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Autore: Nina Ninetta    25/09/2019    3 recensioni
Prima classificata al contest "Tattoo studio" indetto da Juriaka sul forum di EFP
Immersa nella Napoli dei primi anni '90, la vita matrimoniale di Annalucia, insegnante di Storia dell'Arte, scorre tranquilla e serena. Una notte però una telefonata sconvolgerà per sempre il corso degli eventi: sua cognata è morta in un incidente d'auto e suo marito decide di adottare il proprio nipotino di tre mesi, sebbene Annalucia sia stata categorica: lei non vuole bambini nella sua vita! Costretta in un'esistenza che non riconosce più, sarà proprio una persona inaspettata a farle aprire gli occhi e a ridonarle la libertà perduta.
Seconda classificata al contest "L'enigma dell'Uroboro" indetto da _Freya Crescent_ sul forum di EFP
Quinta classificata al contest "Una macchia di storia" indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP
Quinta classificata al contest "I miei undici libri" indetto da Claireroxy sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2
 
 
Nei mesi seguenti la neve si sciolse e ogni cosa tornò normale, meno che loro.
Ad Annalucia sembrava di vivere una vita che non le apparteneva, prigioniera di scelte che non dipendevano da lei e questa cosa la fece sprofondare in una crisi esistenziale. Spesso aveva la sensazione di osservare da fuori ciò che le accadeva, senza averne il controllo, spettatore non pagante della sua stessa vita. Di notte, quando Samuele piangeva, si alzava dal letto e lo prendeva in braccio, cullandolo fin quando non si riaddormentava. Oppure gli dava il biberon e poi lo rimetteva nella culla che Giuseppe aveva comprato una settimana dopo il rientro a Napoli.
Un pomeriggio Annalucia era tornata a casa dopo il lavoro e aveva trovato Giuseppe e Franco intenti a montare la culla per Samuele, mentre Assunta teneva in braccio quest’ultimo.
«Che cosa state facendo?» Aveva chiesto, ovviamente rendendosi subito conto di quanto banale e scontata risultasse quella domanda e la relativa risposta.
«Ti piace?» Era subito intervenuta sua suocera. «L’ho scelta io per il pesciolino di nonna».
Annalucia era stata scossa da un brivido e senza aggiungere altro si era chiusa in bagno, aggrappandosi al lavabo con le nocche che gradualmente erano diventate esangui, osservando la sua immagine riflessa allo specchio. Aveva 33 anni, i 34 erano alle porte, ma tutto sommato se li portava bene. Certo, il fisico esile e la carnagione chiara davano una mano, ma erano soprattutto i capelli il punto forte della sua persona. Nonostante avesse superato i 30 infatti, non aveva neanche un capello bianco, e per questo doveva ringraziare il gene di suo padre che a sessant’anni era appena brizzolato. I capelli cadevano in boccoli morbidi fino alle spalle, senza frangetta, in una tonalità fra il castano e il biondo scuro. Gli occhi tendevano al verde bottiglia quando le giornate erano soleggiate, sebbene fosse solita considerarli color caramello. Poche persone erano state in grado di notare quella sfumatura nelle iridi e suo marito era stato uno di questi il giorno che si conobbero. Una vita fa.
Il martellare incessante la portò a ridestarsi da quelle considerazioni. Uscì dal bagno e vide che Giuseppe stava montando la culla in camera da letto. La loro camera da letto. I suoceri non c’erano, poteva sentirli giocare con Samuele in cucina, pensò quindi di approfittarne per scambiare due parole con il marito.
«Amò avresti almeno potuto chiedermi dove mettere la culla.»
«E dove avresti voluto che la mettessi? Fuori al balcone?» Giuseppe diede un altro paio di martellate, con maggior vigore. Ormai conversare con lui senza ricevere una risposta stizzita era diventata una cosa più unica che rara.
«Una volta mi chiedevi anche se potevi andare a fare la doccia» Annalucia si sforzò di far sembrare il tono simpatico. «Parlavamo tanto e soprattutto lo facevamo tutti i giorni…» si chinò al suo fianco per lasciargli un bacio fugace, ma Giuseppe si scostò.
«Prima che mia sorella si rompesse il collo vuoi dire?»
Annalucia si ritirò, ferita e nauseata. Ogni volta che tentava un approccio spontaneo o di tornare – più o meno – alla vita che avevano condiviso fino a quel momento, lui tirava in ballo Rosa e la sua morte. Chiuse gli occhi, sforzandosi di non piangere e soprattutto di tenere ferma la voce tremolante.
«Ho dimenticato una cosa a scuola. Vado a riprenderla.»
«Ok».
Annalucia fece per uscire dalla stanza, poi aggiunse:
«Penso di fermarmi a prendere un caffè con Rita, se per te non è un problema.»
«Ok».
 
