa sia inetta. L’amore è bello e può esser distruttivo -fa parte del contratto. In fin dei conti anche la vita non è molto più che questo: bellezza e distruzione. - Personalmente mi sono innamorato del sentimento stesso prima che della ragazza a cui questo sentimento volgeva il proprio sguardo.
C’è gente che ama innamorarsi, che passa la propria vita alla ricerca di qualcuno per cui perdere la testa. Un esempio era mia sorella Giulia che, ancora oggi quando guarda la sua ragazza, si re-innamora di lei per semplice hobby. Ecco, io sono tra questo tipo di gente e penso che siano le persone che hanno capito il senso della vita. Al bando il lavoro, al bando i beni materiali, al bando le case, i letti, la cucina, al bando i giochi da tavola come quelli elettronici, al bando tutto ciò che non è amore. Vivremmo meglio, ve lo assicuro.
Spero che chi starà leggendo i pensieri di questo povero pazzo potrà perdonare tali divagazioni. L’ho detto: ho passato una vita a intrecciare i pensieri altrui e ora i miei pensieri mi sfuggono dalle mani. Non ho mai imparato a controllarli e sulla carta sembrano rincorrersi, sbattere, nascondersi, toccarsi, sembrano bambini capricciosi. Farò del mio meglio per tenerli a bada, ma devo ammettere di non essere mai stato bravo a gestire i bimbi.
La ragazza si chiamava Alice, un nome che sembrava calzarle a pennello. Perfetto per il suo viso e per il suo carattere, quasi come se i genitori già sapessero come sarebbe stata. È raro che una persona abbia un nome adatto a lei, spesso una ragazza di nome Giulia ti farà pensare ad una Francesca e un ragazzo chiamato Edoardo avrà l’espressione da Andrea.
Che guaio i nomi, spesso così sbagliati. Dovrebbero lasciare il bambino senza nome fino ai dieci anni, così ad abituarlo ad essere “io” e non “Giuseppe” e chiamarlo, quindi, come più gli si adatta. Alice, però, era il nome perfetto per lei. Ogni suo gesto riportava quel nome: le dita affusolate e piccole, le alzate degli occhi, le risate delicate e quelle sguaiate, gli sguardi innocenti e quelli maliziosi e la sua caratteristica abitudine di stringersi nelle spalle ogniqualvolta si sentiva in imbarazzo. Aveva un talento naturale nell’indossare quel nome. Io no, non ero bravo ad indossare il mio.
Ero troppo tozzo, avevo gli arti troppo corti e le loro estremità erano troppo imbranate per chiamarmi Gabriele. Per non parlare della mia faccia, l’espressione era sempre contrita, concentrata e mai rilassata, i capelli erano carbone e gli occhi fuliggine. Ero una caricatura di quel nome. Se fosse stato possibile alla domanda “come ti chiami” avrei risposto “Io, sono solo io”, ma se lo fai sembri pazzo e forse io lo sono davvero pazzo. In una società, però, la tua follia deve essere ben celata, l’ho imparato intessendo la vita della povera Viola, la vedova che abitava vicino a casa mia. Quella donna striata di bianco, pallida e malinconica, era spesso colta da forti sbalzi d’umore, capitava di udirla in piena notte urlare, piangere e cantare. Un giorno vennero a prenderla per via di numerosi richiami da parte dei vicini. Nessuno mai le si era avvicinato per parlarle, per chiederle come stesse. No, si erano limitati a chiamare e senza preavviso erano venuti a prenderla. Chissà che cosa sarebbe successo se qualcuno l’avesse avvicinata almeno una volta. Anche solo per darle un preavviso di ciò che sarebbe successo da lì a poco. Le urla di quella donna straziata dal dolore erano state portate via una mattina e non erano più tornate. Eppure risuonavano ancora nelle scale dell’immobile.
“Tutto bene?”
“No, tutto va male, malissimo.”
“Vuoi parlarne?”
“La gente non vuole sentirti parlare di cosa va male.”
“Ma tu vorresti parlarne?”
“Sì, ma nessuno lo chiede mai”
“Allora sarò io a chiedertelo. Ora però rispondi.”
“Potrei mettermi a piangere parlando, però.”
“Va bene, aspetterò che tu smetta.”
“Allora…”
Sarebbe divenuta un fiume di parole in pochi istanti, lo sapevo, io stesso ero Viola. Sarebbe stata lunga e noiosa per molti e avrebbe ammorbato gli animi di chi la stava ascoltando con i suoi dolori, le sue sofferenze.
