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Autore: Makil_    13/08/2019    4 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Icaldo era uno dei tanti abitanti di Ockswert, forse il più assiduo in quel focolare settentrionale.
Erano passate esattamente due settimane dal giorno in cui Bartimore e i suoi compagni erano stati definitivamente scarcerati per ordine diretto del castellano Bennor. Se c’era una cosa di cui si sarebbero potuti vantare finalmente era di essere stati in grado di smussare la caparbietà del Falso Esperto, un uomo che aveva testardaggine da vendere, e di essere tornati a respirare l’aria pulita e riscaldata dalla luce del sole. Benché quelle mura fossero estranee a ser Bartimore di Fondocupo, e quel sole fosse fin troppo luminoso, il cavaliere dai poco nobili natali non aveva impiegato molto tempo per abituarsi ai ritmi di tutti coloro che lo circondavano ormai. Quelli che erano stati freddi inquisitori, divennero presto gli unici membri rispettabili di un regno cittadino molto ristretto. La cerchia degli amici si ridusse fino ad inglobare al suo interno anche coloro che, fino ad allora, erano stati poco più che nemici.
«Nemici o amici, non c’è alcuna differenza. Mai evitare di dubitare, mai fingere di conoscere fin troppo bene qualcuno. Mai farsi pugnalare alle spalle dai nemici, men che meno da coloro che dicono di esserci amici. Spesso i vicini ci sono tali solo per farci del male». Queste erano le parole di un Dalton Kordrum nel pieno della sua potenza regnante, forse pervaso da un’insicurezza immatura dettata dall’instabilità del potere. «È una dura legge questa, ma più duro è il colpo di colui che si crede esserci amico.»
Bartimore stava percorrendo una delle sale del castellaccio di Ockswert alla ricerca di ser Dalwar. Doveva consegnargli la daga che il fabbro Wart gli aveva fabbricato su suo ordine. Il giorno dopo la scarcerazione, Bennor Falso Esperto si era preso l’impegno di cercare un cerusico tra gli sparuti abitanti di Ockswert, andandone a scovare uno personalmente tra la sua gente. Il borgo cittadino non aveva a disposizione un incantatore, dato che questi si era rivelato essere conteso nel conflitto con la Signora dei Merletti e, in quel momento, avevo deciso di prendere posizione accanto al trono di Giardino Fiorito. Una scelta saggia sotto certi aspetti e conveniente sotto molti altri ancora.
Il cerusico – un ometto più basso di Steffon, con una capigliatura scura e una barbetta brizzolata – aveva immediatamente dato ordine di portargli una serie di materiali essenziali per le cure di cui i quattro prigionieri necessitavano. Patres Steffon ricevette cure lungo tutto il torace, due punti di sutura ad una ferita infetta sull’addome che gli fu medicata con cura dalle mani esperte dello speziale.
Per ser Mark la cura fu un po’ diversa. Ciò che il cerusico gli ordinò fu di evitare gli sforzi fisici, affinché le ferite che stavano iniziando a rimarginarsi non finissero per tornare a sanguinare. Si accorse che Mark aveva perso grandi quantità di sangue a causa del taglio all’addome, e non gli garantì un soggiorno lungo dentro le mura di quella cittadina. Gli disse anche che era stato molto fortunato. Se Steffon non avesse provato a cucire il lungo taglio inflittogli da Lemmon Cappa Rossa, probabilmente sarebbe morto per un copioso sanguinamento. Il cerusico si occupò anche della sua infezione al buco che ormai aveva al posto di quell’orecchio che gli era stato reciso da Dentigialli. La ferita, chiaramente, aveva sviluppato un malsano colorito giallognolo che l’ometto sapiente dovette ripulire e fasciare con delle bende color sabbia.
A ser Dayn furono riservati degli impacchi di salvia e succo di fico prelevato nelle vicine serre della cittadina. A detta del cerusico, Dayn era quello con meno ferite del gruppo, nonostante si fosse ammalato di febbre a causa di un’infezione alterata dalla paura e dallo sconforto. Ser Dayn era fuggito nel pieno della battaglia, su ordine di Steffon, ed era andato ad occuparsi del carro e dei cavalli per la fuga. Quella ritirata, probabilmente, era stata la sua salvezza sul campo di Roshby.
