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Autore: fumoemiele    14/09/2019    15 recensioni
Mi domandai dove diavolo avessi trovato la forza d’alzarmi dal letto dopo tutto quell’alcool, ma infilai i residui rimasti del caffè nella macchinetta e sperai che bastasse a lenire il dolore dei coltelli che mi trapassavano il cranio. Niente zucchero, la dolcezza è per i ragazzini. Io ero un uomo e per tanto quella mattina avrei cercato un nuovo lavoro.
[Terza classificata al contest "Una macchia di storia" indetto sul forum di EFP da Inchiostro_nel_Sangue]
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Urla e polaroid
 
 
 
                          

Mi svegliai all’alba. I colori aranciati avevano superato i vetri della finestra e mi stuzzicavano il viso, portando così il mio corpo ad alzarsi nonostante sentissi ancora addosso tutto l’alcool della notte prima.
Mi infilai in bagno lasciando la porta aperta. Vivevo da solo e non c’era nulla di cui dovessi vergognarmi.
Mezz’ora dopo sollevai lo sguardo sullo specchio. Il riflesso era sfocato, incerto; il vapore prodotto durante quella lunga doccia aveva riempito tutto di goccioline d’acqua.
Dovevo controllare in che stato fosse la mia faccia. Ero reduce della solita nottata in solitudine, accompagnato solo da una bottiglia d’alcool – d’assenzio, per la precisione; sentivo ancora la gola in fiamme e il bisogno di vomitare incatenato allo stomaco.
Avevo perso il lavoro da un po’.
Era successo in modo così veloce che non avevo nemmeno avuto il tempo di rendermene conto. Il mio capo decise che i miei articoli facevano schifo, erano scritti male – io non concordavo, l’unico errore che ho accettato di rivedere in quei tre mesi è stato un congiuntivo sbagliato, ma capita a tutti di parlare o scrivere male dopo una sbronza apocalittica, no?
Non mi sembrava una cosa troppo grossa, insomma. Un errore da nulla, un refuso dovuto alla distrazione e soprattutto alla fretta, perché quel lavoro faceva schifo e non avevi il tempo di sviluppare un’idea nuova e innovativa che arrivava una carrellata di altri articoli squallidi da buttare giù, una lettera alla volta in un ciclo continuo e pieno di stronzate e menzogne da rifilare agli esseri umani sciocchi.
Non ne potevo più della scrittura. Un tempo sognavo di essere uno scrittore e ne parlavo spesso con i coglioni del bar dietro l’angolo – quello che il mercoledì vende gli shot a prezzo scontato – ma nessuno mi ha mai creduto. Secondo il loro parere non ho mai iniziato nessun romanzo e sono troppo cafone per scrivere un giallo. Pazienza. Gli ho risposto che quando sarò uno scrittore affermato potranno anche piangere, non gli firmerò nessuna cazzo di copia – e fanculo i brindisi del sabato a mezzanotte.
Infilai dei pantaloni informi, utilizzati troppo spesso negli anni per poter rimanere intatti. Lo shopping è roba da ragazzine. Decisi di uscire a cercarmi un altro lavoro sapendo anche che sarei stato lontano dalle cazzo di lettere, nell’attesa che mi tornasse l’ispirazione per portare a termine quel romanzo inedito e incompleto in maniera originale – avevo smesso di scriverlo perché mi pareva di aver preso un po’ troppa ispirazione da un libro di Patricia Cornwell, e quella donna ha troppi lettori per non rifilarmi un’accusa di plagio e un calcio nei coglioni.
Controllai la sveglia appiccicata alla parete, segnava ormai le nove del mattino. Mi domandai dove diavolo avessi trovato la forza d’alzarmi dal letto dopo tutto quell’alcool, ma infilai i residui rimasti del caffè nella macchinetta e sperai che bastasse a lenire il dolore dei coltelli che mi trapassavano il cranio. Niente zucchero, la dolcezza è per i ragazzini. Io ero un uomo e per tanto quella mattina avrei cercato un nuovo lavoro. Mi serviva perché mi erano rimasti solo cinquecento dollari, più o meno, nel portafoglio. Decisi che li avrei investiti per ricavarne altri, ma come? Non sarei cascato nella trappola delle slot machine, quelle ti danno l’impressione che stai guadagnando qualcosa e poi ti fottono tutto e rimani con la bocca mezz’aperta e l’aria da fesso. Solo quando sei fuori dalla stanza piena di stronzi puoi incazzarti, tirarti i capelli – ammesso che tu li abbia ancora – e prendere a calci un palo della luce perché hai perso tutto per inseguire un’illusione.