Alice, comunque, non era mezza matta. Non come me, né come Viola. Non era marchiata dalla propria stranezza, non era pedinata dall’ombra dei propri squilibri. Era una normalissima ragazza, di ventitré anni e qualche giorno, quando la conobbi. Frequentava i corsi di psicologia. Se le si doveva attribuire una stranezza era questa: amava i folli, gli strani, quelli che tutti definiscono malati e che spesso lo sono davvero. Malati di quelle patologie che non si vedono, che si nascondono tra occhiaie e sguardi sfiniti, tra urla e pianti, quelle malattie che possono ucciderti lentamente, come un cancro. Ma, se un malato di cancro lo si compiange, un malato di questo genere è spesso incolpato del male che lo coglie. Provo una certa compassione per questa gente pregiudicata, io, che ho vissuto milioni vite e costruito mille malattie come fossero fortezze inespugnabili, posso dire che i veri menomati sono loro.
Alice era così gentile, invece, non incolpava nessuno. Non mi odiava.
Aveva uno sguardo attento e timido in quel mondo di strambi e correva da una parte all’altra tra Bianconiglio e il Cappellaio matto. Era nel suo habitat naturale. Non c’era da sorprendersi, perciò, che i suoi esami fossero visti quasi come dei regali e che conducesse una brillante carriera universitaria e, in futuro, una meravigliosa carriera lavorativa. Era delicata come una farfalla, ma era sicura come una montagna. O, almeno, lo divenne con il tempo.
Il nostro fu un normalissimo incontro che tanto stonava con la mia persona. Pensai -scioccamente, certo- che già la sua influenza si stava facendo sentire. La incontrai all’entrata dell’università, seduta al bar con un caffè tra le dita di una mano e una matita tra quelle dell’altra.
“Ehi, hai bisogno d’aiuto?”
Gli occhi azzurri si piantarono in quelli ancora offuscati d’incoscienza e fantasie che erano i miei.
Ero stato colto in fallo, ancora troppo preso dal tentativo di vivere anche la sua di vita. Dovevo averla osservata più del dovuto. Risposi:
“No, grazie, stavo solo guardando.”
Rise.
“E’ la tipica frase che si dice in un negozio, sai?” Fu la prima volta in cui la vidi ridere e la sua normalità e i suoi difetti mi stupirono.
“Già.”
“Be’, visto che non hai bisogno io vado, eh.” Aveva poggiato la tazzina sul piattino e si era stretta nelle spalle, rapida.
“Ok. Ciao.” Feci.
“Ciao.”
Si era dunque alzata, aveva scosso una mano ed era sparita, inglobata dai corridoi e dalla gente. Trovai quest’incontro tanto banale da passare nottate a cercarci qualche cosa di strano. O, almeno, questa fu la scusa che inventai per ripensarci ancora e ancora e ancora. Era come se stessi vivendo la mia prima cotta adolescenziale e la cosa non mi sembrava affatto strana, in fin dei conti ora come ora l’adolescenza dura più a lungo, giusto? Alice stessa me lo dice con gli occhi stretti in un sorriso.
Cominciai a tornare da lei.
Il nostro non fu un rapporto intimo. Fu un gioco di sguardi, non di parole. Di parole, infatti, ve ne furono veramente poche tra noi. Mi limitavo ad accennarle un saluto, a offrirle un caffè quando aveva tempo e rimanevamo prevalentemente in silenzio. Lo sguardo fisso sulla tazzina, sulla schiuma di latte, sul tavolino dalla vernice verde scrostata, sulle proprie mani o su quelle dell’altro. Poi si alzava, facendo spallucce e spostando la sedia con un cigolio, mi fissava con gli occhi pieni di un affetto tutto strano e si avviava per la propria strada con un cenno di saluto. Non una parola veniva liberata tra noi se non quelle due, tre che erano proprie di ogni incontro. Se uno dei due, poi, si azzardava a fare una domanda come “come stai?”, “come va?” o, persino, “come vanno gli esami?” l’altro rimaneva qualche istante con gli occhi sgranati prima di rispondere. Eravamo forse troppo presi da noi stessi per poter credere che l’altro potesse porgerci la propria attenzione.
Era sempre lei ad alzarsi per prima ed era sempre lei a pronunciare quelle parole di troppo.
