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Autore: Calis_NB_Carpenter    18/08/2019    1 recensioni
In un mondo antico, pieno di miti e leggende, vaga Adamant, un re senza patria che è conosciuto in tutto il mondo per le sue imprese leggendarie, alcune delle quali sono diventate mito.
Si dice che Adamant sia il prescelto di una profezia e che la sua stirpe abbia discendenze divine, ma se sia vero o meno, a lui non importa. Il destino che era stato scritto per lui, è stato cambiato da lui stesso e nessuno, nemmeno gli dèi, possono sapere dove lo condurrà.
Ogni racconto racchiude un impresa diversa di Adamant, dove vengono narrate le sue gesta: grandi battaglie fra eserciti mortali, ma anche scontri con creature mitologiche temute dagli stessi dèi; viaggi nei luoghi più inospitali sulla terra, ma anche avventure dove nessun mortale ha mai messo piede.
Queste sono le leggende su Adamant, il re dei re.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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IL TRADITORE
 
 
1
 
 
Le Terre dei Barbari: terre conquistate con le razzie e il sangue; uomini e bambini furono massacrati per esse e le donne fatte prigioniere e poi stuprate. Un tempo, questi temibili guerrieri si trovavano solo nella lontana Kalmora, ma quando il loro signore morì e fu il figlio Borg a prenderne il posto, iniziarono a spostarsi verso sud, poi verso est e così via, fino a conquistare ogni terra che trovavano sul loro cammino. Questo successe più di quarant’anni fa e da allora ci furono numerose guerre contro questo popolo che tentò di schiacciare la civilizzazione e convertire tutti alla fede verso il loro dio. Attualmente i barbari possedevano Kalmora, diverse terre popolate da mostri temibili e il Deserto Rosso, anch’esso popolato da terribili creature, ma molte erano già state sterminate nel corso di quei decenni. Quelle terre erano il luogo meno adatto per un viaggiatore civilizzato e, soprattutto, per chi non sapeva maneggiare un’arma; questo, però, non era il caso di Adamant.
   L’uomo che portava tale nome, conosciuto in tutto il mondo, stava cavalcando nel Deserto Rosso in groppa a Bucefalo, un cavallo nero come la notte: forte, fiero e nobile; una bestia rara e, certamente, non facile da domare. Adamant era in posizione retta, con le forti mani strette attorno alle redini. Indossava una corazza di cuoio che gli proteggeva il corpo e lasciava le forti braccia e spalle scoperte; l’armatura più adatta per le terre calde e aride che stava attraversando. I pantaloni erano stracciati e neri, esattamente come i folti capelli che venivano mossi dal vento e la barba corta in viso. Aveva anche dei vecchi stivali da viaggio, neri come i pantaloni e impolverati. Al fianco portava una spada, tenuta dentro a un fodero di cuoio, di certo non il più adatto a essa, data l’impugnatura dorata e incisa che ne indicava l’enorme valore e la pregevole fattura.
   «Fermo!» urlò un uomo. Davanti a Adamant c’era una rovina di granito, illuminata dal cocente sole dell’est. Un tempo, quella costruzione doveva essere stata una magnifica fortezza, ma ormai crollata da molti anni a causa della furia dei barbari in quelle terre. Rimaneva soltanto una parte di ciò che era un tempo: una torre la cui cima era crollata, alcune pareti ancora in piedi che però lasciavano un lato scoperto e delle scale che portavano a ciò che restava di un piano superiore.
   L’urlo era arrivato da quella rovina, da dove sbucarono fuori due uomini a petto nudo e molto robusti: indossavano solo degli stracci attorno alla vita che coprivano i loro attributi, lasciando la parte superiore delle gambe scoperte e quella inferiore era coperta da degli schinieri, mentre ai polsi avevano dei bracciali in cuoio; in pugno, avevano delle grosse asce.
   «Chi sei?» chiese uno dei due; lo stesso che aveva urlato.
   «Sono solo un viaggiatore» rispose Adamant, concentrando lo sguardo calmo del suo occhio destro blu e dell’altro dorato sui due barbari. «Mi sto dirigendo alla vostra fortezza.»
   «E per quale motivo stai andando la?»
   «Affari personali.»
   Il barbaro corrugò la fronte. «Mh… questo parla come un uomo civilizzato. È questo che sei? Sei uno di quegli uomini civilizzati?»
   «Io sono un abitante del mondo. Sono stato ovunque e ovunque ho vissuto. La mia casa è la strada, la città, il deserto, il mare e qualunque altro luogo in cui si possa vivere. Per cui no, non sono un uomo di città, né un uomo civilizzato. Sono solo Adamant.»
   I due barbari si scambiarono un’occhiata di stupore. «Sei… sei “quel” Adamant?»
   Non disse nulla. Non una risposta fuoriuscì dalle sue labbra. Solo un cenno della testa.
   I barbari si avvicinarono; la stretta sulle asce era più forte che mai. I loro sguardi non facevano intendere alcun pensiero pacifico o amichevole; presto si sarebbe versato del sangue, ma sarebbe stato il loro o quello del viandante?
   «Non saresti mai dovuto venire qui» disse il barbaro che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Ogni barbaro di questa terra vuole la tua testa… e noi non siamo diversi dagli altri.»
   Adamant non mostrò alcun timore. Il suo sguardo passo su entrambi gli uomini, mostrando un cenno di compassione. «Prendete le vostre armi e attaccatemi; ne avete tutto il diritto. Ma sappiate… che io non resterò fermo. Se le vostre intenzioni sono mosse da ciò che ho fatto alla vostra gente, allora saprete benissimo di cosa sono capace.» Le parole che seguirono, furono urlate. «Se siete dei veri barbari, attaccatemi, ma se siete uomini intelligenti… lasciate perdere; tornate a fare la guardia e lasciatemi passare!»
   I due barbari esitarono; le parole di Adamant avevano avuto effetto su di loro, portandoli a dubitare delle loro capacità. Tuttavia, non bastò.
   Il primo barbaro si gettò con furia brutale su Adamant, urlando come una bestia. Adamant vene così buttato a terra, ma non era stordito; si aspettava la caduta ed era pronto. Appena il barbaro lo attaccò nuovamente, si accorse che un suono di qualcosa che fendette l’aria gli era passato accanto. Una lama si era fermata sopra la sua testa: il materiale sembrava di cristallo trasparente, ma del sangue fresco colava da essa. In quel momento, il barbaro avvertì il dolore e, osservando le sue braccia, si accorse che glie ne mancava uno; reciso senza la minima fatica, facendo zampillare litri di sangue dal moncherino. Urlò disperato e, allo stesso tempo, terrorizzato.
   «Vi avevo avvertito» disse Adamant, rialzandosi da terra con la spada in pugno. Lui era decisamente più magro e meno forzuto rispetto ai suoi avversari, ma per un istante apparve imponente al barbaro che restava inginocchiato a terra, senza un avambraccio. Poi, con la stessa rapidità dell’amputazione, Adamant calò la spada con forza bruta sull’avversario inerme, recidendogli di netto la testa.
   Alla vista della testa del compagno che gli rotolò sui piedi, l’altro barbaro fu preso da una collera degna di un guerriero del suo popolo. Anche lui si gettò, sbraitando, contro Adamant, ma questa volta l’esito fu diverso. Il colpo d’ascia non puntò a colpire l’avversario, ma a bloccare la sua spada, per poi tirargli una testata. Questo disorientò Adamant, facendolo indietreggiare. A quel punto, il barbaro colpì con un fendente di lato, mirando alla vita, ma Adamant si difese con la spada, continuando a indietreggiare. Senza che se ne potesse accorgere, venne portato contro una roccia; non aveva via di scampo.
   «Sei finito, Stermina Barbari!» L’urlo del barbaro era terrificante. Afferrò l’ascia con due mani e la fece calare con forza sull’avversario, ma Adamant rotolò, evitando il colpo e, senza voltarsi, impugnò al contrario la spada e affondò da dietro. La lama cristallina trapassò da parte a parte il petto del barbaro; la punta, alla luce del sole, sembrò riflettere bagliore blu macchiato dal sangue.
   «Non sei stato migliore dei tuoi fratelli.» Queste parole furono un’ulteriore ferita per il barbaro, il quale cadde atterra non appena Adamant estrasse la spada dalla sua schiena. Altri barbari si aggiunsero al numero delle sue vittime.
   Adamant non si voltò a guardare i corpi dei due barbari, nemmeno a depredarli; salì nuovamente in sella e riprese il viaggio. Osservando all’orizzonte, vide degli avvoltoi dirigersi verso di lui, attratti dall’odore del sangue. Oltre a quelle bestie, giù per il sentiero montano, riuscì a vedere in lontananza un castello vicino a un fiume. Quella era la sua meta.
 