Infine fu il turno di Bartimore, che fu ricevuto in una piccola saletta adiacente all’anticamera posizionata dietro lo scranno regale. Tutto ciò che c’era in quel camerino non era altro che un letto di paglia, una scrivania di legno massiccio e scuro, due finestrelle e una libreria vecchia e polverosa. Il cerusico gli medicò i tagli sul braccio e le ferite sulle gambe.
«Non posso rimetterti in sesto i denti, cavaliere. Temo che quelli siano perduti definitivamente.»
«Quanti ne sono saltati?» aveva chiesto Bart.
«Due o tre, se vedo bene… ma contarli non li farà tornare in bocca.»
Poi gli riservò una lunga medicazione al foro sul polpaccio, là dove un dardo di balestra si era conficcato durante lo scontro a Roshby. Dopo aver tolto le bende di fasciatura lasciate dalle cure inesperte di Steffon, il cerusico aggrottò la fronte.
«Deve essere stato crudele, quel giorno a Roshby.»
«Lo è stato.»
«I buchi e le ferite del vostro corpo appartengono anche a me, in verità… nel cuore. C’era mio figlio laggiù. Giocava per partecipare, non per vincere… e cavalcava un palafreno ghiotto di carote. Potresti averlo conosciuto. Non aveva nemici, che io sappia.»
«In pochi ne avevano. È morto anche lui?» chiese Bart. Gli occhi del cerusico si fecero scurissimi e divennero presto umidi, colmi di lacrime che non caddero mai. Non in quella stanza, almeno.
«Temo proprio di sì, giovane. Il mio giovane Dott… ser Dott non è ancora tornato a casa. Se è caduto, lo avrà fatto con onore. Ma lui non lo meritava. Nessuno lo meritava». Lo speziale iniziò a passare un panno bagnato di un fluido violaceo sul punto in cui il dardo si era fatto strada nella carne di Bart. La medicazione bruciò un po’ nei primi secondi, quel che bastava per far stringere i denti al giovane ser e convincerlo che stesse funzionando nel migliore dei modi.
«C’è fin troppa purulenza.»
Bartimore tentò di guardarsi il polpaccio, ma non vi riuscì poiché disteso sul lettino. «Patres Steffon mi aveva detto di aver fatto in modo che non si infettasse. Sei sicuro che arrivi dalla ferita al polpaccio?»
«Oh no, non intendo su questa tua ferita. Forse sto divagando fino a confonderti, ser, ma è tipico di un padre, di un nonno… di un uomo. Intendo nel mondo… in questa generazione… in questi anni… l’infezione è incurabile e neppure io riesco a capire cosa dovremmo fare per guarire tutti dalla guerra. Perché tutto questo odio? La violenza ci sta consumando e noi non siamo in grado di sottrarci alla sua presa. Cosa dobbiamo fare noi?»
«Nulla». Bartimore si alzò non appena intuì che il trattamento era stato concluso. Non aveva voglia di parlare dell’ingiustizia della guerra né tanto meno della cattiveria di quei giorni. «Passerà anche questa guerra, proprio come le stagioni nel mondo. Dicono che anche dopo il più scuro tramonto ci sia l’alba.»
«Ma se quest’alba tarda a giungere» concluse il cerusico gettando sulla scrivania la pezzuola imbevuta del liquido viola. «Allora gli uomini soffrono le tenebre e l’assenza della luce… fino a morire.»
Dopo quel giorno, il polpaccio aveva preso a dolergli sempre meno, ma il buco non si era risanato mai veramente del tutto.
La sala in cui andò a cercare ser Dalwar era la stessa in cui tenevano i loro allenamenti pomeridiani. Il ser dalle guance gonfie e i farsetti scoloriti si era rivelato presto un ottimo avversario e un degno maestro. Duellare con ser Dalwar riportava Bartimore indietro con la memoria, presso i giorni in cui si allenava fino allo sfinimento con il suo signore padre Dalton. In quei giorni Bart era molto più giovane, ancora più magro e rinsecchito, e non conosceva che il piacere di vivere in una roccaforte, di essere servito, di avere degli amici, di gioire delle sole grandi cose della vita e di possedere un cognome da nobile. Ora, tutto quello che prima gli era parso essere un lusso, gli appariva così distante e così poco chiaro da fargli venire il voltastomaco.