“Come stai?”
“Bene, tu?”
“Bene, grazie.”
E talvolta lasciavo sfuggire commenti sul caffè o sul tempo, così casuali e così ben studiati e rimuginati sulla punta della lingua.
“È buono il caffè oggi, non trovi?”
“Sì, buono.” Rispondeva distrattamente, girandosi un anellino al dito. Un giorno mi disse che quell’anello era stato della nonna e che da quando era morta lei non aveva più avuto il coraggio di toglierselo. Era tutto ciò che le restava di quel volto pieno di rughe e di quelle giornate passate a giocare a carte con lei.
“Il tempo non è granché, hai l’ombrello?”
“Dovrebbe essere in borsa, sì.” Ribatteva senza ragionare sulle parole dette, pensava alla prossima lezione.
Alice era sempre in un altro mondo, tanto era distratta. Gli occhi correvano ovunque, scandagliavano il terreno, osservava i compagni di corso, poi pensava alla lezione, poi si ricordava che “oh, accidenti, è tardi!” e allora correva via, via dentro al suo mondo fantastico.
Io rimanevo seduto al bar con i miei ventisette anni a farmi da compagni. Quei ventisette anni di cui me ne sentivo addosso solo sette, forse. Chiedevo un altro caffè e un altro ancora, poi mi guardavo intorno affascinato da quell’ambiente di ansie e esami.
Alla fine mi alzavo anche io, lasciavo la mancia e mi allontanavo con le mani nelle tasche e il nome di Alice sulle spalle.
“Gabriele!” talvolta capitava che Alice uscisse in tempo dalle lezioni per raggiungermi al bar. E io mi giravo ad attenderla richiamato dalla sua voce e non dal mio nome. Se fosse stato qualcuno altro a chiamarmi l’avrei probabilmente ignorato -lo devo ammettere- e avrei pensato che “quel nome non sono io” nel farlo. Nessun altro avrebbe trotterellato per chiamare il mio nome e nessun altro avrebbe meritato i miei commenti vuoti di significato
Facevamo la strada a braccetto con il silenzio, avevamo paura di ferirlo con le nostre parole. Poi ci lasciavamo davanti alla fermata della metro e questa volta definitivamente.
Vivevo -e vivo ancora- in un monolocale ereditato dalla famiglia e potevo sostentarmi grazie ai soldi che mia madre mi mandava: ero il figlio venuto male e tutti ne eravamo coscienti. Gli zii, i miei genitori, i miei fratelli, persino io a cui questo dato era stato celato il più possibile. Era un fatto di cui avevo preso coscienza nell’arco degli anni, fino ad arrivare all’amara conclusione che in ogni famiglia vi sarà sempre un figlio venuto male. Che poi tocchi a te esserlo è un'altra questione. Io lo ero e non avevo problemi a sostenere un ruolo così semplice, non portai rancore per nessuno e avevo preso la notizia con un’alzata di spalle.
In ogni famiglia vi sarà un figlio difficile, meno intelligente degli altri e a cui, alle cene di famiglia, diranno solo “che begli occhi che hai” o commenti sporadici sul suo vestiario. Non faranno domande sulla scuola, conoscendone le risposte, sulla vita sociale, intuendone la povertà, o sulle idee politiche, sapendone la superficialità. Io tra i quattro ero quello venuto male, ma penso che i miei siano stati incredibilmente fortunati, hanno avuto solo un figlio difettoso. Un figlio “strano”, che “stia male?”.
Mamma era solita dire:
“Caro, cosa dovremmo fare con lui?”
“Amore, è solo timido.”
“Ma guardalo, non ha interessi, ci guarda senza vederci. A volte ne ho paura.”
“Stai dicendo cose terribili, Silvia!”
“Dovremmo portarlo da uno specialista?”
“Stai drammatizzando. È solo strano.”
E in ogni famiglia ci sarà uno dei famigliari che proverà in tutti i modi a negare l’evidenza, a ridurre il problema ad una parola, o a due, o a tre.
Forse avrei davvero avuto bisogno di uno specialista, ma io ero troppo preso dal mio mondo per fare questa richiesta e mia madre era troppo impegnata per portare avanti il proprio dubbio.
