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Autore: mido_ri    18/09/2019    1 recensioni
Aleksey e Alaric sono uniti da un insolito legame che permette all'uno di percepire sensazioni e pensieri dell'altro.
Isolati dal mondo intero, tristi e diversi, si incontrano e realizzano di non essere soli, ma di essere destinati a ricongiungersi dopo una lunga e inspiegabile separazione.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Secondo

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Ed eccoci al secondo capitolo di Aleksey l'Esploratore. Comprendo come questo mio atteggiamento sarcastico possa essere alquanto irritante ma, si sa, dopo un duro colpo l'unica arma che abbiamo contro la vita è la risata. 

In ogni caso cercherò di intromettermi nel racconto il meno possibile per lasciare spazio alla sola voce narrante (che, indovinate, è sempre la mia!) e mi mostrerò per quello che, al tempo, ero davvero.

* * *

Come ho già detto, Hopewell era un vero e proprio mortorio. Non c'era nulla da fare e, nel caso in cui un ragazzo volesse davvero svagarsi, poteva sempre prender parte alle attività settimanali del gruppo ecclesiastico della città. Molti entravano a farvi parte per noia, disperazione o semplicemente per prendere in giro gli educatori. Ma c'era anche chi riusciva a spassarsela in quel luogo: ogni sabato sera la piazzetta comunale era assediata da un gruppo di ragazzini delle scuole medie che si divertivano a impennare con la bicicletta e a far tintinnare ripetutamente il campanello; e come biasimarli? In fondo non c'era nulla da fare lì e io, alla loro età, facevo esattamente lo stesso. Era una sottospecie di rituale caratteristico di Hopewell: se eri un ragazzo e andavi alle medie, allora dovevi fare lo sbruffone in bicicletta. Con l'inizio del liceo abbandonai l'unico mezzo di svago che avevo, non che mi dispiacesse ululare e ridacchiare mentre impennavo sulla bicicletta; semplicemente, una volta cominciato il liceo, mi resi conto di non avere amici. Quel posto era davvero terrificante: potrebbe sembrare strano, ma a Hopewell c'erano più ragazzi che adulti ed erano tutti concentrati in quella struttura scolastica, l'unica nel raggio di molti chilometri. Infatti frequentavano il mio stesso liceo tanti studenti provenienti dalle piccole città limitrofe ed era come se ogni giorno ne arrivassero di nuovi; non vedevo quasi mai le stesse facce, eppure di solito nelle piccole città ci si stanca proprio perché si vedono sempre le stesse persone. Gli unici che ero in grado di riconoscere erano i miei compagni di classe, anche se non ricordavo alla perfezione i nomi di tutti. Be', neanche loro ricordavano il mio, effettivamente era un nome un po' inusuale da quelle parti.

Quel giorno c'era la neve. La neve ad Hopewell. E pensare che si trova al Sud, a confine con il mare. Quell'inverno era da pazzi. A scuola tutti urlavano e cercavano di lanciarsi delle palle di neve a vicenda, anche se se ne era accumulata ben poca. Dal canto mio, andai dritto in classe poiché stavo morendo di freddo. Aveva cominciato a nevicare mentre mi trovavo già nello scuolabus, per cui non avevo fatto in tempo a portare con me un giubbotto più pesante. Mi sedetti al banco, incrociai le braccia e assunsi un'espressione corrucciata. Quando quella mattina mi ero guardato allo specchio, avevo notato di avere delle occhiaie terrificanti e il tutto perché durante la notte non ero riuscito ad addormentarmi. Il fatto era che mi ero preso un bello spavento, uno di quelli che non ti fanno chiudere occhio per mesi interi. Era da un po' di tempo che non sentivo più nulla... mi riferisco a quegli strani fastidi che mi capitava spesso di percepire; ma quella notte tutt'a un tratto qualcuno aveva chiamato il mio nome, ne ero più che sicuro. Una voce triste ma curiosa. Aveva detto proprio "Al". Okay, forse non era proprio così che mi chiamavo ma, poiché mia madre era solita abbreviare il mio nome in quel modo, in un primo momento mi convinsi del fatto che fosse stata lei, tanto che le risposi. Andai avanti per un paio di minuti, dicendo soltanto "mamma!" sottovoce, come un completo idiota. In realtà sapevo benissimo che non era stata lei a chiamarmi, in primo luogo perché potevo chiaramente sentirla russare nell'altra stanza, e poi perché a dire il mio nome era stato un ragazzo, non c'era alcun dubbio. Con mia grande fortuna, però, udii quella voce soltanto una volta e, pian piano, tentai di convincermi che era la stanchezza a tirarmi brutti scherzi, anche se alla fine non riuscii ugualmente a prendere sonno. Ed ecco perché stavo lì con quell'espressione assonnata e confusa, chiedendomi quando il mio corpo avrebbe deciso di terrorizzarmi di nuovo. Ormai ero abituato a parlare di me stesso come di un'altra persona, come se la mia coscienza fosse separata da tutto il resto, ma ripeto, non sono pazzo.