Prima di uscire di casa controllai il calendario appeso alla parete. Avevo solo due settimane prima di dover saldare l’affitto – e di certo i soldi rimasti non mi bastavano, soprattutto considerando che fra bottiglie d’alcool, serate al bar e qualcosa che mi aiutasse a trovare un nuovo lavoro ne avrei spesi ancora.
Bighellonai a lungo per la città, impiegando tutta la mattina per camminare fra un vicolo e l’altro e smaltire la sbronza. Entrai in un paio di bar, chiedendo se c’era un posto di lavoro per un povero stronzo sulla via del lastrico, ma mi risposero tutti di no. Avevano infatti delle belle cameriere dagli abiti succinti a servire i clienti o a rubare mance extra alla cassa.  
Un tizio vestito da clown, sul cipiglio del marciapiede, fermava alcuni passanti e si metteva in posa per scattare con loro una foto, richiedendo subito dopo alcune monete. Aveva provato quel trucco anche con me, una volta, ma l’avevo mandato a farsi fottere. Non era facile spillarmi soldi dal portafogli, a meno che non si trattasse dell’alcool. In quel caso non ci pensavo due volte a comprarmi una bottiglia di whisky e bere fino a non capirci più un cazzo.
Fu allora che mi venne un’idea, ma era troppo campata in aria per stuzzicarmi davvero il cervello.
Stavo per arrendermi, tornare a casa a mangiare l’ultima confezione di fagioli in scatola rimasta, quando il mio sguardo fu catturato da una bancarella dell’usato. Una vecchia donna stava riponendo in una borsa di pelle i suoi strumenti in vendita, probabilmente anche per lei era arrivato il momento di tornare a casa a pranzare – aveva una casa? A giudicare da quanto erano logori i suoi abiti ne dubitavo. Mi fermai di fronte al suo tavolino, controllando gli oggetti in vendita, mentre un’idea sempre più concreta iniziava a farsi spazio dentro di me. A un certo punto capii che era un segno del destino, doveva essere per forza così.
La vecchia possedeva degli accendini vecchio stampo – alcuni non funzionavano nemmeno –, dei quadri di alcuni pittori sconosciuti, dei soprammobili di dubbio gusto e che io non avrei mai fatto entrare in casa mia. L’unica cosa che catturò davvero la mia attenzione era nelle mani della donna, stava per riporla nella borsa quando la fermai.
«Posso vederla?» chiesi, e la donna mi allungò la macchina fotografica dall’aria malconcia, era una Polaroid. Il cerchio al centro mi parve in un primo momento un buco nero in cui avrei rischiato di sprofondare, se l’avessi fissato un po’ più a lungo. Era vecchia e usata, ma vederla bastò per farmi venire qualche idea. Avevo fallito con la scrittura, ma non avevo mai provato nient’altro. Sapevo di essere una persona creativa e sapevo di avere una speranza per diventare qualcuno ed evitare di firmare autografi agli stronzi del bar dell’angolo. Quei pensieri mi bastarono. Decisi di farle un’unica domanda – anzi, due; mi serviva anche contrattare per il prezzo – per sfatare ogni dubbio. «Funziona?»
«Sì, funziona. È usata e un po’ messa male, ma funziona.»
«Il prezzo?»
«Non saprei, nessuno vuole mai comprarla quando inizio a dire delle cifre. Voglio liberarmene, ho bisogno di soldi. Quanto pagheresti per averla?»
Mi rovistai nelle tasche, tirando fuori dal logoro portafogli di cuoio usurato alcune banconote e delle monete. «Ho solo trecento dollari» mentii, mi sarebbe piaciuto tenere gli altri duecento per bere. Ne avrei avuto bisogno. L’alcool ha sempre avuto il privilegio di rendermi più creativo, di farmi ricamare arte. Di solito riesco a scrivere mille parole quando mi ubriaco. Poi il mattino dopo mi rendo conto di quanto poco senso abbiano, ma alcune frasi sono davvero poetiche, qua e là. Una volta ho scritto: la vita è come una sbronza al bar.