 
2
 
 
Il castello era molto antico: costruito più di mille anni fa per dimostrare la forza dei barbari in quel deserto che, un tempo, pullulava di mostri. Solo quei formidabili guerrieri furono abbastanza folli da tentare di stabilirsi in un reame del genere e infatti non durarono molto. Secondo le storie, il castello venne abbandonato neanche un decennio dopo, per poi essere ripreso dai barbari dopo che il deserto venne ripulito da qualunque minaccia. Ora, quella magnifica costruzione dall’alto potenziale difensivo, era una delle loro roccaforti migliori in tutte le loro terre, ma Adamant non era lì per ammirare la fortezza dei barbari, ma per parlare col loro re.
   Non appena mise piede difronte alle porte del castello, i barbari lo fermarono, pronti ad attaccarlo come quelli alle rovine, ma venero subito fermati. Una ragazza era corsa ad avvertire le guardie di farlo entrare; un’autentica bellezza, sorprendente anche per la sua giovane età. Fu ella ad accogliere Adamant e a invitarlo a entrare; il suo re voleva vederlo.
   Attraversarono il cortile, per poi salire una scalinata di pietra e arrivare a un grande portone di legno, sorvegliato da due guardie in armatura pesante; dovevano avere un caldo tremendo. Furono loro ad aprire il portone, rivelando così un lungo ingresso molto buio, appena illuminato da qualche torcia.
   «Vieni, mio padre è più avanti» disse la ragazza.
   Adamant non se lo fece ripetere e seguì la fanciulla. Mentre le stava dietro, la squadrò da cima a fondo. Era più snella delle altre barbare; chiaramente non aveva mai maneggiato un’arma. I suoi capelli erano rossi, tenuti legati in una coda di cavallo, lasciando comunque qualche ciocca sul viso. Indossava un abito di seta bianco; cosa insolita per una barbara, ma forse non era così per la figlia del re dei barbari.
   «Quindi… sei la figlia del re? Come ti chiami?» chiese Adamant, continuando a squadrarla da capo a piede.
   «Non ti deve interessare» rispose lei; fredda. «Se stai pensando di possedermi, resterai deluso. Io non accetterò mai un civilizzato che mi monti e nemmeno mio padre lo permetterebbe.»
   Adamant corrugò la fronte. Aveva capito di trovarsi in compagnia di una ragazzina dalla lingua tagliente che pensava di essere nella testa di ogni uomo. «Spiacente, ragazzina, ma sei ancora troppo giovane per farti montare da me. Magari fra qualche anno!»
   La ragazza gli lanciò uno sguardo furioso, come una leonessa dagli occhi verdi pronta ad attaccare. «Non osare parlarmi così Stermina Barbari. Mio padre ti farà uccidere se oserai ancora parlarmi così.»
   A quel punto, Adamant perse la pazienza. Con rapidità fulminea, le afferrò un braccio; gracile per una del suo popolo. «Come hai detto tu, sono lo Stermina Barbari. Ti pare saggio farmi arrabbiare?»
   La ragazza tirò con tutte le sue forze per sfuggire alle grinfie di Adamant, ma senza successo. La sua presa era salda, anche se il braccio era meno muscoloso di quelli che era abituata a vedere. Poi, il suo sguardo cadde in quello di Adamant: uno sguardo rabbioso e violento; le fece paura.
   «Comincia a portare rispetto a chi ti si para davanti e forse non ti capiteranno brutte cose in futuro. E ritieniti fortunata che sia stato io a darti questa lezione.» Mollò la presa.
   La ragazza indietreggiò. Il suo sguardo da leonessa era sparito, sostituito da quello di un gattino impaurito. Non era la forza dell’uomo che tutti chiamavano Stermina Barbari a spaventarla, ma la sua personalità. C’era qualcosa in lui che molti uomini, barbari compresi, avrebbero invidiato; non era il fatto di essere un civilizzato, ma qualcosa di più.
 
 
Quando entrarono nella sala del trono, la ragazzina aveva la testa bassa. Non riusciva a guardare più in alto del pavimento. Tutta la sua sicurezza era svanita e questo venne notato dal padre.
   «Figlia mia, che ti prende?» Korg, il re dei barbari, era seduto su un trono di legno, ricoperto dalle pellicce di varie bestie. Si diceva che era usanza dei re dei barbari ricoprire i troni dei loro castelli con le pellicce delle bestie di quelle zone, riservando quelle più rare e importanti per il trono principale a Kalmora.
   La ragazza non rispose alla domanda del padre. Si limitò ad allontanarsi dalla sala, prendendo un’uscita secondaria che si trovava sul lato sinistro; non si volto indietro.
   «Che le hai fatto?» sbraitò Korg.
   Adamant non rispose, limitandosi solo ad avanzare. L’aria nella sala del trono era più fresca rispetto al resto del castello e si avvertiva una lieve fragranza di birra. Osservò con attenzione la sala. Sulle pareti erano appese teste di varie creature: bestie, mostri e umani. C’erano anche alcuni arazzi stracciati; trofei di guerra che Korg aveva conquistato nelle sue razzie. Ai lati della sala, c’erano numerosi tavoli graffiati e scheggiati; in quella sala, banchettavano e facevano numerose risse.
   «Ti ho fatto una domanda… Rispondi!»
   «Non sei il mio re e quindi non sono tenuto a risponderti a un tuo ordine.» Le parole di Adamant erano fredde. «Comunque, le ho solo insegnato un po’ di educazione, ma senza ferirla.»
   «Non ti credo!»
   «Non m’importa, e ti conviene abbassare la cresta, Korg. Non dimenticare che è solo merito mio se ora puoi farti chiamare re.»
   Korg strinse i denti, trattenendo il desiderio di attaccare. Sapeva che sarebbe stato un tentativo inutile. Fece un respiro profondo e poi riprese. «Immagino tu sia qui per Karantir, vero?»
   «Immaginavo che lo sapessi. Quindi mi stavi aspettando, vero?»
   «Karantir si nasconde da quindici anni e nessuno ha più saputo niente di lui… fino a pochi giorni fa. Sapevo che la voce sarebbe giunta alle tue orecchie e quindi ho aspettato; mi hai fatto prolungare la permanenza qui nel Deserto Rosso.»
   «Non dovrai aspettare oltre. Dimmi dove si trova Karantir e facciamola finita.»
   Korg si alzò dal trono. Nonostante il caldo, il re dei barbari indossava la sua pesante armatura borchiata e ricoperta di pellicce. La testa era ricoperta dal cranio di un lupo nero, abbinato perfettamente alla lunga barba nera che gli arrivava fino al petto, con alcune trecce tenute legate da delle grosse zanne. Il volto mostrava l’avanzare degli anni, con una cicatrice all’occhio destro. Era enorme, come tutti i barbari: grosso, muscoloso e feroce.
   Adamant non indietreggiò nel vedere il barbaro avvicinarsi a lui. Restò immobile, osservando Korg passargli accanto e fermarsi alla sua destra, rivolto all’ingresso della sala.
   «Quello che mi chiedi è… troppo. Persino per te.»
   «Vuoi forse negarmi le informazioni che cerco? Spero almeno che tu abbia un motivo per credere di potermi fermare!» Adamant si lasciò sfuggire una breve risata.
   «Tu sei lo Stermina Barbari. Hai ucciso centinaia di noi… ma non tutti insieme. Tu prova a farmi qualcosa e i miei uomini verranno qua a massacrarti. Non sei stupido, quindi so benissimo che non alzerai un dito su di me…»
   La risposta arrivò immediata, ma sotto forma di pugno. Korg cadde a terra, sorpreso. Non era certo un pugno molto potete, ne aveva ricevuti di più forti, ma non si sarebbe mai aspettato quel colpo da Adamant.
   «Sei pazzo?»
   «No. Ti sto solo ricordando con chi parli, Korg!»
   Sentendo il loro re gridare, i barbari fecero irruzione nella sala, con armi in pugno e pronti a uccidere. Erano almeno un centinaio, come aveva detto Korg.
   «Fermi» urlò il re. «Tornate a fare la guardia.»
   Gli altri barbari non discussero l’ordine del loro re, ma erano comunque confusi. Avevano ricevuto precise istruzioni dal re in caso di un attacco di Adamant, ma ora sembrava che non servissero più.
   Korg si rialzò da terra, pulendosi il sangue che colava dal naso e che gli aveva imbrattato la barba. Fino a quel momento, non aveva capito quanto Adamant fosse pericoloso. Lo aveva sempre visto come un uomo, certamente abile, ma con dei limiti. Dopo essere stato colpito e averlo guardato dritto negli occhi, Korg capì che Adamant avrebbe ucciso tutti i suoi uomini, lui compreso.
   «Non lo ripeterò un'altra volta. Dov’è Karantir?» chiese nuovamente Adamant.
   «… Bulzar. Si trova a Bulzar.» Korg esitò, per un momento.
   «L’oasi di Bulzar? Ma è uno dei posti più frequentati nel Deserto Rosso. Come ha fatto a non farsi scoprire prima?»
   «Non lo so, ma può darsi che ci sia andato recentemente. Se vuoi sfuggire a un uomo che ti da la caccia, meglio continuare a spostarsi.»
   «Già! E tu sei un esperto in questo» lo schernì  Adamant.
   «Ancora con questa storia? Se mi avessi trovato prima, mi avresti ammazzato, commettendo un errore!»
   «Il passato non è importante, mi interessa solo Karantir. In che parte di Bulzar, esattamente?»
   «Non lo so. Per quello dovrai arrangiarti.» Detto ciò, Korg tornò al suo trono.
   Adamant non attese altre risposte o commenti e si avviò verso l’uscita.
   «Hai detto che il passato non è importante» disse Korg, fermando Adamant. «Ma cos’è questa ricerca, se non un vecchio conto in sospeso del passato?»
   Adamant si voltò; i suoi occhi bruciavano per la rabbia. «Tu non hai alcun diritto di parlare di questo argomento, Korg! Non ho dimenticato ciò che voi barbari avete fatto alla mia gente. Ogni singolo barbaro ancora in vita, è un conto in sospeso. Se non ti ho ancora ucciso e non ho ucciso nemmeno tutto il tuo popolo, è solo per la mia generosità! Bada a quello che dici, Korg, perché la prossima volta potrei venire per sterminarvi tutti, come avete fatto con Regem!» Detto questo, Adamant se ne andò, lasciando un velo di terrore nella sala. Korg era terrorizzato.
 