Non ebbi problemi ad accettare questa mia realtà. Anna era diventata una maestra dagli occhi gentili e un amore incommensurabile per i bambini, Giulia un’impiegata e lei e la sua ragazza dell’epoca erano persone splendide. Enzo, infine, si era dedicato alla propria famiglia, lasciando lavorare la moglie e preferendo prepararsi ad essere un buon padre. Mio fratello era abile con le mani -eredità di nostro padre, che mio fratello non poté rifiutare-, poteva aggiustare una qualunque cosa senza difficoltà, perciò accettava lavoretti di questo genere. Io, invece, ero un mantenuto. Un mantenuto simile ad un morto vivente, che accetta passivamente i soldi e non si adopera mai per ricavarne.
“I soldi di questo mese sono sul tuo conto.” Sbottava Silvia al telefono. Potevo sentirla passarsi una mano sul volto smunto.
“Grazie.” Rispondevo.
“Hai trovato lavoro?”
“No.”
“Non l’hai cercato, vero? Gabriele, dio santissimo, cercati un lavoro e non sederti sulla nostra fortuna.”
“Sì, ciao.”
Allora mia madre esclamava piano: “Gabriele, cazzo, hai ventiset- “
La chiamata era interrotta sempre a metà discorso, prima che la furia di quella donna disperata che era mia madre si riversasse su di me come un fiume in piena. Senza lasciare traccia.
Non sarebbe stato l’ideale per Alice vivere con me, lo devo ammettere. Non l’avrei mai potuta rendere felice. Il nostro sarebbe stato un rapporto di poche parole e molta insoddisfazione. Io, però, devo anche concedere d’essermi sentito felice in quel periodo. Sembrerà un periodo a molti squallido come il grigiore di quelle giornate d’autunno, ma per me era la scoperta dell’amore, era la riscoperta della vita, era un’avventura. Era come un salto nel vuoto.
Alice ed io stavamo l’uno accanto all’altro per un solo motivo: avevamo l’uno bisogno dell’altro. In silenzio e a distanza di sicurezza, ma vicini. Io avevo bisogno della sua normalità e lei della mia follia, eravamo come attratti da questo elemento opposto al nostro. Ci bilanciavamo e trovavamo un equilibrio che da soli non avremmo avuto, ma era ovvio che questa diversità poteva renderci solo amici. Amici, però, forse è il termine sbagliato. Mi sento sciocco in questo momento a non trovare un termine adatto a definire il nostro rapporto. Amici è riduttivo, amanti è troppo. Eravamo qualcosa, ma non sapevamo che cosa. Io l’amavo, però, quello sì. Lei no, lei aveva bisogno di me, ma non voleva che io avessi bisogno di lei. Il che non esclude che mi volesse bene -e che me ne voglia ancora, con il candore di sempre- e che non abbia mai smesso d’aver a cuore la mia felicità. Solo che, lo sapeva lei come lo sapevo io, non era lei a potermela dare.
“Siamo amici, quindi?” Un giorno mi chiese di punto in bianco, la tazzina tra le dita e lo sguardo altrove. Nel suo mondo di fantasia.
“Non credo.”
“Cosa intendi?”
“Penso che non sia il termine adatto.”
“E allora? Cosa siamo?” Si passò una mano sull’anellino della nonna, insicura.
“Siamo qualcosa.”
Rise di cuore posando il proprio sguardo su di me. Sembrava voler dire che “sì, è ovvio che siamo qualcosa, ma che cosa?”. Era una domanda senza risposta, lo sapevamo entrambi.
Ero cosciente di tutto ciò, come lo sono ora. Sapevo che nulla sarebbe potuto accadere tra di noi, a causa mia e a causa sua e a causa del mondo.
Ho vissuto la vita di molta gente rifiutata. Melissa, ad esempio, vide il suo amore frantumarsi davanti a sé e si rinchiuse in casa per diversi giorni, in compagnia dei suoi gatti. L’uomo che tanto aveva amato era andato da lei, aveva sorriso, era divenuto rosso e lei aveva creduto che quel sorriso fosse per lei e che fosse imbarazzato dalla sua di presenza. Lo credetti anch’io nella mia ingenuità, ci cascai come ci cascò Melissa che era sempre stata tanto amica con il suo amore. Edoardo ci mise poco a smentirla.
L’uomo stava guardando oltre, oltre i suoi occhi, oltre, oltre e ancora oltre. Quando parlò, però, la sua voce era lì e fu per lei, solo per lei.