Ovviamente non aveva nessun appuntamento con Rita, sua collega e amica, né tantomeno doveva recuperare qualcosa all’istituto, aveva solo bisogno di schiarirsi le idee e di fuggire da quell’appartamento. S’incamminò senza neanche sapere dove fosse diretta. Per abitudine salì a bordo del tram e scese a Fuori Grotta un quarto d’ora dopo. Era la strada che faceva ogni mattina per andare al lavoro e di ritorno da Vercelli aveva scoperto che la vecchia routine le dava sollievo. Andare a scuola le trasmetteva un senso di calma, sebbene appena varcasse la soglia dell’istituto venisse trasportata in una sorta di mondo parallelo. Studenti che urlavano e si spintonavano; altri che si incontravano davanti ai cancelli seduti a cavalcioni sui propri motorini (probabilmente) privi di assicurazione; altri fumavano sigarette di contrabbando o spinelli senza preoccuparsi dei professori; ragazzine che si mettevano il rossetto e il mascara giocando a fare le donne. Poi arrivava in aula professori, dove ognuno si lagnava della giornata appena iniziata, pregando San Gennaro affinché finisse presto. Una volta anche lei desiderava che le mattinate passassero veloci, insegnare agli adolescenti non era semplice, ma farlo a Napoli lo rendeva ancora più difficile. La sua collega Rita era solita accoglierla con il caffè preparato dal bidello Mario, detto o’ zuopp: un cinquantenne claudicante che andava in giro con la mazza della scopa per colpire gli studenti che lo sfottevano. Dopo il caffè era la volta della sigaretta che serviva per riordinare le idee, darsi la carica e recitare mentalmente una preghiera prima di iniziare la giornata.
«Ultima sigaretta prima della condanna a morte?» scherzava Rita. Ma neanche tanto poi.
Adesso invece la situazione si era ribaltata. Non aveva più la sensazione di andare al patibolo recandosi al lavoro, al contrario di quando faceva la strada a ritroso. Aveva provato a confidarsi con Rita, ma quando era giunta al punto di confessarle che non voleva tenere il nipote orfano si era vergognata. Rita era una donna con tre figli maschi che adorava. Sebbene fosse moderna e di larghe vedute, aveva storto il muso quando – ad esempio – era stata varata la legge 194 sull’aborto circa un decennio prima. Non avrebbe mai compreso il suo punto di vista.
 
Erano trascorse le 18:30 solo da qualche minuto e nonostante fosse marzo inoltrato, l’aria era ancora fresca ma iniziava a profumare di primavera. Soprattutto Annalucia non poteva fare a meno di inebriarsi dell’odore di cibo che usciva dai ristoranti, mentre un venditore di contrabbando ascoltava a tutto volume l’ultimo successo di Nino D’Angelo. Annalucia osservò con attenzione le persone che le passavano accanto, soffermandosi sulle donne dall’aria felice, nascoste sotto i loro giubbini colorati dalle spalle larghe e i jeans a vita alta; i capelli cotonati; i grandi orecchini a cerchio e le borse a tracolla. Poi qualcosa attirò la sua attenzione. Pochi metri più in là, un uomo teneva per il braccio un ragazzo con un crocchè fumante nella mano libera. Non ebbe bisogno di avvicinarsi ulteriormente per riconoscere Andrea De Simone, il suo studente ripetente. Scattò verso di lui quando l’uomo cominciò a prenderlo a sberle.
«Ehi, ehi! Che succede?» Annalucia si intromise sperando di fermarlo.
«Questo delinquente è uscito senza pagare! Disgraziato!»
«Per un crocchè! Non l’ho ancora toccato, tieni, piagliatèll n’ atà votà» Andrea fece per porgerglielo, ma il proprietario della rosticceria gli diede un altro colpo sulla testa.
«Si fossi figlio a me… a zappàr a’ terrà ti manderei, a faticàr sotto o’sol!»
«Ok, ok. Va bene così. Glielo pago io» intervenne Annalucia prendendo il portafogli. «Quanto costa?»
«Cinquecento lire».
«Ecco.» L’uomo non ringraziò neanche, di nuovo si accinse a picchiare Andrea, ma Annalucia gli mostrò il palmo. «Ha avuto i suoi soldi. Arrivederci.» Spinse il ragazzo via con sé, mentre il proprietario continuava a inveire contro i delinquenti e il governo che prometteva, prometteva ma non faceva mai nulla di concreto per la loro situazione.
 