 
3
 
 
L’oasi di Bulzar era una piccola città costruita vicino alle sponde di un fiume. Secondo la leggenda, fu costruita dalla dèa Aure per soccorrere degli uomini che erano rimasti senza cibo e acqua e, casualmente, avevano trovato un gioiello che apparteneva lei. Il gioiello si chiamava Bulzar, una pietra blu di rara bellezza e da esso veniva il nome dell’oasi. Questa leggenda risaliva ai tempi in cui il Deserto Rosso non era ancora terra dei barbari e prima ancora che i mostri lo dominassero; un tempo di cui nessun essere umano aveva memoria.
   Adamant stava attraversando la strada principale dell’oasi. L’aria era molto calda a causa dell’umidità del posto, ma almeno c’erano molte palme sotto cui ripararsi all’ombra. Ovunque si voltava, poteva trovare delle pozze d’acqua ricoperte di vegetazione. Le case erano molto vecchie e alcune pure diroccate. Da quando i barbari avevano preso possesso dell’oasi, nessuno si preoccupò di ricostruirle; la vernice che le ornava era ormai molto sbiadita, se non addirittura svanita. Oltre alle case, c’erano molte tende, tutte grandi abbastanza da ospitare un’intera famiglia.
   Adamant proseguì per quella strada battuta a piedi, tenendo le redini di Bucefalo fra le mani. Il cavallo era molto accaldato e assetato.
   «Tranquillo amico mio,» disse Adamant, rivolto alla sua nobile bestia «presto potrai bere tutta l’acqua che vuoi.»
   Poco dopo, da uno degli edifici ancora integri, uscirono un gruppo di barbari. Adamant sapeva che non sarebbe finita bene, appena notò che si stavano dirigendo verso di lui.
   «Bene bene, ma guarda chi abbiamo qui!» Il barbaro che parlò, grasso, muscoloso e senza barba, si fermò difronte ad Adamant, mentre gli altri si misero attorno a lui, circondandolo. Bucefalo nitrì, avvertendo il pericolo.
   «Salute» disse Adamant, con tono amichevole.
   «E ci saluta pure!» Lo stesso barbaro continuò. «Non saresti dovuto venire qui, Stermina Barbari!»
   «Vi sbagliate! Sono esattamente dove dovrei essere.»
   A quelle parole, il barbaro prese le asce che teneva ai fianchi. «So cosa dicono di te. Dicono che sei in grado di ucciderci tutti perché sei il prescelto che sterminerà la stirpe del Distruttore, ma non ci credo. Sei solo un uomo e noi barbari, i figli del Distruttore, non ci faremo ammazzare da uno come te!»
   Adamant sorrise. «Sei davvero coraggioso! Comunque, lascia che ti dica una cosa. Io non so se sono davvero il prescelto o meno, ma ho scelto di risparmiare il vostro popolo, almeno finché non mi creerete grossi problemi. Che lo sia davvero o meno, vi assicuro che sono in grado di farlo. Posso uccidervi tutti!»
   I barbari scoppiarono a ridere. Altra gente arrivò, curiosa di sapere come sarebbe finita quella discussione; ovviamente, si aspettavano il sangue.
   «Certo che… hai un bel coraggio a vantarti di poterci uccidere tutti, quando tu non sei stato in grado di salvare il tuo regno, Re Senza Trono!»
   Adamant non aspettò oltre. Lasciò le redini di Bucefalo e saltò addosso al barbaro con scatto fulmineo. Senza che il grassone se ne potesse accorgere, un pugno lo aveva buttato a terra e una delle sue asce era nelle mani di Adamant. Non attese troppo, prima di usarla per fracassare il cranio del barbaro.
   Tutti i presenti erano senza parole. I barbari ancora in piedi esitarono a muoversi.
   «Avete osato troppo!» Il tono di Adamant era ricolmo di odio e sete di sangue. «Non sterminerò il vostro popolo, ma voi non vedrete il calare della notte!» Detto ciò, si avventò contro gli avversari.
   Lo scontro fu qualcosa d’inconcepibile: un solo uomo schivò tutti i fendenti e gli affondi, sventrando lui stesso i dieci barbari che lo avevano circondato. Durante lo scontro, la spada di Adamant rifletté i raggi del sole e ogni volta erano di colore diverso, fino a quando non fu talmente ricoperta di sangue da non riflettere più nulla. Nel giro di pochi minuti, la strada fu ricoperta di sangue e le carcasse vennero lasciate lì, mentre Adamant tornò dal suo cavallo, pulendosi dal sangue in viso. La gente che aveva assistito non si mosse; non erano scioccati per il massacro, cosa che succedeva spesso, ma per le incredibili abilità del vincitore.
   «Un lavoro con i fiocchi! Non perdi mai lo smalto, tu.» A parlare fu una voce anziana, ma ricca di forza, orgoglio e potenza. Adamant riconobbe subito chi gli stava parlando e un sorriso gli si stampò in viso.
   «E non lo perderò nemmeno quando avrò la tua età, Aslon!» Dicendo queste parole, si voltò, vedendo così il suo interlocutore.
   «Sempre se ci arriverai, amico mio. Se continui così, un giorno ti farai ammazzare» disse Aslon, ridendo nel mentre. Era un barbaro, molto avanti con l’età, ma non l’avrebbe mai rivelata. Nonostante tutto, era ancora molto muscoloso, alto possente. Indossava un’armatura di cuoio con degli spallacci d’acciaio borchiati; le braccia erano scoperte e anche le gambe. Indossava anche degli schinieri con piastre d’acciaio e dietro la schiena, aveva una grossa ascia fatta con l’osso di una grossa bestia; un’arma unica nel suo genere.
   «È un piacere rivederti amico mio.» Adamant si avvicinò ad Aslon e gli strinse l’avambraccio con forza in segno di saluto e il barbaro fece altrettanto.
   «Anche per me, ragazzo.» Aslon stava sorridendo, facendo risaltare le sue rughe. Di certo doveva avere più di sessant’anni, dato il colore bianco dei suoi lunghi capelli e della folta barba intrecciata.
 
 
I due amici si ritirarono in una casa diroccata. Aslon l’aveva occupata al suo arrivo e nessuno gli aveva detto niente. Se nessuno occupava una proprietà, un barbaro poteva prendersela senza che nessuno potesse impedirglielo; molte volte, però, lo facevano anche se la proprietà era di qualcun altro. In questo caso, non apparteneva a nessuno. Abbandonato a se stesso, quel rudere aveva parte del tetto crollato, il tavolo che stava al centro era distrutto sotto le macerie e non c’erano altri mobili o decorazioni; era un cubo di marmo con solo le macerie del tetto a riempire lo spazio.
   A terra, Aslon aveva preparato una bottiglia di vino e un paio di boccali. Lui e Adamant erano seduti a terra, uno difronte all’altro, a ricordare i tempi passati. I due si erano conosciuti circa una decina di anni fa, quando Adamant era ancora un giovane uomo, ignaro di com’era il mondo e senza una casa. Non che ora avesse una casa, ma ai tempi l’aveva appena persa e affrontare le insidie del mondo fu un’impresa ardua. Fu allora che incontrò molte persone che lo aiutarono, tra cui Aslon. Il barbaro non gli piacque inizialmente, come tutti i barbari, ma alla fine divennero amici e compagni di avventure.
   «Un altro sorso, ragazzo?» chiese Aslon, agitando in mano la bottiglia di vino mezza vuota.
   Adamant, in risposta, prese il boccale e lo avvicinò al barbaro per farsi servire. Bevve avidamente, quasi senza gustarsi il dolce sapore del vino.
   Aslon rise di gusto. «E pensare che una volta non ti piaceva questa roba!»
   «Colpa tua che mi hai fatto cominciare!» Anche Adamant si aggregò alla risata.
   I due si lasciarono andare ai ricordi e alle risate, finche, ritrovata la calma, Adamant chiese quello per cui era venuto a Bulzar. «Ho sentito che Karantir è qui. Sai dove si trova?»
   Aslon si fece serio, mentre finiva di bere dal boccale. Quando finì, fece un profondo respiro. «Non vuoi proprio mollare, vero?»
   «Mai! Sono quindici anni che quel bastardo si nasconde. Mi ero pure rassegnato, ma ora che ho una pista…» Adamant strinse i pugni, carichi di collera. «Non posso lasciarlo fuggire ancora!»
   «Sai benissimo che non è un barbaro come gli altri. Fra la nostra gente, faceva parte della classe più vicina al Distruttore. Se lo uccidi… potresti far avverare la profezia!»
   «Forse è meglio così! Ma non temere. La mia lama non è per te.»
   «Non temo per la mia vita, ma a quello che potresti scatenare! Nessuna profezia si avvera senza una devastazione. Quale sarà il prezzo per il nostro sterminio?»
   «Nessuno! Sai benissimo che ho rinnegato il mio destino. Il cammino che gli dèi hanno deciso per me, non lo percorrerò»
   «Io non venero i tuoi dèi, ma è saggio rifiutare di servirli?»
   Adamant scattò in piedi. «Dov’erano gli dèi quando i barbari hanno invaso Regem? Dov’erano gli dèi quando la gente di Regem veniva sterminata? Loro se ne sono stati là su, nel loro regno celeste, mentre il mio bruciava e veniva spazzato via! Dovevo essere un re… ma ora sono il re di niente!»
   Non era facile dimenticare il passato, specie uno traumatico come quello di Adamant. L’ultimo rimasto di una dinastia reale che aveva regnato per novantanove generazioni sul regno di Regem e lui sarebbe stato il centesimo re, ma questo prima dell’invasione dei barbari. Il popolo del Distruttore, invase la capitale e uccise il padre di Adamant, conquistando così la città e l’intero regno. Adamant fu costretto a fuggire insieme ad alcuni della servitù e trascorse dieci anni vagando per il mondo, addestrandosi e compiendo imprese leggendarie che lo resero famoso; tutto per prepararsi alla riconquista del trono. Ma fu vano. Quando guidò un esercito per riprendersi Regem, scoprì che il regno della sua famiglia era ormai stato devastato dai barbari che odiavano ogni forma di civiltà. Uccise Borg, il loro re e padre di Korg, ma Regem non esisteva più; rimanevano solo rovine.
   Aslon corrugò la fronte. Non sapeva più come ribattere. «Spero che non ci saranno davvero conseguenze. Per il bene di tutti noi.»
   «Hai la mia parola che non succederà niente a te o a qualunque innocente. Ma ora dimmi dove posso trovare Karantir. Ti prego!»
   Aslon si alzò da terra e si diresse verso una delle finestre. I suoi occhi neri s’indirizzarono verso una montagna vicino a Bulzar, dove una duna di sabbia ne copriva la parte inferiore. «Là, In una grotta» disse il vecchio barbaro, indicando la montagna. «L’ho visto rintanarsi la dentro, così sono andato a parlarci e…»
   «Ci hai parlato? Perché non l’hai ucciso?»
   «Lasciami finire ragazzo! Ci ho parlato e lui mi ha detto che non si sarebbe mosso da lì e che ti avrebbe aspettato.»
   Adamant si affacciò alla finestra; confuso. Per quale motivo Karantir lo stava aspettando? Dopo anni di fuga, cosa lo aveva portato a scegliere di farsi trovare?
   «Vuoi davvero andare fino in fondo a questa storia?» chiese Aslon, sperando di riuscire a far desistere l’amico.
   «Ha tradito mio padre! Ha tradito me! È colpa sua se ora Regem non esiste più!» Detto ciò, Adamant uscì dalla casa di Aslon, diretto alla grotta.
   Aslon rimase lì, da solo. Ripensò a tutto quello che loro due avevano passato durante i dieci anni di vagabondaggio di Adamant. Se non fosse stato per il tradimento di Karantir… forse Adamant sarebbe seduto sul trono di Regem. Ma in quel caso, la profezia si sarebbe avverata?
 