Niente, non continua più di così, è solo questa; perché mi guardate in quel modo? La trovo geniale. Una riflessione filosofica degna di stare nei libri che studiano i ragazzetti del college, quelli che si convincono che studiare il pensiero di quattro idioti del passato possa mutare l’instabile presente.
Comunque la donna mi sorrise, prendendo i soldi dalle mie mani. «Non so come si usa, apparteneva a un vecchio amico di famiglia.»
Lo immaginavo, sicuramente non sarebbe stata la mia insegnante d’arte. Avrei appreso con la pratica. Il mio nuovo lavoro poteva essere emozionante e non vedevo l’ora di sfoggiare il mio nuovo acquisto al bar, dimostrando a tutti che potevo diventare qualcuno, bastava crederci. È quello che dicono tutti gli strizzacervelli del cazzo, no? Se hai un sogno credici, si realizzerà. Basta crederci, basta volerlo.
Che stronzata.
Scattai una foto all’asfalto per controllare che funzionasse e la macchina fotografica sputò fuori una foto bianca. Non si vedeva nulla e la mostrai alla donna per farle vedere che non c’era niente.
«Bisogna aspettare un po’» spiegò lei, alzando gli occhi al cielo. Solo allora notai che il colore delle sue iridi era innaturale, un azzurro troppo pallido per esistere sul nostro pianeta. Mi dissi che ero ancora stonato dell’alcool – probabilmente era vero. Aspettai e solo dopo qualche secondo l’immagine cominciò a stagliarsi sul foglio. Non mi importò della prima foto e la lasciai alla donna come regalo, per ringraziarla d’avermi dato un lavoro – senza neanche saperlo. Avrei lucrato eccome sui prossimi scatti.
Tirai un sospiro, camminando verso casa. Pranzai con la televisione spenta e il silenzio, la macchina fotografica ferma sul tavolo della cucina mi fissava con il suo occhio cieco, chiedendomi di essere usata, supplicandomi di schiacciare qualche tasto e farle sfrigolare frammenti di vita passata, racchiusi in un’unica immagine piatta, statica. Intrappolare il tempo, saziare la fame di ricordi che con la vecchiaia sfumano via e non tornano più, si disperdono in un mare di cattiveria e marciume – forse senza alcool scrivo meglio, non credete anche voi?
Mandai giù il pranzo in un paio di cucchiaiate, poi mi pulii le mani sulla maglietta e decisi di iniziare a lavorare. Finalmente avevo qualcosa da fare, potevo occupare il mio inutile tempo libero con qualcosa che non fossero i libri indecenti che scrivevo.
Mi resi conto in quel momento di non aver mai provato una vera e propria passione per la scrittura. Dopo aver riposto nel cassetto i sogni vecchi, lasciai risorgere i nuovi come fenici dalle ceneri – prima o poi tornerò uno scrittore, inizio a rivalutare il mio talento.
Mi sistemai di fronte allo specchio e decisi di partire come tutte le ragazzine su Instagram. Scattai una foto premendo il pulsante e dopo un ronzio la macchina la vomitò fuori. La sventolai, in attesa che si formasse l’immagine, e quando la vidi corrugai le sopracciglia. Un brivido mi percorse la spina dorsale, inspiegabile, e sul quadrato comparì la mia solita faccia. Forse a causa dei colori scuri non mi riconobbi, in un primo momento; sentivo che un elemento non era al suo posto ma non riuscivo a capire quale fosse.
Scrollai le spalle e decisi di scattarmi un’altra foto, ma questa volta non davanti allo specchio, girai semplicemente la fotocamera in modo da guardare il cerchio nero, l’occhio cieco. Ancora premetti l’indice sul pulsante – con un po’ più di fatica e cercando di tenerla ben piazzata davanti a me. La foto vomitò fuori dall’apertura e la sventolai per un paio di secondi, fino a visualizzare il risultato.