Il grande stanzone dedicato all’allenamento del piccolo contingente Wargrave era stato allestito da ser Dalwar in modo da ricreare una sorta di arena in cui potersi dedicare in pieno all’esercizio fisico. Lungo il pavimento correvano file e file di uomini di paglia e seta, martoriati e tagliuzzati da un’evidente serie di percosse con la lama. C’erano tanti manichini quante erano le finestre nel grande androne. E proprio vicino ad uno di questi, alla buon’ora per l’allenamento sfiancante e faticoso, c’era ser Dalwar.
L’alba, con i suoi lucenti raggi solari, doveva averlo destato prima di ogni altro uomo al fortino. Gli occhi scuri del ser e le sue due foltissime sopracciglia gli si puntarono contro quando lo videro entrare.
«Già pronto per l’addestramento?» gli chiese vedendolo avvicinarsi. «Temo di non esserlo io, però, ser Bartimore.»
«Non sono qui per allenarmi. Ti ho portato la daga che mi avevi chiesto di farti fabbricare l’altro giorno.»
Bartimore estrasse l’arma dalla sacca di iuta che gli era stata consegnata dal fabbro e la lasciò cadere tra le mani del cavaliere. Ser Dalwar fece scivolar via la copertura di cuoio che l’avvolgeva e lasciò che la finissima lama rischiarisse al contatto con sole.
«È un’ottima daga, non trovi?». Ser Dalwar l’afferrò con la sinistra e fece scorrere l’indice calloso sul filo dell’arma. «Poco tagliente, però. Ma non è mai un problema irrisolvibile.»
«Forse bisognerà passarvi un po’ la cote su.» tentò Bartimore.
«No, non servirà. La utilizzeremo per i nostri allenamenti corpo a corpo. E almeno che non vorrai farci rimanere vittima qualcuno, credo sia meglio non smussarla ulteriormente.»
Bartimore lo fissò a lungo prima di parlare. «Posso fare altro per te, Dalwar?»
«Per il momento non ho altro da farti fare, in verità». Gli rivolse una piccola occhiata che sembrò voler chiudere la conversazione con qualcosa di non detto. Poi, abbassò lo sguardo e arrotolò la daga all’interno del tessuto con cui Bartimore l’aveva trasportata. Infine, lo congedò dalla sala con un gesto della mano sinistra.
Il terzo giorno della seconda settimana dopo la scarcerazione fu un ben diverso dagli altri che lo precedettero.
Erano passate appena poche ore da un’alba tutt’altro ristoratrice, quando un emissario frettoloso e rubicondo in volto giunse a chiamare nella loro stanza i quattro compagni. Il suo arrivo fu annunciato dal rumore di uomini in corsa, che finì col presentare, invece, un solo ragazzetto imberbe dinanzi alla porta.
«Miei signori». Il giovane, vestito di un farsetto molto elegante e una mantella porpora alle spalle, tentò di prendere fiato appoggiandosi con entrambe le mani all’infisso di legno. Per poco non mancò di svenire sull’uscio. «Ser Dalwar e ser Henry mi hanno mandato a chiamarvi. Vogliono che scendiate giù, all’ingresso… adesso
Ser Mark si levò dal suo sonnecchiare. Gli occhi infervorati e rossi per il sonno perduto. «Per quale ragione, ragazzetto?»
«Il castellano sta partendo, miei signori… e voleva vedervi un’ultima volta.»
A quel punto fu patres Steffon a prendere parola, messosi seduto sul suo letto di piume e riallacciatosi un vecchio indumento logoro sulle spalle. «Il tempo di svegliarci e saremo da lui.»
«Avrà sentito la mancanza delle nostre guance» commentò Bartimore.
Quella stessa mattina non ci fu un momento per dedicarsi ai propri bisogni fisiologici o alla cura del proprio aspetto. Con la stessa barbara forza con cui furono svegliati dal rumore di passi nervosi, furono gettati giù dai loro letti e poi costretti a seguire l’emissario lungo le poche scale della rocca fin proprio all’ingresso che dava sulla sala del trono di Ockswert.