I miei compagni di classe entrarono tutti insieme, alcuni schiamazzando, altri leccandosi la neve dalle mani... sì, proprio così. Io, intanto, stavo rimuginando su una previsione che aveva fatto mia madre quella mattina. Ho già detto che quella donna è ossessionata con tutto ciò che rientra nel campo degli oroscopi, dei tarocchi, della scaramanzia e così via? Bene, proprio prima che uscissi di casa per dirigermi alla fermata dello scuolabus, mi aveva afferrato le spalle con aria sconvolta, dicendomi che il mio segno zodiacale era in una posizione perfetta - o una cosa del genere - e che la cosa era successa una volta sola in tutta la mia vita, ossia quando avevo quattro anni. Le chiesi perché sembrasse così spaventata e lei mi rispose che, in seguito a un avvenimento troppo positivo, la legge di equilibrio degli eventi tende a far accadere qualcosa di estremamente negativo per controbilanciare. Feci finta di aver capito e le accarezzai la testa con apprensione, cercando di tranquillizzarla almeno in parte. Qualsiasi cosa lei ritenesse che sarebbe accaduto, a me non poteva importare di meno, perché non avevo mai creduto a quella roba, anzi, non riuscivo neanche a ricordare quale fosse il mio segno zodiacale.

Non mi capacitavo del fatto che quel giorno mi sarebbe potuto succedere qualcosa di positivo; e poi, dopo quella notte passata insonne, ne avevo abbastanza di fenomeni paranormali. In ogni caso tutti i giorni erano noiosi allo stesso modo, quindi non vedevo cosa sarebbe potuto accadere di così strabiliante.

* * *

L'anziano professore di storia era intento a declamare i pregi di Hopewell, cosa che faceva costantemente da quando mia madre aveva la mia stessa età - e forse anche prima -, per cui giudicai opportuno rinunciare a seguire la lezione e mettermi a pensare ad altro, anche se effettivamente non avevo un bel niente a cui pensare. Per giunta il mio compagno di banco era assente e le ragazze davanti a me, spinte dal loro ambizioso desiderio di primeggiare sempre e comunque, prendevano appunti senza sosta anche se ascoltavamo quella roba dal primo giorno delle superiori. Avevo così tanto sonno che la testa mi penzolava a destra e a sinistra, perciò fui costretto a mantenerla con entrambe le mani e con i gomiti appoggiati sul banco. Quando riuscii finalmente a trovare un argomento stimolante per il mio cervello - ossia chiedermi per quale motivo il professore schioccasse la lingua ogni volta che doveva cominciare una nuova frase - una voce mi distrasse, facendomi sobbalzare. Mi guardai intorno, ma erano tutti impegnati a fare altro. Poi di nuovo: "Al!". Questa volta sobbalzai davvero e una delle ragazze sedute al banco davanti si voltò con aria infastidita e mi fece cenno di far silenzio. Avrei voluto risponderle che neanche a lei sarebbe interessata quella stupida e noiosa lezione su Hopewell, se avesse avuto a che fare con un fantasma che parlava nella sua testa, ma non era il caso di gettarmi la zappa sui piedi in quel modo. Mi schiarii la voce e mi chinai con il viso contro la superficie del banco. A quel punto era chiaro che a chiamarmi era stata la stessa voce della notte precedente. Dunque non si era trattato della mia immaginazione. Affatto calmo, decisi di fare un tentativo e sussurrai coprendomi la bocca con le mani.