“Melì, lo sai della ragazza del quinto piano? Quella bella? Ecco mi ha concesso un appuntamento. Penso di amarla, sì.” Rideva mentre lei rimaneva spezzata dal dolore, rideva senza crudeltà. Rideva imbarazzato del proprio sentimento verso quella ragazza bella. Quando ci si immagina una musica che ci faccia da sfondo nel nostro dolore l’ultima che vorremmo sentire è una risata. Men che meno quella della persona che per te era tutto. Melissa rimase interdetta. Quel rossore sulle gote non era per lei, quel sorriso neanche, quegli occhi neppure. Nulla era per lei e tutto era per quella ragazza bella. Edoardo smise di ridere vedendola sbiancare.
“Melì, stai bene? Sembri pallida come un cencio, forse dovresti sdraiarti. Dai, ti accompagno.”
Un passo indietro e un passo avanti. I riccioli di Melissa avevano perso tutto il loro calore e sedeva smunti sulle clavicole della giovane.
“Sto bene, bene, bene, benissimo, perché non dovrei?” Rise anche lei, allora. Non di gioia, ma di rassegnazione. Era così ironica e ridicola quella situazione, così imbarazzante. E lei che aveva creduto, creduto davvero. È questo che è incredibile nelle persone: continuare a credere anche nell’impossibile, anche davanti ai fatti. Cullare quel briciolo di speranza che “forse a me ci tiene, forse ci tiene davvero”, baciare quel pensiero come una mamma iperprotettiva. Non la si fa scappare quell’aspettativa, senza rendersi conto che, tenendola stretta, si verrà distrutti maggiormente. È un errore che tutti si permettono di fare, Melissa per prima e io per ultimo.
Anche lei lo sapeva di non essere amata, aveva finto che niente stesse accadendo davanti ai suoi occhi per un così lungo tempo da dimenticarsi della ragazza bella del quinto piano. Ora però se ne ricordava e così rammentava gli sguardi sfuggevoli, i saluti imbarazzati, le avance e l’amore di Edoardo.
Melissa rimase a casa per tre giorni, poi ne uscì infreddolita e pallida. Dava l’idea d’essere malata. Era uscita per fare la spesa e potersi rintanare a casa appena possibile. Trovai estremamente ironico che uscisse allo scoperto come un ratto arruffato e malato lei che aveva tanti gatti. Immaginai che una volta tornata potesse esserne divorata a causa della sua mutazione. La storia di un roditore che aveva tanti gatti non si era mai sentito, neanche nei libri più fantasiosi. Edoardo, passato un primo momento di sgomento, divenne un maestoso pavone. I colori sgargianti del volto lo rendevano incredibilmente bello, sembravano rendere più piccolo il grosso naso che trionfava solitamente vittorioso sul suo volto, illuminavano gli occhi troppo piccoli per una faccia tanto grande. Capii cosa ci vedesse Melissa in lui: una volta felice diveniva magnifico, tanto da sembrare un’altra persona e lei si era innamorata dell’idea di farlo sorridere, di essere lei la fautrice di tale trasformazione.
Lo vedevo destreggiarsi in lunghe chiacchiere con la sua bella, fare facce buffe e serie, infischiandosene dello sguardo impetuoso del vecchio cinico che era solito sedere nel nostro cortile.
E invece fu lui a trasformare lei, rendendola il fantasma di sé stessa.
Un pavone ed un ratto. Non avrebbe mai potuto funzionare.
Io feci altrettanto, seppur di esperienza ne avessi avuta tanta da capire il grave errore in cui stavo incappando. Senza rendermi conto cullai la speranza che anche solo una minima parte di lei ricambiasse il mio sentimento.  Fui io a rompere quel silenzio, quella promessa di noi, di me, di lei e del mondo. Ruppi il silenzio, come ruppi lei.
“Ehi, Alice.”
“Gabriele?” Si voltò sotto il mio richiamo, si passò una mano tra i capelli, nervosa. Si guardò attorno e poi parlò nuovamente: “Che ci fai qui? Ora ho lezione, lo sai!” Rise inquieta, la vedeva la Regina di cuori, la vedeva pronta a mozzarle la testa e la temeva.
“Posso parlarti due secondi? Ti offro un caffè.”
“Ora proprio non posso.” Aveva intuito il succo del discorso; era troppo intelligente per non comprendere, per non capire me e la mia follia. Lei che della follia aveva fatto il suo regno ora sembrava voler sfuggire alle mie parole. “Nel caso dopo le lezioni?”