Un piccolo gruppo di soldati in armatura di cuoio con spada alla cintola e daghe sul fianco stava accerchiando un uomo dai lineamenti raggrinziti e biancastri. Tra loro spiccavano, per possanza, aspetto e altezza, ser Dalwar, ser Henry e ser Walifer.
Quando il coacervo di uomini vide arrivare ser Mark, ser Bart, ser Dayn e Steffon, si spostò affinché loro potessero salutare Bennor Falso Esperto, che per quell’occasione aveva indossato una veste in sintonia con i colori chiari che lo contraddistinguevano e dalle maniche a sbuffo rigonfie sui gomiti. Bennor aveva un’aria solare e leggiadra che Bartimore non aveva mai scorto prima d’allora nei suoi lineamenti. Il candore delle sue goti era adesso lo stesso che adesso si poteva avvistare nei suoi occhi.
Il castellano si trovava in piedi sopra ad un carretto con due grandi ruote per lato, una mula storna con un paio di funi per redini. Sul barroccio erano stati caricati dei bagagli scuri e qualche cesta.
Quando il Falso Esperto si rese conto della loro presenza, fece un profondo inchino nella loro direzione ed esclamò: «Maledizione, cavalieri. Il vostro gusto nel vestire è pessimo: siete proprio come tutti i nostri cavalieri votati. Ormai fate parte di Ockswert e della nostra famigliola allo stesso modo con cui ogni pietra di questa dannata cittadina fa parte del suo stesso regno.»
Nessuno rispose a quella sua uscita, né con un cenno, né con una sola parola.
«Volevo solo salutarvi, cavalieri». Bennor sorrise calorosamente. Evidentemente scosso e nervoso, il castellano si passò una mano sulla fronte madida di sudori. «E volevo anche lasciarvi come un amico, non come un nemico.»
“Non ha mai chinato tanto il capo. Servirebbe anche a lui un paio di schiaffi su quel viso pallido”. Bartimore lo fissò il più a lungo possibile, nell’attesa che potesse trovare qualcos’altro da dire: scuse, che non arrivarono mai dalle sue labbra, sarebbero sicuramente state ben accette.
Bennor si lisciò gli abiti con le mani e tentò nuovamente di sorridere. «Ecco, diciamo che volevo anche lasciarvi con delle scuse per un comportamento affatto adeguato al mio ruolo. Pregherò per redimermi… ma voi porterete appresso a lungo i segni delle mie cinque, tozze dita». Non appena notò assenza di cenni da parte dei suoi interlocutori, proseguì dicendo: «Arrivederci, uomini.»
A quel punto fu Steffon a parlare a nome di tutti. L’uomo che un tempo era stato un esperto, si fece impettito e parlò con una pacatezza e una freddezza propria del vecchio lui. «Un addio, patres Bennor… il nostro è un addio. Questa è l’unica gioia che possiamo avere il privilegio di gustare.»
Bennor lo guardò torvo per un paio di secondi, poi capì di doversi sbrigare. Il sole era ormai sorto, e lui avrebbe dovuto imboccare la Strada dei Garofani ben prima del mezzogiorno. «Addio, dici? Be’, un tipo di saluto che può facilmente aprirsi a numerose interpretazioni. Mi auguro che la vostra sia anche la più generosa. Addio, allora.»
Voltatosi di spalle, il nuovo patres sedette sul barroccio, impugnò le redini della sua cavalcatura e spronò la mula a procedere verso l’esterno del palazzo. Passo dopo passo, accompagnato dallo scalpiccìo delicato degli zoccoli della mula a contatto con i sassi del viale, Bennor si allontanò fino a scomparire dalla loro vista e, molto più tardi, anche dalla loro memoria.
Ma il più iconico dei giorni fu il quinto della stessa settimana in cui avvenne la partenza del castellano.
Ser Bartimore e ser Dalwar si stavano aggirando per i viottoli stretti e senza uscita di Ockswert, alla ricerca dello stalliere che si era preso l’impegno di rifornire il palazzo Wargrave di una decina di cavalcature fresche e giovani. Il sole splendeva tra le nuvole con la sua solita intensità, ma qualcosa nell’aria, come una sorta di strano eco lontano, conferiva a quel cielo un’atmosfera poco confortante.