 
4
 
 
I barbari erano sempre stati una piaga per questo mondo, o almeno era quello che Adamant sentiva sempre dire da suo nonno. Stando alla storia, il regno di Regem fu fondato proprio come baluardo di difesa contro questo popolo che, in tempi antichi, erano divisi in tribù e si combattevano pure fra di loro.  Quando poi Regem divenne una vera minaccia per i barbari, questi decisero di riunirsi sotto un solo capo, il re dei barbari, in modo da unire le forze contro lo stesso nemico. Questo portò la guerra a prolungarsi per secoli, fino al padre di Adamant, il novantanovesimo re di Regem, che portò il regno al suo periodo di massimo splendore. Aveva conquistato il Deserto Rosso, dove ora Adamant stava camminando sulle sabbie roventi, una terra rimasta per secoli ai barbari e ai mostri che lo abitavano; Regem era uno dei regni più potenti sulla terra, ma tutto questo… era ormai finito.
   Adamant ribolliva di rabbia, ripensando a ciò che un tempo era la sua casa e che ora non esisteva più. Gli rodeva il fatto che quel deserto era tornato in mano ai barbari, come tutti i territori di Regem. In gioventù, questi pensieri non lo avrebbero toccato: non era interessato ai territori o alle conquiste, ma voleva solo essere un buon re e, ingenuamente, sperava di poter porre fine alla guerra con i barbari proponendo loro la pace; anche suo padre ci aveva provato, più volte. Oggi, prenderebbe a schiaffi il vecchio se stesso per aver solo pensato una cosa simile. Adamant odiava i barbari, più di ogni altra cosa al mondo e ogni giorno e ogni notte pensava di sterminarli tutti, ma era proprio il ricordo del padre a fermarlo. Suo padre gli aveva insegnato a non giudicare una persona dal suo popolo o dalla sua terra di origine; un re, doveva riconoscere amici e alleati anche fra i nemici. Per questo era diventato amico di Aslon, nonostante fosse un barbaro e, anni prima, di Karantir… cosa di cui si era pentito.
   Il caldo di quella giornata sembrò aumentare, ma forse era solo il corpo di Adamant che ribolliva per l’agitazione e la sete di vendetta. Ogni passo che faceva nella sabbia, lo portava sempre più vicino a ottenere ciò che voleva da anni. Alla fine, giunse alla grotta e, nell’esatto momento che riuscì a vedere l’ingresso, vide Karantir.
   Il barbaro non si stava nascondendo: era lì, all’ingresso della grotta, seduto a terra con le gambe incrociate mentre beveva da una grossa bottiglia. Come aveva detto Aslon, lo stava aspettando e, appena i loro sguardi s’incrociarono, egli si alzò. Si voltò verso la grotta ed entrò; non stava nemmeno tentando di fuggire.
   Adamant avanzò lentamente fino a giungere all’ingresso della grotta. Per un attimo, i suoi occhi caddero dove prima era seduto Karantir e, oltre alla bottiglia, notò un pezzo di carta con su un disegno di un guerriero e un barbaro. Non ci mise molto a riconoscerlo; un disegno che lui stesso fece a Karantir quando era ragazzo, sognando di vivere avventure con lui. Perché lo aveva conservato?
   Quando mise piede nella grotta, il suo sguardo andò subito alla ricerca di Karantir, mentre teneva la spada in pugno; i riflessi di luce sulla lama erano viola. La grotta non era molto grande, ma aveva molte rocce e angoli bui perfetti per nascondersi. La luce del sole veniva da una fessura sul soffitto e a terra, proprio sotto a essa, c’era una grande pozza d’acqua che accumulava tutta la pioggia. Oltre quella pozza, vi era Karantir, disarmato e con le braccia incrociate. Adamant notò che non era affatto cambiato in quei quindici anni: aveva gli stessi capelli castani tenuti sciolti ai lati, mente quelli frontali erano legati in una coda. La barba era sempre corta, ma folta e con alcune trecce decorative. Aveva ancora il fisico allenato tipico di un barbaro e, come sempre, non indossava alcuna armatura; solo dei pantaloni, degli schinieri in cuoio e alcuni strati di pelliccia ai fianchi.
   «Mi chiedevo quando saresti arrivato, Adamant.» Il tono di voce era come Adamant lo ricordava: profondo, severo e inquietante, ma a lui non inquietava più. «Ci hai messo più tempo di quanto pensassi…»
   «Basta con queste sciocchezze!» Adamant ribolliva di rabbia e i suoi occhi erano iniettati di sangue. Voleva la vita del barbaro, la voleva da quindici anni, ma sentiva che c’era qualcosa di strano in quell’incontro e voleva risposte. «Per quindici anni non ti sei mostrato, e ora, improvvisamente, sbuchi fuori e dici che mi stavi aspettando? Che scherzo è questo, Karantir?»
   Karantir chiuse gli occhi, facendo un bel respiro profondo. Aveva la fronte corrugata e le rughe sul viso facevano intendere la sua età avanzata, anche se molto più giovane di Aslon. Quando riaprì gli occhi castani, riprese la parola. «Mi serve il tuo aiuto, Adamant.»
   Adamant rimase a bocca aperta. Cominciò a pensare di trovarsi in un sogno, dove tutto stava diventando assurdo. Per molti anni aveva immaginato il momento in cui avrebbe trovato Karantir: si aspettava di combatterlo, di inseguirlo mentre fuggiva o di vederlo in ginocchio a supplicare il perdono; mai avrebbe pensato di ricevere una richiesta d’aiuto da parte sua.
   «Mi stai prendendo in giro?» chiese Adamant, stringendo i denti e trattenendo a stento la spada. «Dopo quello che hai fatto… pensi davvero che ti aiuterò?»
   «Certo!» La risposta del barbaro fu secca, come quella di un comandante che dava un ordine a un suo sottoposto. Lo aveva sempre fatto, dare ordini ad Adamant, ma allora erano tempi diversi. «Prepara le tue cose. Partiremo appena sarai pronto.» Detto ciò, si voltò verso un angolo della grotta, dove c’era una grossa sacca da viaggio. Non sembrava rendersi conto del pericolo che stava correndo.
   All’improvviso, una lama cristallina si conficcò nella roccia del muro, a pochi centimetri da Karantir. Adamant aveva perso la pazienza; il suo sguardo era indemoniato.
   «Tu m’ignori, come facevi anni prima. Allora non avevi motivo per non farlo… ma ora… dopo quello che hai fatto, tradendo me e mio padre, hai perso ogni diritto. Non stai più guardando il tuo allievo, ma un nemico venuto a ucciderti!» Con quelle parole, Adamant sfilò la spada dalla roccia e puntò alla testa. Tuttavia, Karantir fu più veloce e riuscì ad afferrargli il braccio, bloccando così un colpo mortale.
   «Sei diventato più veloce, bravo!» Karantir rispose all’attacco con un pugno dritto in faccia a Adamant, facendolo cadere a terra.
   Adamant sorrise. Finalmente stava avendo lo scontro che desiderava e, per vincerlo, avrebbe sfruttato al meglio ogni sua capacità. Si rialzò e partì all’attacco, con la spada tenuta saldamente con entrambe le mani. In risposta, Karantir prese una spada dalla sacca e con essa si difese dal colpo in arrivo. I due guerrieri erano fermi, faccia a faccia, entrambi impegnati a spingere contro l’avversario con le spade incrociate; il barbaro era decisamente più massiccio e forte. Adamant non perse tempo e tirò una testa dritta sul naso di Karantir, facendolo indietreggiare, ma non perse la concentrazione. Quando gli arrivò un colpo di spada al fianco, il barbaro riuscì a pararlo perfettamente con la propria; le lame scintillarono all’impatto.
   «Vedo che sopporti ancora bene il dolore, vecchio!» disse Adamant, sorridendo. Anche se il suo intento era quello di vendicarsi, non poteva fare a meno di godersi lo scontro. Davanti a lui, c’era l’uomo che non era mai riuscito a sconfiggere in combattimento, ma dal loro ultimo incontro aveva affrontato avversari nettamente superiori; lo scontro non sarebbe durato molto.
   Karantir non rispose alle parole di Adamant e continuò ad attaccare con furia brutale. Ogni suo attacco venne parato dalla lama cristallina, eccetto l’ultimo che fu schivato. Adamant gli arrivò alle spalle e si preparò a un colpo mortale dritto al cuore. Tuttavia, il barbaro roteò su se stesso, colpendo con un pugno Adamant e facendolo rotolare a terra, ferendogli il sopracciglio destro.
   Ci fu un attimo di respiro, seguito poi da un attacco avventato di Adamant; puntò dritto a Karantir, con la guardia scoperta. Una mossa stupida che il barbaro decise di sfruttare. Appena gli fu abbastanza vicino, Karantir tirò una ginocchiata per colpire Adamant al mento… ma andò a vuoto. Adamant roteò all’ultimo momento su se stesso, evitando il colpo, e inflisse una lieve ferita alla gamba del barbaro.
   Karantir rimase in ginocchio, sorridendo. «Allora è vero: il principino è diventato un uomo e anche un formidabile guerriero!»
   Adamant non rispose. Rimase in attesa, riprendendo fiato.
   «Immagino che tutte quelle storie sul tuo conto siano vere, no? Il massacro al Grande Ponte, l’apertura dei Cancelli Celesti, la traversata del Mare dei Mostri… sono storie vere, dico bene?»
   Ancora, Adamant rimase in silenzio.
   «Non serve che tu mi risponda; so benissimo che è vero. Solo chi ha affrontato qualcosa di più di semplici uomini può essere capace di una tale rapidità nel combattimento. Devo ammetterlo… sono rimasto colpito da ciò che hai compiuto in questi quindici anni.»
   «Non l’ho fatto per te!» La risposta arrivò sbraitando. «Ma se vuoi avere un merito per quello che sono oggi… sì; senza di te, non sarei mai diventato così. Merito del tuo tradimento.»
   Karantir smise di sorridere. «Ora che ti sei sfogato, credo sia il momento di darti alcune spiegazioni. Dopotutto, saresti capace di uccidermi, quindi ti meriti rispetto e attenzione.» Karantir si rialzò; la ferita sembrava non fargli alcun male. «Partiamo dal principio. Io non ho tradito Regem!»
   «Certo! E io dovrei credere alle tue parole come un ingenuo, vero?»
   «Da quel che sento, direi che lo sei veramente, se per quindici anni hai creduto che il traditore ero io.»
   «Allora dimmi Karantir! Chi è il vero traditore?» Il suo tono di voce era ironico.
   «Vatran Selm!»
   Sentir pronunciare quel nome, fece riaffiorare vecchi ricordi ad Adamant. Vatran era il capitano delle guardie di Regem; un grande guerriero e uno stratega straordinario. Ai tempi, Adamant lo ammirava, anche se non avevano avuto modo di conoscersi adeguatamente. Poi, quando i barbari presero la capitale, Vatran si batté fino alla morte per difendere il suo re, fallendo.
   Adamant rise. «Non mi aspettavo di sentirti dire simili menzogne per salvarti la pellaccia. So benissimo che Vatran è morto e per mano tua!»
   Karantir frugò nella sacca, dove aveva preso la sua spada e ne tirò fuori un elmo argentato che gettò ai piedi di Adamant, il quale lo riconobbe subito. Era l’elmo di Vatran: argentato, con due fori per gli occhi e incisioni in oro. Aveva però un particolare: un taglio che aveva colpito la parte del naso; era chiaramente recente.
   «Vatran ha tradito tuo padre e il regno, poi ha fatto in modo che fossi io quello accusato di tradimento e poi se ne andato, inscenando la sua morte. Ho combattuto contro di lui, quindici anni fa, ma lui ebbe la meglio.» Karantir alzò il braccio destro, mostrando una cicatrice sotto l’ascella. «Mi ha quasi staccato il braccio, quella volta. Data la gravitò della mia ferita, non ho potuto continuare e sono stato costretto alla fuga.»
   «Tu che fuggi da un combattimento ancora in corso? Questa è nuova.»
   «Lo so benissimo, ma, ripensandoci oggi, feci la scelta più saggia, perché ho ritrovato quel bastardo! Era qui, a Bulzar. Lo stavo cercando da anni e, alla fine, l’ho trovato! Purtroppo, anche stavolta, non sono riuscito a ucciderlo; il suo titolo di capitano è più che meritato. Allora ho capito che, se volevo vendetta, avevo bisogno di aiuto… del tuo!»
   «Ricapitolando…» disse Adamant, riflettendo su quanto appena sentito. «Mi stai dicendo che il vero colpevole della caduta di Regem è Vatran, l’uomo di cui mio padre si fidava di più al mondo, che mi ha fatto credere che tu eri il traditore e che tu hai inseguito per tutti questi quindici anni senza mai cercare di avvisarmi, e ora ti serve il mio aiuto per vendicare… che cosa esattamente? Mio padre? Il regno?»
   «Quel bastardo ha fatto credere a tutti che io sono un traditore! Devo fargliela pagare!» Gli occhi di Karantir erano iniettati di sangue.
   «Quindi… è solo per te stesso che lo fai?»
   «Sì! Ma… anche per tuo padre! Lui ha visto in me qualcosa di più di un semplice barbaro. Lui… era troppo buono per questo mondo!»
   Adamant non parlò.
   «Comunque, se hai continuato ad ascoltarmi, significa che mi credi, vero?»
   Adamant ripose la spada nel fodero. «Sì e no. Quell’elmo è chiaramente di Vatran e lui non se ne sarebbe mai separato se fosse ancora in vita. L’elmo, come anche il resto dell’armatura, sono stati sepolti quindici anni fa e se tu ora hai quell’elmo… significa che Vatran è davvero vivo! Mi dovrà delle spiegazioni, ma ancora non posso dissipare i miei dubbi verso di te.»
   «Quindi?»
   «Ti aiuterò a trovare Vatran, ma ti terrò d’occhio!»
   «Mi basta!» Karantir riprese l’elmo di Vatran e lo rimise nella sacca per poi caricarsela sulle spalle. «Vai a prendere le tue cose.»
   «Sono già sul mio cavallo.»
   «Perfetto! Allora muoviamoci. So dov’è diretto Vatran, ma ci vorranno parecchi giorni per raggiungerlo; non si aspetta che lo inseguiremo insieme.»
   Adamant si avviò per primo verso l’uscita. «Spero per te che le tue parole non siano solo menzogne! Altrimenti… non serve che ti dica cosa ti farò!»
 