Il mio viso era sempre lo stesso, eppure – forse a causa dell’assenza di colore, poiché erano foto in bianco e nero – appariva comunque differente. Non sembravo io e nello specchiarmi avvertivo lo sguardo di un’altra persona guardarmi. Quasi come se avessi catturato qualcun altro lì dentro e non me stesso.
Le fotografie avevano una qualità pessima. Quella macchina era vecchia e malmessa, ma era comunque l’unica che potevo permettermi in quel momento.
Avevo bisogno della creatività per scattare delle foto decenti, così girovagai per casa alla ricerca di una bottiglia rimasta. Ne trovai una piena a metà di whisky e decisi di accontentarmi, qualora avessi avuto bisogno di altro alcool mi sarebbe bastato scendere e camminare per meno di mezzo chilometro.
Avevo davvero molta sete e mandai giù parecchi sorsi lunghi, ustionandomi la gola ma continuando imperterrito a bere. Bisogna sapersi ubriacare con quello che si ha, far salire subito la sbronza e il malessere che genera l’arte.
Mi venne voglia di lasciar perdere, di restituire quella vecchia macchina fotografica e tornare a scrivere e vomitare parole per non sentire tutto quel silenzio, per non dover chiacchierare da solo con i miei pensieri, ma desistetti. Non mi aveva portato a nulla, non ero abbastanza, ci avevo creduto e non era bastato perché non è mai sufficiente la speranza, se non hai fortuna. E in quell'aggeggio avevo visto questo: del denaro da racimolare.
Senza un minimo di pratica e dimestichezza con quell’affare però non sarei andato lontano, quindi continuai a scattarmi un paio di foto da diverse angolazioni, osservando il mio profilo e accendendo luci differenti. Passai tre ore a scattarle, solo allora terminò il rullino.
Provai a fare l’ennesima fotografia; ero sul pavimento, vicino alla finestra, lasciando illuminare l’immagine dai raggi naturali del sole alle due del pomeriggio, ma non riuscì a fare nulla. Un grosso verme bianco uscì al suo posto, dimenandosi per liberarsi dall’ingranaggio. Lasciai di scatto la macchina fotografica, pentendomi subito dopo nel sentirne il tonfo e sperando di non averla rotta. Mi rimproverai per essere stato una mammoletta e schiacciai la larva con la suola delle scarpe. Si spiaccicò sul pavimento e trattenni una smorfia disgustata alla visione del suo interno gocciolante. Per quanto mi sforzassi di essere uomo in quel momento non riuscii a riprendere la macchina fotografica.
Mi apprestai a osservare tutte le foto scattate. Ne avevo fatte così tante che avevo riempito quasi totalmente il pavimento della cucina. Notai che il mio aspetto, man mano che le foto andavano avanti, diventava sempre più strano, distorto. Le luci erano sempre scure, per quanto mi sforzassi di renderle più bianche. Non avrei venduto a nessuno delle fotografie fatte così male, ma quel problema passò in secondo piano. I miei pensieri iniziarono a vorticare furiosi mentre mi lasciavo cadere sul pavimento e spostavo le immagini da una parte all’altra, nel tentativo di capire perché il mio volto fosse sempre un po’ più diverso. Con gli occhi spalancati andai di fronte allo specchio del bagno, guardando il mio riflesso e notando che era mutato anch’esso assieme alle foto. Iniziai a essere confuso: ero cambiato da solo o erano stati gli scatti a mettere quelle differenze? Il ricordo del vero me stesso appariva quasi come una nuvola sbiadita. Chi ero stato? Com’era il mio volto prima dell’arrivo della stanchezza, dei segni dell’alcool, della vecchiaia che non può essere fermata?
Afferrai la fotocamera e decisi in quel momento che l’avrei restituita a quella donna maledetta. Ne ero certo: era una fottuta strega, una pazza di quelle che hanno venduto l’anima al diavolo.