«Vuota» fece ser Dalwar mettendosi in punta di piedi per scorgere qualcosa al termine della breve stradicciola. «E pare anche chiusa.»
Bartimore lo guardò con fare curioso.
«La stalla, intendo». Ser Dalwar tentò un’altra volta di allungare lo sguardo. «Lo stalliere non ha ancora fatto ritorno.»
«Dov’è andato?» chiese Bartimore. “I cavalli non crescono dalla terra e non cadano dal cielo, ser Dalwar.” avrebbe volentieri detto, ma lo tenne gelosamente per sé.
«Mi aveva detto che non si sarebbe spinto più giù di Porwyck, massimo Brektyde» rispose ser Dalwar evidentemente stranito. «Ma sono già passate quattro settimane da quando l’ho visto uscire da quella porta. Ho paura che lui possa averci tradito.»
“Tradito? Per un paio di cavalli da battaglia dal manto pulito ed odorante?”. Bartimore tentò di non apparire divertito.  C’era comunque qualcosa in ser Dalwar che Bart non comprendeva: il ser era spesso contradditorio e sempre molto strano nei suoi modi di fare. «E se fosse morto? Fuori da questo posto, la Guerra Grigia infuria senza alcun freno.»
Ser Dalwar scosse tre volte il capo, ostinato. «Qui al Nord arriva tutto troppo tardi: i messaggi, gli emissari, i venti e persino le leggi. E la guerra non viene meno a questa massima. Quando i signori del sud avranno smesso di acciuffarsi nelle loro fredde sedi, allora toccherà a noi darci da fare. Ma, fino a quel giorno, che ipotizzo essere molto distante, possiamo dormire sonni tranquilli.»
“Ben più che tranquilli, certo. E voi apprezzate il vostro dono scannandovi per una disputa tra amanti che non vi riguarda”. Bartimore avvertì per primo il rumore di passi in rapida avanzata. Ancora prima che la figura in corsa di palesasse tra lui e ser Dalwar, il suo respiro affannato e l’acre olezzo del suo sudore lo precedettero dinanzi al vicolo.
Zacharias, il custode della porta di Ockswert, dovette appoggiarsi al pomolo del portone di un’abitazione per non cadere per terra morto e umido come un pulcino immerso in un fiume. I lunghi capelli color cenere e il volto caldo e scottato dal sole stavano lacrimando copiose quantità di sudore, mentre i suoi occhi, arrossati e pieni di venuzze scoppiate, si accingevano a colorarsi di un rosso insano.
«Per tutti i cieli!» sbraitò ser Dalwar accorrendo ad aiutare il povero custode. «Zacharias, vecchio ingrato, cosa ti è preso?»
«Ca… ca… ca…» tra un affannoso sospiro e l’altro, Zacharias tentò di rimettersi in piedi e di concludere ciò che le sue labbra desideravano sputare fuori. «Ca…»
«Non essere volgare, Zacharias» sbottò Dalwar.
«Ser… ca…»
«Cani?» tentò ser Dalwar. Il cavaliere compì un gesto che a Bart non passò inosservato: posare la destra sull’elsa della spada. Ci fu qualcosa nel modo in cui lo fece, nella particolare velocità con cui si apprestò ad impugnare l’acciaio, che riportò Bart tra il fango e il sangue del tenebroso torneo di Roshby. «Cavalli?»
«Cavalli!». Zacharias prese ad annuire col capo. «Truppe in marcia verso Ockswert. Dodici cavalli marroni, uno bianco e nessuno stendardo.»
«A quale distanza?»
«Circa un’ora e mezza dalle nostre mura». Zacharias prese più aria di un uomo che stava per immergersi in uno stagno. «Arrivano da sud-est, ser Dalwar, e procedono con una certa fretta.»
Ser Dalwar sgranò gli occhi. «Nemici della corona? La Signora dei Merletti vuole tenderci un assedio con dieci cavalli?»
«Dodici cavalli, per l’esattezza». L’intensità del respiro di Zacharias rischiò di farlo soffocare da un momento all’altro. Tentò di tossire mentre si teneva ritto contro la parete scabra. «Dodici cavalli e tre carri grigi scuri. L’uno posto dinanzi all’altro e tutti preceduti da un’unica grande carrozza marrone e gialla, dai tendaggi rossi come il fuoco. Nessun uomo in retroguardia. Un’unica colonna, ser Dalwar, che va veloce.»