 
5
 
 
Viaggiarono per molti giorni e molte notti, attraversando le distese sabbiose del Deserto rosso, fino a superarne i confini a est e giungere così a Storvan, la capitale del regno di Lorian. Negli ultimi anni, il regno di Lorian aveva espanso i suoi territori, circondando così i barbari che erano sempre in guerra con esso. Lorian aveva preso il posto di Regem come baluardo a difesa dei barbari, ma le loro conquiste cominciarono a diminuire a causa della guerra contro Alamunth, un potente impero che mirava a conquistare il mondo; dalle sue vittorie, sembrava che ci stesse riuscendo. Con i barbari e l’impero come nemici, era un miracolo che Lorian fosse ancora in piedi.
   Adamant non metteva piede a Storvan da molto tempo. L’ultima volta, era stato per una richiesta da parte del re di Lorian, ma non era finita bene quella sua visita e fu costretto a fuggire. Rivedendola, dopo tanto tempo, gli sembrava di metterci piede per la prima volta. Gli edifici bianchi erano adornati con colori verdi, rossi e azzurri, tendaggi degli stessi colori e tegole rosse sui tetti. Le strade erano piastrellate e c’era molta vegetazione attorno agli edifici, specialmente attorno ai monumenti.
   Mentre attraversavano le strade della città, sotto il sole cocente, Adamant e Karantir avvertirono una piacevole fragranze nell’aria. Stavano passando vicino a un mercato, pieno di gente e ricco di prelibatezze, oltre a vari prodotti ornamentali e altre tipiche merci dei mercati. Anche se erano in una terra verdeggiante, la gente e la merce venivano anche dalle terre aride; consa alquanto normale per una città che si trovava vicino al Deserto Rosso. Tuttavia, non si fermarono ad ammirare le bancarelle e proseguirono.
   Karantir era davanti a Adamant, in groppa a una puledra bianca. Bucefalo sembrava preso dai suoi istinti animali vicino a quella cavalla, ma mantenne comunque il suo portamento fiero.
   «Siamo a Storvan» disse Adamant, rompendo il silenzio. «E adesso?»
   «Adesso dobbiamo vedere una persona», rispose Karantir.
   «E chi sarebbe?»
   «Un mercante che ho conosciuto anni fa e che sa tutto quello che succede in città; saprà certamente dove Vatran si è rintanato.»
   «Spero che non ci metteremo molto. In questa città non sono poi tanto amato e nemmeno tu!» Adamant aveva ragione; nessun barbaro poteva entrare a Storvan, ma Karantir si era camuffato per l’occasione, indossando abiti da viaggio col cappuccio tipici di un uomo civilizzato e aveva nascosto tutta la sua roba da barbaro fuori dalla città. Non si era portato dietro nemmeno la sua spada, dato che aveva l’aspetto di un’arma da barbaro, sostituendola con un’altra spada che Adamant si portava sempre dietro in caso di necessità. In questo modo, nessuno avrebbe capito che era un barbaro, ma era comunque meglio non attardarsi troppo a Storvan.
   «Non mi hai ancora detto perché Vatran è venuto qui, sempre se sia vero» chiese Adamant. Ogni volta che parlava con Karantir, gli lanciava un’occhiataccia.
   «Ho scoperto che si è comprato una casa qui, ma usando un nome diverso, ed io non so quale sia. Il mercante che stiamo andando a incontrare saprà certamente quale sia la casa di quel verme.»
   «Ti aspetti resistenza, oltre a quella di Vatran?»
   «Mi stai chiedendo se ha degli uomini al suo fianco? Credo che sia possibile, ma non saranno certo un problema per noi!» Detto ciò, iniziò a ridere.
 