- Che cosa vuoi?

Nel profondo speravo forse di intimidire chiunque stesse cercando di contattarmi, anche se era assurdo soltanto pensare che ci fosse realmente qualcuno dall'altra parte. Ci furono pochi secondi di attesa, poi la risposta mi colpì con tanta violenza che potei quasi sentire il cervello vibrare.

"Grazie al cielo, ci sono riuscito."

Ero più che sicuro di non aver mai sentito un fantasma ringraziare il cielo, ammesso che fosse un fantasma. Sinceramente ci speravo, perché ulteriori opzioni mi spaventavano ancora di più. In ogni caso pensai che fosse meglio rispondere e verificare il livello di assurdità di quella situazione.

- A fare cosa?

Forse la ragione mi aveva davvero abbandonato, perché stavo letteralmente rispondendo a una voce che potevo sentire soltanto io. Per accertarmene mi guardai intorno per l'ennesima volta, ma erano tutti concentrati sulle loro cose.

"Non sono un fantasma. Tu, piuttosto, sei Al?"

Non avevo idea di come avesse fatto quella cosa a sapere che l'avevo definita fantasma, ma il timore di conoscere la risposta superava di gran lunga la curiosità.

- Credo... L'unica cosa certa è che non sono una persona sana di mente.

Mai come in quel momento desiderai chiamarmi in un altro modo. Cosa voleva da me? Perché cercava proprio me?

"Rispondimi seriamente, sei tu Al?"

Mi grattai la nuca e mi chinai ancora di più sul banco. Quella situazione era surreale. Forse stavo ancora dormendo e non avevo preso lo scuolabus, effettivamente era strano che quella mattina avesse perfino nevicato.

- Sì, sono io. E tu chi sei?

Tanto valeva dargli corda, speravo soltanto di svegliarmi a breve, anche se qualcosa mi diceva che quello, purtroppo, non era un sogno.

"Anche io mi chiamo Al."

- Grandioso. Quindi sto parlando con me stesso?

Lo speravo con tutte le mie forze: non potevo aspettarmi molto da un mio alter ego più macabro e inquietante, soltanto la passione per i film horror.

"Ti ho già chiesto di rispondermi seriamente. Si tratta di una questione importante."

- Voglio soltanto sapere chi sei e che cosa vuoi da me.

"Vivi a Hopewell, non è così?"

Ignorò completamente la mia risposta.

- Dannata Hopewell... Sì, ma te la sconsiglio per le vacanze estive.

"Anche io. Quindi frequentiamo la stessa scuola. Lo immaginavo."

Compreso che quella cosa non era affatto il mio alter ego, non mi restava altro da fare che spolverare le vecchie leggende urbane e credere di star parlando con il fantasma di un alunno che era stato ucciso in quella scuola tanti anni prima.

"Ti ho già detto che non sono un fantasma. Un'altra cosa... prova a rispondermi con la mente, non riesco a sentirti bene."

- E come faccio?

Mi aveva di nuovo letto nella mente. Era tutto così assurdo che a quel punto rinunciai a cercare una spiegazione. Scelsi di prenderla con leggerezza.

"Pensa a quello che vuoi dirmi. Devi solo pensare."

Aggrottai la fronte e trattenni il respiro. Poi pensai a qualcosa da dire.

"Broccoli bolliti."

"Bravo. Ora ti sento molto meglio."

"Questo è senza dubbio il sogno più figo che abbia mai fatto."

"Non è un sogno, purtroppo è la realtà e io ho bisogno di te... almeno credo."