Il ser in questione si morse il labbro. Un enorme sorriso si concretizzò sulle sue labbra, a prova che avesse realizzato qualcosa di cui gli altri due non erano a conoscenza. «Vecchio ingrato!» vociò enormemente rilassato. Lasciò la presa dall’elsa e la spada prese a vibrare nel fodero. «Va’ a dare l’allarme, va’ a gridare a gran voce di spingersi tutti in piazza… e va’ a spalancare le porte di questa cittadina». Ser Dalwar trattenne un brivido di eccitazione. «Non è la Signora dei Merletti che stiamo per far entrare.»
Circa un’ora più tardi, si ritrovarono immersi nel bailamme del poco popolino di cui Ockswert disponeva. Un bel gruppo di uomini, donne e bambini si stava accalcando davanti agli usci delle case. La grande via principale di Ockswert, quella che conduceva al palazzo, era completamente libera, in attesa del passaggio di Roscart Wargrave e di tutte le sue poche truppe in arme e delle sue vettovaglie. Il popolino erano dannatamente caotico: non riusciva stare un secondo in silenzio. Urla e pianti di bambini si levavano ad ogni rintocco di una campana, vocii striduli di donne si facevano spazio tra i corpi ammassati contro gli usci delle case e le voci frastornate degli uomini suonavano forti nell’insieme. Tutto quel pubblico attendeva con ansia, fremeva per l’evento e si perdeva in inutili ovazioni attraverso un solo tono: un’unica grande voce.
La strada principale si era trasformata in un ruscello di ciottoli: ai lati del percorso, gremiti di popolino, cavalieri, fabbri e falegnami, il caos di uomini sembrava ergersi a formare i due argini di un fiume in piena.
Bartimore, ser Dalwar e ser Mark avevano preso posto sulla sponda sinistra, proprio sotto ad una balconata in pendenza verso la strada, dalla quale si sporgeva una donna intenta ad allattare un neonato – probabilmente l’unico astante silenzioso – al suo seno.
Il suono dello strombettio di un araldo precedette l’ingresso teatrale di Roscart Wargrave, mentre gli echi del suo strumento a fiato si disperdevano tra le mura delle abitazioni, incastrandosi via via in mezzo ai corpi dei tanti spettatori, ma senza riuscire in alcun modo a quietarli. L’eccitazione e la tensione erano, allo stesso modo e allo stesso momento, palpabili ed evidenti sul viso di grandi e piccini.
«Sua altezza Roscart della casa Wargrave» annunciò l’esile araldo correndo per la via. «Onorevole e legittimo signore di Giardino Fiorito e di ogni suo altro possedimento». Lo squillo della tromba rintronò nell’aria. «Urlate al vincitore di Roshby!»
La folla esplose in un immenso baccano. Urla su urla, voci che contrastavano altre voci, mentre lo squillo della tromba annunciatrice veniva schiacciato definitivamente dal peso di centinaia di timbri più forti.
Un ultimo strombettio accolse la carrozza reale di Roscart Wargrave. Mentre il barroccio scorreva nel fiume di ciottoli, i due argini si spalancarono per consentirgli di muoversi più rapidamente. I cavalli che trainavano la carrozza presero a scuotere i loro capiti, indispettiti ed innervositi come non mai. Nei volti di quei due stalloni Bar riconobbe la stanchezza dovuta ad una lunga marcia.
«Vincitore di Roshby?» chiese Bartimore a ser Mark. Non ricordava di aver visto Roscart Wargrave a Roshby, e non poteva esserci finito dal momento che aveva avuto un’altra guerra da combattere: la sua.
Il cavaliere avvertì il suo commento solo in ritardo.
«Ser Bart». Mark non distolse lo sguardo dalla carrozza. «Abbiamo subito talmente tante violenze e sentito così tante bugie che ormai nulla mi suona più strano. Il popolo è facilmente ingannabile, dovresti saperlo… e noi siamo il popolo di Ockswert da ormai molto tempo.»