 
I due attraversarono a cavallo le strade cittadine fino ad arrivare nel quartiere vecchio, la zona della città più vecchia e meno curata. Le abitazioni erano logore, costruite con materiali ormai datati e alcune anche sul punto di crollare; le strade erano impolverate e con diverse buche; l’aria che si respirava in quel luogo era nauseante e la gente che ci viveva era composta da poveri e furfanti. Era in questo luogo che Karantir doveva trovare il mercante che conosceva.
   Adamant si guardò attentamente attorno, notando che alcune persone avevano già puntato gli occhi sulle borse che Bucefalo stava trasportando; la cosa non lo preoccupò minimamente. Poi, poco più avanti, lui e Karantir passarono sotto l’arco di un vecchio ponte di pietra, dove molta gente ricoperta di terra restava distesa per ripararsi dal sole. Vicino a quell’arco, scavato nella parete di granito, c’era un passaggio chiuso con un cancello; scrutando al suo interno, non si poteva scorgere nulla. Arrivati a quel passaggio, Karantir scese da cavallo e si avvicinò al cancello, aprendolo.
   «È qui che si trova il tuo amico?» chiese Adamant.
   «Non è mio amico» rispose seccamente Karantir. «Quando ho bisogno d’informazioni, vado sempre da lui. Anche se non è il più onesto mercante della città, sa benissimo che non deve mentirmi.»
   «E tu sei certo che sappia dove si trova Vatran?»
   «Se non lo sa lui, non lo sa nessun altro. È la nostra migliore possibilità!» Detto ciò, i due entrarono nel passaggio.
   In molti si sarebbero preoccupati a lasciare i cavalli incustoditi in un luogo simile, ma non se si trattava di Bucefalo. Adamant sapeva di non correre il rischio che rubassero lui e i suoi averi, dato che il suo destriero non era solo fiero, ma anche combattivo. Se qualcuno avesse provato ad avvicinarsi a lui o alla puledra di Karantir, Bucefalo avrebbe reagito, mettendo tutti in fuga; solo Adamant era stato in grado di domarlo.
   Pochi passi dopo il cancello, cominciavano degli scalini, ma era talmente buio che non si riusciva a vederli. Adamant e Karantir scesero lentamente, affidandosi solo al senso del tatto per capire fin dove arrivava uno scalino per poi passare al successivo. Nell’aria, si avvertiva il tanfo delle fogne cittadine, ma i due non si fecero fermare e proseguirono, sempre più in profondità. Più scendevano e più veniva da pensare che stessero per entrare nel Regno dei Morti. Nessuna luce li stava guidando e ormai non riuscivano più a vedere nemmeno la flebile luce che mostrava l’ingresso da cui erano entrati.
   Adamant cominciò a pensare che quella fosse una trappola: magari Karantir puntava sul portarlo in un luogo oscuro per colpirlo alle spalle o magari c’erano altri barbari ad aspettarlo nell’ombra. In ogni caso, non se ne preoccupò: anche con quell’oscurità che lo circondava, Adamant era certo di riuscire a cavarsela.
   Scesero ancora, forse per un quarto d’ora, fino a quando terminarono gli scalini e iniziarono a scorgere una flebile luce in quello che sembrava un corridoio. Avanzarono, tenendo una mano appoggiata contro un muro alla loro destra: anche se non potevano vederlo, si capiva dal tatto che era un muro roccioso; quella parte del passaggio, era stata scavata nella roccia.
   «Ci siamo!» esclamò Karantir, arrivati infine alla luce. Davanti a loro, c‘era una porta di legno massiccio e, quando il barbaro la spalancò, rivelò una grande caverna dall’aria umida e dall’odore nauseante. Non erano le fogne, ma si poteva descrivere con la stessa parola; “una fogna”.
   Appena Adamant uscì dall’oscurità del passaggio, rimase colpito di scoprire che esisteva un luogo simile sotto la città. Era una caverna abitata da poveri e furfanti, sia chiari che scuri, i quali si accampavano in tende o semplicemente in un angolo con le loro poche cose a dimostrare che quello spazio apparteneva a loro. In lontananza, c’era una piccola cascata che cadeva nel fiume sottostante.
   «Il mercante che cerchiamo vive qui» disse Karantir.
   «Posto accogliente!»
   «Risparmiati il sarcasmo, Adamant! Questa gente è già fortunata ad avere questo posto dove vivere.»
   «E tu non credere di darmi lezioni di vita!» rispose Adamant con tono severo. «So benissimo come vive la gente povera per strada e ti assicuro che ho visto gente che aveva persino meno di loro. Forse sei tu che non hai ancora visto abbastanza!»
   Karantir non rispose. Avanzò senza curarsi che Adamant lo seguisse.
   Facendosi strada in quella caverna, sotto gli occhi di tutti i presenti, Adamant seguì Karantir, fino a una tenda ridotta piuttosto male: il tessuto era strappato e logoro, i colori sbiaditi e alcuni fori erano stati ricuciti di certo da mani inesperte. Karantir entrò, senza avvisare, ma uscì pochi istanti dopo.
   «Non c’è» spiegò il barbaro.
   «Dove potrebbe essere?» domandò Adamant, chiaramente seccato.
   «Potrebbe essere ovunque e andare a cercarlo sarebbe inutile. Ci conviene aspettarlo qui, tanto tornerà, prima o poi.»
   Adamant si sedette vicino alla tenda, appoggiandosi a una parete della caverna. Karantir fece lo stesso, ma più distante. La gente che abitava in quel luogo continuava a fissarli: non erano abituati a vedere uomini armati che non fossero ladri da quelle parti e alcuni stavano certamente pensando se derubarli.
   A un certo punto, Adamant parlò. «Ancora non credo a questa storia di Vatran, ma… ponendo che tu dica il vero, perché non sei mai venuto da me a chiarire la questione?»
   Karantir non lo guardò nemmeno. «Mi hai creduto un traditore! Avresti mai pensato di credermi se mi fossi presentato senza prove?»
   «Avrei potuto darti una possibilità, ma te ne sei andato e non ti sei mai fatto vivo in questi quindici anni. Quindi sarebbe per questo che non mi hai cercato? Temevi che ti avrei ucciso?»
   «No! Il vero motivo è che volevo risolvere questa cosa da solo. Non mi è mai importato del torto che Vatran ti ha fatto, solo di quello che aveva fatto a me. Sapevo che eri vivo e questo mi bastava, ma dovevo uccidere Vatran da solo.»
   «Mh… non sei affatto cambiato! Sempre a pensare a te stesso!»
   «Non ti ho insegnato niente? Pensare agli altri ti complica solo la vita.»
   «Ti sbagli! Questo è quello che pensi come barbaro, ma la verità è che, a volte, bisogna affidarsi agli altri.»
   Karantir sputò a terra.
   «In ogni caso, sempre ponendo che tu sei davvero innocente, se tu fossi venuto da me tempo fa… ti avrei dato la possibilità di scagionarti. Ma sei fuggito e le tue azioni parlano chiaro. Alla fine di questa storia, che tu abbia detto la verità o meno, il traditore morirà!»
   Passarono quasi un’ora ad aspettare, senza dire altro. Poi, a un certo punto, Karantir si alzò da terra, con lo sguardo fisso su un uomo che si stava avvicinando a loro. Era un uomo magrolino, dalla pelle scura, i capelli neri e vestito di stracci che trasportava una sacca sulle spalle. Quando vide Adamant e Karantir, mostrò un volto preoccupato.
   «Posso aiutarvi?» chiese l’uomo.
   «Certo che sì, Jona» rispose Karantir, levandosi il cappuccio.
   Jona lasciò cadere a terra la sacca; l’espressione di preoccupazione divenne di terrore. «K… Karantir? Che… che ci fai qui? Non… non avrai bisogno di me, vero?»
   «Non sarei qui, altrimenti.» Karantir si avvicinò a Jona, appoggiando una mano sulla sua spalla. «Non devi preoccuparti, voglio solo delle informazioni.»
   Jona sospirò, sollevato. «Che sollievo! Per un attimo ho temuto che tu…»
   «Basta perdere tempo!» s’intromise Adamant. «Cerchiamo un uomo che ha comprato una casa qui in città, ma usa un altro nome. Noi lo conosciamo come Vatran.»
   «Vatran? Intendete… l’ex capitano del regno perduto di Regem?»
   «Esatto!» continuò Adamant. «Sai dove si trova?»
   «Certamente! Conoscere certi segreti fa parte del mio lavoro!»
   «Allora dicci quello che sai e in fretta» riprese Karantir.
   «Ma certo! L’uomo che cercate, ora si fa chiamare Sar.»
   Adamant aveva già sentito quel nome. «Questo nome non mi è nuovo.»
   «Difficile non conoscerlo. Parliamo di uno dei produttori di vini più ricchi della città, anche se… la sua ricchezza non deriva solo dalle vendite del suo vino. Dovete sapere che fa affari con i criminali di Storvan e…»
   «Dove si trova!» tagliò corto Adamant.
   «E va bene! Lo potete trovare in due posti. Al suo vigneto fuori città, dove ci passa le giornate, oppure a casa sua.  Casa sua si trova nel centro città, vicino alla piazza con la statua di Amuneus. Difficile non riconoscerla, dato che è la più grande delle abitazioni vicine a quella statua.»
   Karantir sorrise. «Grazie, Jona. Sapevo che potevamo contare su di te.» Detto ciò, si rivolse ad Adamant. «Andiamo a casa sua. Meglio muoverci di notte; a quell’ora lo troveremo certamente lì»
   Adamant annuì e seguì Karantir che lo stava precedendo, ma prima lasciò qualche moneta d’oro a Jona. «Per le informazioni. E spero per te che siano vere!»
   Jona guardò sbalordito le monete che gli erano state gettate a terra. «Ma certo! Non resterete deluso. Grazie, buon uomo!»
 