Prima di uscire di casa però mi calai tutto l’alcool rimasto nella bottiglia. Quando mi sollevai dal pavimento, strisciando con le spalle al muro, vidi la casa traballare e pensai ci fosse il terremoto perché il lampadario oscillava da destra a sinistra, paragonabile al pendolo di un ipnotista. Cercai di respirare e di mantenere il controllo, afferrai la vecchia polaroid e mi precipitai all’uscita. Trattenendo un conato di vomito istantaneo – appena mi si formò in testa l’immagine della larva che si accartocciava su se stessa fu immediato – provai a premere di nuovo il tasto per scattare un’altra foto, e questa volta uscii fuori e spalancai gli occhi quando si stagliò nello spazio bianco. Il mio volto era lo stesso, pareva fosse andato a male come del cibo lasciato troppo a lungo fuori dal frigo, ma i colori… i colori erano diversi. Quel nero mostruoso e claustrofobico era diventato più tenue, le linee erano meno rigide e marcate e nell’angolo in alto si intravedeva una striscia d’arancione. Eppure quella linea di colore mi diede speranza, un sentimento flebile, quasi di rinascita. Come se fossi una crisalide finalmente pronta a evolversi.
Richiusi la porta di casa e decisi di scattare un’altra foto. Con i colori sarebbe andata meglio e, ne ero sicuro, il mio volto sarebbe tornato normale. Era un ciclo, ne fui certo, e stava per terminare e ricominciare al meglio.
Un ronzio e vomitò fuori un’altra foto. La striscia colorata aveva preso una porzione lievemente più vasta, e così ne scattai altre in maniera ripetuta, veloce, per fare in modo che i colori tingessero il mondo scuro e fatto di stelle spente.
Fu allora che iniziai ad apprezzare la mia arte e capii che avevo un vero talento. Era rimasto silenzioso e latente a lungo dentro di me, ne ero certo. Fanculo la scrittura, ancora! Molto meglio catturare istanti reali e tangibili, piuttosto che le sciocche illusioni riprodotte da menti troppo logorroiche per cucirsi la bocca.
Ero pronto. Mi spruzzai del profumo addosso e mi sciacquai i denti con il collutorio per sembrare un fotografo per bene. Era la mia prima comparsa in pubblico, quella, ed ero sicuro che sarei diventato ricco e avrei offerto da bere agli stronzi del bar, finito il turno di lavoro. Più tardi cambiai idea ovviamente, non si meritavano un cazzo.
Uscii di casa e mi incamminai verso il centro. Mi fermai sul corso con la macchina fotografica stretta fra le mani, mi appoggiai a una parete grezza e aspettai. Passarono cinque minuti prima che si avvicinasse nella mia direzione un gruppetto di adolescenti. Erano tre, due maschi con ancora troppi pochi peli sulla faccia per essere considerati uomini e una ragazza con i capelli corti – troppo corti, quindi la diedi per lesbica dichiarata.
Guardarono la mia macchina fotografica con occhio interessato, quindi decisi di rompere il ghiaccio – anche se mi sentivo ancora sbronzo. «Salve, ragazzi! Volete una foto? Siete i miei primi clienti, vi farò scegliere il prezzo!» tentai, cercando di apparire allegro. Loro mi guardarono, strani, ma alla fine accettarono e si misero in posa.
«Sorridete un po’!» li incitai, posizionando dritta la macchina fotografica e impegnandomi per realizzare uno scatto decente.
La fotografia vomitò fuori impiegandoci più tempo delle altre, e anche l’immagine apparì con una lentezza superiore sul foglio. Quando venne fuori, però, sul riquadro non comparvero i tre adolescenti del cazzo, ma il mio faccione scosso e deforme, piegato in maniera innaturale. Loro impallidirono a quella vista e si allontanarono, semplicemente, lasciandomi scosso e incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Col senno di poi credo l’abbiano giudicato uno scherzo.
Io restai immobile a fissare l’immagine distorta, sebbene fosse colorata, perfettamente colorata – rimanendo nei limiti del grigiore dei palazzi alle mie spalle.
Sbottai scazzato. Non aveva nessun senso, quella macchina fotografica funzionava in modo assurdo e non mi avrebbe causato nulla di buono continuando per quella strada.
Stavo per tornare a casa e arrendermi, spaccando in mille pezzi l’aggeggio infernale, quando mi venne in mente un ultimo tentativo da fare. Avevo preso a camminare, allontanandomi dal corso pieno di gente e sviando in stradine meno popolate, dunque cambiai la mia traiettoria e iniziai a camminare vicino al mare. In quel periodo dell’anno il vento innalzava le onde spumose e lasciava che si schiantassero contro gli scogli disperdendo goccioline sull’asfalto poco più distante. Il sole iniziava a tramontare e mi sentivo stanco, malinconico e scosso.