Lo sapevo che dopo le lezioni non ci sarebbe stata o avrebbe inventato un’altra scusa o mi avrebbe ignorato.
“Ci metto un attimo.”
Fece un passo indietro, poi si arrestò, mi fissò, tentò un sorriso.
“Rapido.” Consentì, alzando leggermente le spalle, sperando così di nascondersi o di non sentire ciò che avevo da dire.
“Ti amo.”
Rimase immobile a fissarmi, un sorriso sciocco dipinto sulle labbra. Sperava ancora che scherzassi, io che non scherzavo mai.
Disse, toccandosi l’anulare in cerca di conforto: “Lo sai, no, di Giacomo. Te l’avevo detto di amarlo.”
“Lo so.”
“E allora perché mi dici questo?”
“Perché non amo i bugiardi.”
“Non avresti mentito, avresti omesso. È diverso, Gabriele, è diverso.”
“Ma tu, tu mi ami?”
“No.” Si passò una mano davanti al viso stravolto, pallido, brutto. Eccola la tempesta spostarsi sullo sguardo, imbruttirlo, ecco i capelli divenire squallidi, ecco la bocca piegata in una smorfia. Ed ero io la causa di tutto ciò, ero io ad aver causato tale imbruttimento, mi sentii potente e inutile. “Mi dispiace, Gabriele, ma non ti amo.”
Misi le mani in tasca, mi voltai e mi avviai. Non ricevetti quella tanto decantata stoccata al cuore, quel dolore immane a colmarmi le ossa. No, tutto ciò che provai fu rassegnazione e delusione, nulla di lacerante, nulla di devastante. Solo una lenta e tenue agonia, simile ad una spina, una spina entrata nella carne con lentezza e disinvoltura. Un fastidio che, se si premeva troppo, diveniva dolore. Io però non avevo pinzette per levarmela. Non ne avevo ora e forse non le avrei mai avute.
Non mi chiamò, non mi rincorse, non fece nulla. La sentii ferma a dieci metri di distanza, ora undici, ora tredici e poi venti. Lei rimaneva fissa dove l’avevo lasciata, potevo sentire il rumore della sua immobilità, del suo respiro instabile come la mia salute mentale. Si scordò della lezione e si avviò verso il bar dell’università lenta e a piccoli passi. Tra i due, ad aver ricevuto la tanto decantata stoccata fu lei.
Si sedette, prese il suo caffè e la sua testa venne mozzata dalla regina di cuori. Entrai nella sua testa per la prima volta, ci riuscii, finalmente, e ci trovai un arazzo vuoto e disordinato. E, per questo, l’amai un poco di più.
Presi posto sulla metro, partì, sfrecciammo a lungo tra le gallerie, non feci caso alle fermate, alle persone, al tempo. Sentivo già gli arti intorpidirsi, cominciai a perdere la vista. Stavo per divenire di nuovo un involucro vuoto, un automa, un corpo senza anima. Un’anziana signora si sporse su di me. Le rughe che perdevano forma, lo sguardo della donna sfocato.
“Scusi, giovine, potrei sedermi?”
Fu l’ultima cosa che sentii, poi sparii nuovamente alla ricerca delle menti altrui.
 
Ed ora sono qui, a trentacinque anni, davanti ad una tastiera a raccontare tutto ciò. È da un anno oramai che ho ripreso a vivere la mia di vita ed è un anno che non riesco a rientrare nel mio solito stato d’incoscienza.  
Tornai in me, sacrificando il mio immaginario per il mondo reale solo per scoprire che essere un pavone normale era oramai divenuto impossibile.
Ci ho provato, ci ho provato davvero. Ho stretto i denti, ho osservato i colori degli altri e ho provato ad emularli, ma non ce l’ho fatta. Non ce la farò, lo so. Sono accadute un sacco di cose durante questo anno, troppe per ricordarle così, in ordine, alla perfezione, ma ci proverò. Proverò a parlarne il meglio possibile. Così da lasciare traccia, così da lasciarla ad Anna e a Giulia e, chissà, anche ad Alice, ma, soprattutto, per lasciare una traccia a te, Francesca. Riporterò delle date messe così, alla bell’e meglio, sperando nella loro veridicità e nella loro cronologia.
Non potrò mai diventare un pavone comune, ma, perlomeno, sono riuscito a raccogliere i pezzi della mia vita. Ho vissuto come un pavone bianco.

 


 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Kore Flavia