 
La casa di Vatran fu facile da trovare, proprio come aveva detto Jona. Era alla destra della statua del dio Amuneus, molto grande, ma molto simile agli altri edifici della citta per quanto riguardava l’estetica. Se non si sapeva quale edificio cercare, era molto difficile riuscire a trovarlo.
   Adamant e Karantir si ritirarono in una locanda nelle vicinanze, mentre attendevano il calare della notte. Il barbaro bevve come una spugna, mentre Adamant rimase sobrio. Voleva avere la mente lucida per la sfida che stava per affrontare e se Karantir gli stava mentendo, la confusione dell’alcol gli avrebbe facilitato il compito di ucciderlo.
   Durante l’attesa, Adamant buttò ogni tanto lo sguardo sulla statua di Amuneus, il re degli dèi. Nella capitale di Regem c’era una statua dello stesso dio, ma immensamente più grande; Adamant andava spesso a vederla, quando era bambino. Amuneus era rappresentato in diverse forme, ma in quel caso, la statua del centro città lo mostrava come un uomo muscoloso, vestito con una toga e con le leggendarie tre spade: una del potere, una della saggezza e una del coraggio. Tuttavia, a Regem si credeva che il dio avesse anche una quarta spada, immensamente più potente delle altre tre e che usava raramente per il suo immenso potere distruttivo, ma quella statua non la mostrava.
   Quando l’ultimo raggio del sole svani fra le montagne, sostituito dalla luna e dalle stelle, Adamant e Karantir andarono a casa di Vatran. L’edificio era illuminato solo dal bagliore della luna e dalle flebili luci che venivano dalle finestre. L’ingresso era sorvegliato da due guardie in armatura di cuoio, ma non erano le solite guardie cittadine; erano chiaramente dei mercenari.
   Fu Adamant il primo a farsi avanti e a parlare con le guardie. «Buona sera! Siamo qui per vedere il signor Sar.»
   Una delle guardie si fece avanti. «Avete un appuntamento?»
   Adamant avrebbe potuto mentire, ma preferì essere sincero. «In realtà no, ma io e il signor Sar siamo vecchi conoscenti e dovrei discutere con lui di alcune faccende.»
   Karantir sospirò; avrebbe voluto fare irruzione e massacrare tutti.
   «Senza un appuntamento, il capo non vi riceverà. Levatevi dai piedi, o dovremo sbudellarvi!» esclamò la guardia, minacciando Adamant estraendo la spada dal fodero.
   «Sono certo che mi riceverà quando gli direte che un vecchio conoscente è venuto per incontrare Vatran.»
   Le due guardie si lanciarono uno sguardo confuso. Evidentemente, non sapevano del passato del loro capo.
   «E va bene,» riprese la guardia «aspettate qui!»
   Passarono alcuni minuti, tempo nel quale Adamant pensò a cosa dire. Di certo Vatran doveva dargli delle spiegazioni per non essere venuto da lui. Il suo comportamento faceva pensare che fosse davvero un traditore, ma era stato davvero lui a far entrare i barbari nella capitale di Regem?
   Alla fine, la guardia tornò, insieme a un uomo in armatura argentata, come l’elmo che aveva Karantir. Adamant riconobbe subito Vatran: aveva i capelli rasati rispetto al passato e la barba era grigia; qualche ruga gli segnava il volto e anche una vecchia cicatrice sul setto nasale.
   Quando Vatran vide Adamant e Karantir, i suoi occhi verdi si spalancarono. «Mi chiedevo chi potesse conoscere il mio vecchio nome. Mi aspettavo Karantir, ma di certo non voi, altezza!»
   «Mi devi delle risposte, Vatran. Per anni ti ho creduto morto e ora scopro che ti sei rifatto una vita. Il tuo comportamento è alquanto sospetto, tanto da farmi mettere in dubbio la tua lealtà. Ora rispondi a questa domanda… hai tradito Regem facendo entrare i barbari nella capitale?»
   Vatran sorrise; non mostrava alcun segno di pentimento. «Non cercherò scuse e non ne ho bisogno. Sì, Adamant, ho aiutato io i barbari!»
   Non servivano altre parole. Adamant sfoderò la spada e la impugno con entrambe le mani; la lama cristallina brillava di una luce verde sotto i raggi della luna. Anche Karantir fece lo stesso, assaporando già il sangue dell’imminente scontro.
   Vatran non fu da meno e sfoderò il suo spadone che teneva dietro la schiena e le sue guardie si misero in sua difesa. «Vuoi davvero tentare di uccidermi? Devi essere più stupido di quanto ricordassi!» disse Vatran. «Ma, in fondo, non dovrei aspettarmi niente di meno da un principe viziato!»
   «Ti assicuro Vatran che per colpa tua non esiste più quel principe viziato. Ora, ci sono solo io!»
   Vatran avvertì una sensazione di terrore mentre fissava Adamant negli occhi. Sentiva che il suo vecchio principe era diventato un uomo diverso, ma non voleva crederlo. «Se vuoi davvero sfidare la sorte, ti accontenterò!» Detto ciò, fece cenno alle guardie di attaccare, mentre lui si allontanò all’interno della casa.
   Adamant attese che una delle guardie facesse la prima mossa e a quel punto scattò, tagliando di netto la sua testa. L’altra guardia non fu più fortunata, venendo travolta dalla furia di Karantir che, con un grido bestiale, aveva gettato a terra l’avversario e lo colpì ripetutamente alla testa con la spada come se fosse una mazza.
   Vatran vide tutto questo, mentre era ancora nel cortile. «Guardie,» gridò con tono spaventato e furioso «uccideteli!»
   In men che non si dica, da ogni porta e finestra dell’abitazione, spuntarono fuori delle guardie, tutte che correvano verso l’ingresso, armati di spade, mazze e asce.
   «Ci divertiremo!» Detto ciò, Karantir corse verso le guardie armate, urlando come un vero barbaro, e le travolse.
   Adamant fu più prudente, preferendo osservare la situazione. Le guardie erano tutte nel cortile, ma probabilmente ce ne sarebbero state altre insieme a Vatran, il quale era ormai dentro l’edificio. Le uniche vie d’accesso erano la porta principale, un’altra sul balcone che era raggiungibile da una scalinata e le varie finestre. Tuttavia, non se la sentiva di lasciare solo Karantir e allora si unì allo scontro.
   Karantir ne aveva già ammazzate due, quando un’altra guardia stava per colpirlo alle spalle, ma Adamant arrivò in tempo e trafisse il nemico alle spalle. Il barbaro gli fece un cenno di gratitudine e poi tornò allo scontro. Nel frattempo, Adamant aveva ingaggiato altre due guardie, entrambe sicure di riuscire a sopraffarlo, ma appena tentarono un attacco incrociato, si resero conto del fatale errore. Adamant schivò il colpo mettendosi fra le due guardie prima che le loro spade s’incrociassero per colpirlo e, a quel punto, girò su se stesso, decapitandone una, mentre l’altra le infilò la spada nella bocca, trapassandole il cranio da parte a parte.
   Poco dopo, dalla balconata superiore comparvero altre guardie armate di balestra. Adamant le notò subito e raccolse un’ascia da uno dei cadaveri per poi lanciarla contro una di loro. Karantir, accorgendosi di quel pericolo, fece lo stesso, ma ne lanciò due che andarono entrambe a segno. I balestrieri rimasti, rendendosi conto di quanto fossero inarrestabili i due, buttarono a terra le balestre e fuggirono via, forse verso un’uscita secondaria.
   Mentre lo scontro proseguiva, Vatran si era rintanato nella sua stanza al piano superiore, osservando dalla finestra lo svolgersi del combattimento. Sapeva che Karantir era un guerriero temibile, ma non si sarebbe mai aspettato una simile abilità nel combattimento da parte di Adamant; lo riteneva persino più pericoloso del barbaro. Si domandò come fosse possibile che il principe di Regem, un tempo viziato e scarso in battaglia, era diventato un vero guerriero.
   Alla fine dello scontro, il cortile era un bagno di sangue. Adamant si strofinò gli occhi con il braccio per ripulirsi dal sangue, mentre Karantir si stava ancora divertendo a pestare a sangue uno dei cadaveri.
   «Basta, Karantir» disse Adamant, scuotendo il barbaro per una spalla. «Vatran non deve scappare!»
   «E allora cosa aspetti? Vai da lui e sbudellalo!»
   Adamant non ribatté. Fra i due, lui era quello che aveva più diritto a prendersi la vita di Vatran. Allora corse, aprendo la porta d’ingresso con un calcio. La casa all’interno era molto decorata: tende e tappeti rossi, dipinti e statue di grande valore e mobili di fattura pregiata; ma non erano importanti in quel momento. Nel salone d’ingresso in cui si trovava, Adamant venne ingaggiato da tre guardie, una delle quali era molto grossa e robusta. Non si fece spaventare e si avventò su di loro, schivando il fendente di una delle guardie, per poi infliggergli un profondo taglio alla schiena. A quel punto, arrivò la guardia robusta, caricando per travolgerlo, ma Adamant scivolò sotto le sue gambe, tenendo la spada alzata e infliggendogli una ferita dolorosa e zampillante fra le gambe. L’ultima rimasta, invece, gettò la spada a terra, implorando di essere risparmiata e Adamant la accontentò, spingendogli la testa con forza contro una parete per stordirlo. Ormai, nessun ostacolo lo separava dalla sua vendetta.
   Arrivato al piano superiore ed entrando nella stanza di Vatran, Adamant trovò il traditore che aveva cercato per quindici anni. Era seduto sul letto, con lo spadone puntato a terra e su cui era appoggiato. Non aveva più l’espressione preoccupata.
   «Non hai vie di fuga. Quindi, se sei davvero un guerriero, affrontami!» disse Adamant, con la spada imbrattata di sangue sempre stretta fra le mani.
   «Devo ammetterlo, non mi sarei mai aspettato un’impresa simile da te, principino!» Vatran sembrava sicuro di se. «Ma tu non hai affrontato le battaglie che ho affrontato io. Ho combattuto per tuo nonno contro un popolo di barbari più agguerrito e in terre ostili, dove la natura stessa era nostra nemica. Ho affrontato anche molti mostri nel Deserto Rosso, liberandolo da quegli abomini. Mentre tu cos’hai fatto? Certo, hai guidato un esercito per riprenderti Regem, uccidendo il re dei barbari, ma non hai affrontato altro!»
   Adamant non rispose. Lui aveva delle domande da porre ed era ciò che avrebbe fatto. «Perché, Vatran? Perché ci hai tradito?»
   Vatran si alzò, sollevando lo spadone con una mano. «Tuo padre stava distruggendo Regem!»
   «Cosa? Ma mio padre ha portato il regno al suo massimo splendore!»
   «Questo è vero, ma era anche il segno della sua stupidita! Regem era un regno nato per sterminare i barbari e prendere le loro terre, ma tuo padre voleva ottenere la pace con loro. Tuo nonno, invece, aveva ambizioni più grandi! Sognava di sterminare i barbari e poi conquistare il dominio sul mondo, ma il tempo fece il suo corso prima ancora che ciò accadesse…
   «Quando tuo padre salì al trono, speravo che potesse essere come il suo predecessore e, per un po’, ci ho creduto. Conquistammo il Deserto Rosso e poi sperai che avremmo continuato le nostre conquiste, ma lui si dimostrò debole e pacifista.»
   «Quindi ci hai tradito perché non volevi la pace con i barbari?»
   «Non per quello, ma per il mio sogno di portare Regem a dominare sul mondo. Tuo nonno mi aveva promesso che sarebbe avvenuto, un giorno, ma tuo padre disse il contrario, distruggendo le mie speranze. Fu allora che decisi di aiutare i barbari; loro mirano alla conquista e non pensano a trattati di pace, quindi, combattendo per loro, avrei potuto vedere il mio sogno avverarsi… almeno fino al giorno in cui hai rovinato tutto!»
   Adamant corrugò la fronte; aveva capito di cosa stava parlando. «Quando ho ucciso Borg, vero? La caduta del loro re dei barbari per mano di un re di Regem era la dimostrazione che avevi fallito e ti hanno cacciato, dico bene?»
   Gli occhi di Vatran erano iniettati di sangue. «Se tu te ne fossi stato tranquillo a vivere una vita tra la gente comune, a sbatterti qualche puttana e poi a sbattertene una con cui avresti messo su famiglia, le cose ora sarebbero migliori per entrambi.»
   «Migliori? Tu mi hai portato via tutto! Mio padre, la mia casa, i miei amici, ma, quel che è peggio, è che hai condannato il mio popolo alla furia dei barbari. Quante donne sono state stuprate? Quanti uomini e bambini sono stati torturati e massacrati? Tutto per un tuo stupido sogno?»
   «Tu non puoi capire!» Vatran si lasciò prendere tanto dalla rabbia da agitare lo spadone e decapitare una statua vicino al letto. «Hai sempre avuto tutto e non hai mai avuto sogni per cui lottare!»
   Adamant, che fino a poco fa stava ribollendo tanto dalla rabbia da non riuscire a trattenersi dall’attaccare, si calmò. «Io avevo un sogno… ma tu me l’hai portato via! Tuttavia, devi essere contento: le tue azioni mi hanno fatto maturare e diventare il re che Regem avrebbe meritato. Mi hai reso un guerriero!»
   Vatran impugnò lo spadone con entrambe le mani. «E allora, mostrami la tua regalità in combattimento, guerriero!» E così partì all’attacco.
   Adamant schivò il fendente che gli arrivò dall’alto e tentò un affondo, ma Vatran lo colpì con un pugno, facendolo arretrare. Adamant sanguinava dal naso, ma non se ne preoccupò; questo lo fece solo infuriare ancora di più. Si avvicinò lentamente all’avversario, aspettando il suo attacco. Allora Vatran fece roteare lo spadone in aria, ma non per colpire, solo per disorientare, per poi andare con un altro fendente dall’alto. Questo riuscì quasi a prendere Adamant, ma lui fu più svelto e schivò anche questo, per poi afferrare l’impugnatura dello spadone per bloccarlo. Vatran tentò di liberarsi, ma venne poi colpito da una testata, poi da una seconda e in fine da una terza; quest’ultima lo fece arretrare, lasciandolo disorientato.
   «Vuoi sapere una cosa?» chiese Adamant, continuando ad attaccare con la spada. «Mi aspettavo uno scontro impegnativo contro di te… ma mi stai deludendo!»
   Vatran parò ogni colpo con lo spadone e anche con i bracciali dell’armatura. «Deludendo? Vorresti fare il gradasso, principino?» Preso dalla rabbia, tentò un altro fendente, ma stavolta dal basso. Adamant lo parò con la sua spada, la quale non venne scalfita dalla grossa lama dello spadone.
   «Immagino che sia dovuto a quello che ho affrontato da quando Regem è caduto. Sono certo che le storie sono giunte anche alle tue orecchie, vero?» Adamant colpì ancora, riuscendo a ferire lievemente l’avversario al fianco destro.
   Vatran, stringendo i denti per la lieve ferita, riflette su quello che Adamant gli aveva appena detto. Aveva sentito storie sul suo conto, ma credeva fossero solo storie. In quel momento, un forte timore lo travolse e tutto fu più chiaro; non avrebbe vinto quello scontro.
   Adamant continuò a infierire. Notò una certa insicurezza in Vatran, comprendendo così quali pensieri gli stavano balenando in testa e allora tentò l’assalto finale. Uno dopo l’altro i suoi attacchi sbatterono contro lo spadone del nemico o contro le parti della sua armatura, seguiti dal forte rumore del metallo che sbatteva e dalle scintille. Più colpiva e più accelerava, fino a quando, improvvisamente, si arrestò. Vatran ebbe un attimo di respiro; lo spadone tenuto a stento fra le mani.
   «È finita!» Con queste parole, Adamant si avvicinò la spada al viso, con la lama rivolta verso l’alto. Sembrava un gesto comune, ma qualcosa di insolito accadde. La lama cominciò a brillare di una luce azzurra, ma stavolta non per i riflessi della luce; era avvolta da un’energia che aveva l’aspetto di fiamme azzurre. A quel punto, Adamant agitò la spada, disegnando archi nell’aria e facendo ballare le lingue di fuoco, per poi colpire con un fendente. Vatran si difese con lo spadone, usando tutte le sue forze, ma non sentì mai il colpo sbattere sulla lama.
   Senza che Vatran se ne accorgesse, Adamant era alle sue spalle. La sua spada era tornata normale e la rinfoderò. «La mia vendetta, si è compiuta!»
   Vatran non capiva cosa stava dicendo, ma poi, all’improvvisò, cominciò a sentirsi stanco. Non riusciva muoversi e, a seguire, avverti una fitta di dolore al petto. Fu allora che notò una profonda ferita che ancora era avvolta da quelle fiamme azzurre e la lama dello spadone era stata tagliata di netto. Qualunque cosa avesse fatto Adamant con quella spada, era riuscito a tagliare lo spadone di Vatran e anche l’armatura e il corpo che proteggeva senza la minima fatica. Voleva dire qualcosa, ma le parole non uscirono; non ne aveva la forza. Poi, quando il mondo cominciò a oscurarsi, cadde a terra, privo di vita, in una pozza di sangue. Il traditore era morto.
 