La carrozza continuava a muoversi, le quattro ruote di legno che vorticavano sulla strada, mentre cascate di rose rosse e bianche precipitavano come pioggia da ogni balcone della via. Cesti di petali, ruscelli di riso e di semi di piante precipitarono copiosamente da ogni balconata che si affacciava sulla strada, inondando il viale del fresco profumo dei fiori appena colti.
“Per tutte le Grazie” pensò Bartimore. Un petalo bianco gli cadde proprio sul naso, prima di essere trascinato via da un sospiro di vento. “Lo accolgono come fosse un dio”.
«Viva, viva!» urlava la voce del popolo. «Lunga vita a Roscart della casa Wargrave! Lunga vita, lunga vita!»
Il carro dalle modeste dimensioni di Roscart Wargrave avanzava sempre più velocemente. Sembrava che la stessa carrozza avesse preso vita e stesse cercando di sottrarsi a tutta quella confusione e a tutte quelle rose. Ornata di rifiniture color oro, altre gialle e splendenti come il sole d’Estate, lunghi tendaggi porpora ed altri rossi come il sangue pulsante, la carrozza sembrava essere vuota. Le due finestrelle erano sbarrate, le cortine chiuse e all’interno pareva pulsasse un’oscurità opprimente. Bart si chiese se veramente fosse la carrozza di Roscart Wargrave.
Ser Dalwar estrasse la spada dal fodero e la puntò al cielo. Urlò. «Quello è un prigioniero! Zampino della disgraziata vecchia di Giardino Fiorito?»
La cascata di petali rosati e profumati come il dolce effluvio di una donna cessò di esistere da un momento all’altro. Presto, a cadere dai balconi furono fiotti e fiotti di pomodori marci, frutta secca e sassi dalle dimensioni di un pugno. Dietro alla carrozza regale, vincolato con una fune ad un uncino sul retro del barroccio, un uomo dai lineamenti ossuti, i capelli lunghi e biondi, i baffi smorti color oro, scoloriti e sfibrati, si stava dando da fare per reggersi in piedi nel migliore dei modi. Bartimore aveva già visto quell’uomo, ma non ricordava bene dove. C’era qualcosa di famigliare nel suo volto: un’espressione difficilmente dimenticabile, che gli faceva contorcere le labbra e, molto più nel profondo, le viscere.
Il prigioniero caracollò all’indietro, fu respinto in avanti dalla forza della fune tesa a partire dai suoi polsi, e infine cadde miseramente sul lato sinistro. Non ebbe il tempo di rimettersi in piedi, che la fune lo trascinò di forza facendolo strisciare di fianco sul pavimento acciottolato. Una scia si sangue ricoprì ben presto il tratto su cui scorse, ma egli non emise neppure un grugnito di dolore. Forse i suoi lamenti erano inghiottiti dal caos della folla, o forse era stato sfiancato a tal punto da essere divenuto di colpo muto.
Quell’uomo vestiva di un semplice straccio grigio rattoppato. Sembrava un devoto, data la somiglianza di quella veste con un saio scolorito e malandato, ma il suo volto continuava ad assumere forma ed aspetto di un viso nemico, tutt’altro che benevolo. Bartimore tentava di sforzarsi di ricordare chi fosse, quando, all’improvviso, una voce accorse in suo aiuto. Si accorse di non provar pena per la sua condizione.
E ben presto capì anche il motivo.
Lo strombettio dell’araldo esile sormontò le voci, il fracasso dei sassi in caduta e dei pomodori marci. «Accorrete, accorrete!». L’esile figuro posò al suo fianco la tromba. «Il vincitore ed il perdente. Acclamate Roscart Wargrave, disintegrate il suo nemico. Ogni gioco ha un solo ed unico vittorioso… e quell’uomo è Roscart Wargrave! Largo onore, lunga vita! Viva, viva il grandioso Wargrave!»
La folla urlò, si esibì in un complesso boato caotico e in un’esplosione di mille voci colorate dalle diverse intensità. «Al rogo! Impiccatelo! Massacratelo! Abbasso il traditore, viva la corona!»