"Sì, sì, tipica frase da sogno. Ma quand'è che finisce?"

"Al, smettila. Facciamo così, incontriamoci nello scuolabus dopo la fine delle lezioni."

"Perché? È così bello parlare in questo modo."

"Non se lo fai per più di cinque minuti. Mi sta scoppiando la testa. Senti... ho i capelli biondi e uno zaino blu, tienilo bene a mente. Ciao..."

"Non credo di riuscire a riconosc- hey? Ci sei?"

Nessuna risposta.

E fu così che ebbi la mia prima conversazione con la mente, cosa che realizzai essere reale non appena la voce dall'altra parte fu scomparsa. La voce del professore risuonava monotona fra le quattro mura e nessuno sembrava essersi accorto di nulla. Non ebbi neanche il tempo di ripensare a ciò che era accaduto, che una terribile sensazione di nausea si impadronì del mio stomaco e mi causò le vertigini. Fui costretto a scappare in bagno; mi inginocchiai di fronte al vaso, convinto di dover rimettere, ma pian piano ricominciai a respirare normalmente e quella sensazione svanì. Era durata soltanto un paio di minuti. 
Mi sedetti con la schiena contro il muro del bagno ed emisi un sospiro profondo. Cosa mi stava succedendo? Ero chiaramente sveglio, ma com'era stato possibile parlare con un'altra persona senza averla davanti? Scossi la testa e la collocai fra le ginocchia che mi tremavano un po'. Per la prima volta nella mia vita avevo paura. E non quella paura che proviamo dinanzi a un animale aggressivo o in un luogo sconosciuto, ma quella paura che proviamo nel riconoscere di essere di fronte a qualcosa di troppo grande, che non possiamo sconfiggere con le nostre sole forze; quella paura che ci fa contorcere e annodare lo stomaco e sudare freddo. Una paura schiacciante. 
Mi ci volle un bel po' per ritrovare la calma e ritornare in classe. Durante la pausa pranzo non toccai cibo e non parlai con nessuno.

La campanella che segnava la fine delle lezioni quel giorno arrivò alle mie orecchie come un suono tetro, che portava con sé cattivi avvenimenti. Prima di mettere piede sul bus, esitai finché il ragazzo dietro di me non spinse con violenza, imprecando. Ero stato così lento a raggiungere la vettura che non c'era più nessun posto a sedere, o almeno così mi sembrò fino a quando non adocchiai un sedile vuoto accanto a un ragazzo con il capo chino. Il posto era occupato dal suo zaino. Uno zaino blu. Prima che potessi indietreggiare e far finta di non essermi mai avvicinato a lui, l'altro notò la mia presenza e mi rivolse uno sguardo languido, accompagnato da un sorriso comprensivo.

- Ti stavo aspettando, vedi? Ti ho conservato il posto. È anche quello vicino al finestrino.

Spostò lo zaino con diligenza e indicò il sedile con un gesto lento e cortese. Non fui in grado di fare altro oltre a guardarlo imbambolato, sentivo di non essere in grado di muovere un solo dito. 

- Non vuoi? D'accordo, ma qui non si siederà comunque nessuno.

Raccolse lo zaino da terra e lo rimise al suo posto. Io continuavo a guardarlo e, anche se dal mio sguardo vitreo poteva sembrare che stessi pensando a tutt'altro, stavo invece cercando di registrare ogni sua azione e lineamento. 
Era biondo, come mi aveva detto, ma si trattava di un colore più chiaro di quanto mi aspettassi. La pelle del suo viso era bianca quasi quanto la mia, ma lo sembrava molto di più per via dei capelli chiari. A fare da contrasto con quel candore, due occhi grandi e castani e, ironia della sorte, tante lentiggini sparse sul naso e su buona parte delle guance. 
Ero così confuso e incredulo che avrei potuto dire o chiedere mille cose in quel momento, ma dalle mie labbra uscirono le uniche parole che forse avrei fatto meglio a serbare per me.

- Hai la faccia piena di stelle.

  
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