Guardai un’ultima volta la vecchia macchina fotografica, la girai e fotografai il mare. Sbucò fuori, ancora, il mio viso tirato e storto. Fu allora che sentii il dolore del mondo pesarmi addosso, l’eco di un urlo lontano, distante, eppure intenso tanto da spaccarmi i timpani. Sentii il tutto e il nulla, la monotonia, il caos e la solitudine, tutti in unico scatto.
Mi guardai intorno, spaesato, come se non ricordassi il perché mi trovassi in prossimità del mare al crepuscolo, con il cielo tinto di sangue in una macchia informe e il sole a bruciare, pur tramontando, pur spegnendosi quasi al falso contatto con l’acqua.
Mi avvicinai a un uomo seduto su una panchina, poco più distante, e fu allora che mi abbandonai all’ultimo, misero tentativo di capirci qualcosa. Gli consegnai la macchina fotografica, chiedendogli di scattarmi una foto. Lui mi guardò stranito, forse si domandò cosa diavolo avessi di bello da fotografare con il volto scavato dalla follia, dall’alcool e dai pensieri rancidi, eppure accettò, la prese fra le mani e io mi sentii così geloso che quasi gliela strappai dalle dita di nuovo. Mi bloccai, ingoiai il groppo che mi opprimeva la gola e lasciai che l’uomo m’intrappolasse nell’immagine.
La foto venne fuori. Il vecchio me la lasciò fra le mani e si allontanò. Non trovai nemmeno le parole per ringraziarlo, continuai a guardare la foto comparire sul foglio, schiarirsi e colorarsi di rosso.
Sfiorando con le dita ossute il cielo nella foto le mie mani si sporcarono di un liquido vermiglio quanto il sangue. Spalancai gli occhi, scuotendo la foto per far apparire quella cazzo di immagine, mentre una strana sensazione mi dilaniava dall’interno. Sentivo dei coltelli affilati tagliuzzarmi lo stomaco, lame che affondavano fra un organo e l’altro e laceravano, riducevano a brandelli ogni frammento d’esistenza.
Quando l’immagine comparì del tutto notai ancora quel volto tirato, le labbra spalancate, gli occhi erano due orbite vuote che fissavano il nulla sterile e nascosto dietro ogni tramonto. Il mio volto urlava, sebbene sapessi d’aver fissato senza espressione l’obiettivo. Il crepuscolo dietro al mio corpo aveva i toni del sangue coagulato, i colori si mischiavano in un solo istante psichedelico. Guardai le mani che mi circondavano il volto, allungate, appoggiate al viso tirato fino all’estremo, secco, l’ombra di uno scheletro fatto d’ossa e paure.
Abbandonai la macchina fotografica nell’acqua e specchiandomi il mio riflesso mi dilaniò come un colpo deciso alla nuca. Le onde lo distorcevano ulteriormente, rendendo quel quadro astratto, disilluso, ma colorato di arancione e blu.


Note
Il pacchetto che ho scelto per questo contest è il seguente: 
"Da Urlo": “L’urlo” - Munch. Condizione: La storia deve svolgersi nell’arco di un’intera giornata. 

Ebbene, questa sezione mi mancava, però al tempo stesso non sono sicurissima di aver inserito l'os in quella giusta. Più che altro, in alternativa, dove dovrei metterla? Perché comunque è abbastanza leggera come storia, priva di sangue, omicidi, scene splatter e la solita roba, però boh, non saprei proprio dove altro infilarla. 
La scelta di far terminare la storia con il quadro non è mia, ma riguarda il contest stesso, doveva finire con quest'immagine. Avrei voluto dare delle spiegazioni plausibili per ciò che succede, ma a causa di ciò devo lasciarvi il mistero, dunque siete liberi di credere a quello che preferite. 
E niente, spero che vi sia piaciuta, io mi sono divertita un sacco a scriverla e a far delirare 'sto tizio. :)
Alla prossima <3 

 
 

 

   
 
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