L’araldo suonò un’altra volta la sua tromba. «Date accoglienza al castellano di Roshby, cospiratore infedele, nemico del reame, traditore della legge accademica, mostro della Valle del Vespro. Date accoglienza al prigioniero, al becero animale che striscia per terra, colui che ha tramato nell’ombra per ridare luce alla Guerra Grigia!». La tromba continuava a squillare tra i lamenti del popolo e le urla in visibilio degli uomini infervorati che a malapena sapevano contro chi stessero urlando.
«Gloria eterna al nostro signore! Una coppa di vino! Onore e gloria! Per Wargrave!»
«Wargrave! Wargrave!». La gente si lanciava addosso ad altra gente, accalcandosi per guardare e per lanciare ciò che aveva tra le mani sperando che il colpo andasse a segno.
«Abbasso i nemici della corona! Impiccatelo! Bruciatelo vivo!»
Bartimore si sentì accrescere un’incontrollabile furia ferina. I suoi occhi si colorarono di rosso, mentre la sua pelle iniziava ad ardere come fosse stata immersa in una pira in fiamme. Aveva capito: adesso ricordava chi fosse quell’essere spregevole dai lineamenti rovinati e sciupati, a dir poco irriconoscibili da quella distanza.
Si rivolse a ser Mark. «Lui… lui…»
L’araldo si lasciò sfuggire un suono più lungo del normale, rozzo: la sua tromba parve sghignazzare di quel prigioniero asciutto e deperito, avvolgendolo nel suo suono rintronante fino a che tutti non scoppiarono a ridere di lui e della sua incapacità di rimettersi in piedi nello scivolare sul suo stesso sangue.
«Wolbert Dorran» commentò a denti stretti ser Mark. «Un morto che cammina. E se cammina ancora, deve anche ringraziare il cielo: temo che qualcuno di estremamente grande lo protegga dall’alto.»
“Non sarà così ancora per molto. Il leone ha perso la sua criniera”. Bartimore intrecciò le braccia sul petto e puntò lo sguardo verso il morente castellano di Roshby, o ciò che rimaneva della sua esile figura. “Adesso ho proprio voglia di sentire il suo ruggito.”
«L’erba cattiva difficilmente può essere estirpata». Ser Mark ghignò. «Ma qui al Nord vivono ottimi giardinieri. Devo ricordarmene… sai, il loro lavoro può sempre tornare utile. Guardalo come si contorce, l’orribile mostro farcito di sterco. Dici che gli ci vorrebbe un’armatura per evitare di spezzarsi l’osso del collo?»
Ser Bartimore guardò il frutto sua vendetta scorrere a flussi rossi sulla strada lastricata. «Un’armatura, dici?». Cercò di sembrare il più disinteressato possibile alla condizione penosa del malcapitato: dopotutto lo era. «Credo proprio di sì. In effetti, ser Mark… ora gli sarebbe più utile che mai.»




♣ Angolo d'autore ♣
Sebbene in ritardo di un giorno, ho avuto finalmente modo di aggiornare. In questo capitolo accadono molte cose, alla luce della scarcerazione dei nostri che vengono inondanti nuove buone e cattive. 
Dalla scarcerazione - e quindi il comportamento adottato da Bennor Falso Esperto, fino alla sua partenza - all'incontro col cerusico, che si propone dolorante nei confronti del conflitto. 
La cosa certamente più importante è l'arrivo - finalmente - di Roscart Wargrave ad Ockswert, in una manifestazione di giubilo. Cosa pensate del tutto? Cosa vi aspettate ora dal signore di Giardino Fiorito?
La carrozza scorta un prigioniero direttamente da Roshby, ove tutti dicono essersi recato Wargrave, pur non avendo partecipato al torneo (i nostri sanno essersi finto malato, per venirne fuori). E' il castellano di Roshby, Wolbert Dorran - ricordate l'architetto del complotto, che aveva macchinato affinché il torneo finisse nel massacro? - in catene. (cap. X de "Il cavaliere e la fanciulla bionda"). Per qualsiasi dubbio, nel caso, sono felice di rispondervi.
Insomma la trama si sta ricompattando col filone principale: ora che i nostri sono stati scarcerati e che il conflitto è sempre vivo fuori da quelle quattro mura marroni, non resta che vedere cosa accadrà.
Curiosissimo di sapere cosa ne pensate, un abbraccio e grazie a tutti!
Makil_
   
 
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