 
EPILOGO
 
 
L’alba del nuovo giorno rischiarò il mondo. Una luce che per Adamant apparve diversa: non aveva mai assistito all’alba, libero dai suoi pensieri di vendetta, prima di quel giorno, il giorno in cui ogni questione in sospeso che riguardava Regem, la sua caduta e suo padre erano stati risolti. Nessuna questione in sospeso. Quella, per lui, era un’alba nuova.
   Karantir era in groppa alla sua puledra, vicino ad Adamant, anche lui in groppa al suo cavallo. Entrambi stavano ammirando l’alba, lontani da Storvan; la luce del sole brillò sulla città ormai quasi coperta dalle montagne. Una leggera brezza investì i due, agitando i loro capelli.
   Il barbaro lanciò un’occhiata ad Adamant. Per la prima volta, lo vedeva con occhi diversi. Le storie che aveva sentito sul suo conto lo avevano già convinto che il principe che conosceva era una persona diversa e gli eventi della notte precedente lo convinsero ancora di più. Davanti a lui, in groppa al fiero Bucefalo, c’era un re.
   «Che farai ora?» chiese Karantir.
   Adamant aspettò qualche istante prima di rispondere. «Continuerò a vagare per questo mondo, a combattere chiunque si metterà sulla mia strada e chi minaccia i deboli. Quello che ho sempre fatto da quel giorno di quindici anni fa.»
   «Sai… mi stavo chiedendo una cosa. Perché non torni dove c’era Regem e inizi a ricostruirla?»
   «Non sarebbe la stessa.»
   «Che importa? Magari sarà un regno piccolo all’inizio, ma tutti i regni hanno dovuto cominciare così, persino quello della tua famiglia.»
   Adamant fece girare Bucefalo, in modo da poter guardare Karantir dritto negli occhi. «La mia stirpe, il nostro dominio, il nostro legame con Amuneus e la nostra missione, sono ormai un ricordo. Eravamo destinati a sterminare i barbari, ma ormai non ha più alcun valore quel destino. Non m’importa di avere un regno, un trono o dei servi, voglio solo continuare sulla strada che ho scelto di percorrere.»
   Karantir sorrise. «E dove ti condurrà la strada che hai scelto, altezza?»
   Adamant non rispose. Spronò Bucefalo a muoversi e, lentamente, superò Karantir, il quale rimase immobile.
   «Ti devo delle scuse, Karantir» Disse Adamant, fermandosi un istante. «Ma, allo stesso tempo, sento che il mio odio verso di te… non è svanito.»
   «Gli uomini fanno prima a odiare che a perdonare. Quando capiscono di aver giudicato male una persona, l’odio che provavano verso quella persona non svanisce, aspetta un altro motivo per tornare a odiarla. Per quindici anni hai covato questo odio nei miei confronti, non stupirti di non essertene liberato. In fondo, a me non importa che tu mi odi o meno!»
   «Davvero? E allora perché conservi quel disegno che ti feci anni fa?»
   Karantir non rispose, ma divenne rosso.
   Adamant sorrise. «Addio, vecchio mio!» E con queste parole, i due si salutarono.
   Non si sarebbero più rivisti, ma da quel giorno, Karantir, quando gli avrebbero chiesto che tipo era Adamant, lui avrebbe risposto con queste esatte parole: “Un re senza trono, ma che side sul cavallo più fiero. Un re senza patria, ma che vive nel mondo. Un re senza popolo, ma che serve e protegge tutti i popoli. Adamant è un re sopra tutti gli altri. Un re che ha superato i confini imposti agli esseri umani e che ha provato e visto cose che non possiamo immaginare. Un re vicino agli dèi, ma più nobile e giusto di loro. Un re dei re!”
 
 
FINE
   
 
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