«Quante storie. Gli ho detto che avrei pagato domani» disse Andrea mentre Annalucia continuava a sospingerlo lungo il marciapiede tenendolo per l’avambraccio sinistro. Lo guardò male:
«Quando ti rechi in un negozio, devi pagare se vuoi acquistare. E poi davvero, saresti finito in caserma per un crocché? Un crocché
«Professorèss ne vuoi un po’?» Chiese lui ma la donna rifiutò. «Fa pure schifo! È vecchio!» Dopo il primo assaggio lo accartocciò e fece per buttarlo via, ma Annalucia gli indicò il cestino a pochi passi da loro. Lui sbuffò. «Tanto ci penseranno gli altri a fare monnèzz
«Tu devi fare le cose pensando a te, non agli altri. Te l’ho detto un centinaio di volte!» Andrea sembrava già non ascoltarla più, si guardava intorno con una mano sullo stomaco.
«Io però ho ancora fame…»
La professoressa scosse il capo, forse avevano ragione i suo colleghi: quel ragazzo era un caso perso. Irrecuperabile. Si accinse a salutarlo, a dargli appuntamento al giorno successivo in classe, eppure quando parlò disse altro:
«Vuoi cenare con me?» Lui la fissò dall’alto del suo metro e ottanta, aggrottando la fronte. «Devo mangiare e visto che anche tu hai fame… Mc Donald’s?»
«Io non mangio chelle schifèzz.» Andrea si guardò attorno. Poco più in là un gruppetto di ragazzi se ne stava seduto a fumare sulla spalliera di una vecchia panchina arrugginita. Disse ad Annalucia di aspettarlo, si avvicinò all’allegra combriccola, li salutò con una stretta di mano e un paio di bacetti sulla guancia, risero e poi salì a bordo di uno dei motorini parcheggiati lì davanti. Tornò dalla professoressa e le fece cenno di salire a bordo.
«Oddio! Non monto su uno Ciao da anni» sghignazzò lei.
«Avanti. Ti porto a mangiare in un ristorante super chic!» Annalucia si accomodò alle sue spalle. Aveva un buon odore, un misto fra tabacco e balsamo per capelli. «Professorèss, paghi tu ovviamente!»
«Ovviamente».
 
Il ristorante chic di cui aveva parlato Andrea in realtà si rivelò essere il paninaro sotto allo stadio San Paolo. L’insegna sopra al camion citava “O’panino a’ ro’ Arturo”. Annalucia rimase interdetta, l’uomo grande e grosso ai fornelli non aveva l’aria di eccellere per pulizia, così come l’intero locale ambulante. Provò a sussurrare ad Andrea di andare via, non voleva cenare lì, ma lui stava già ordinando due panini con salsiccia e broccoli, una porzione doppia di patatine fritte e due Wührer. Poi si sedette all’unico tavolino libero e attese che la donna lo raggiungesse, aveva un sorriso radioso.
«Non mi hai chiesto cosa volessi da mangiare.»
«Devi assaggiare i friariellì, neanche mia nonna li fa così!»
«Allora una famiglia ce l’hai?»
«Certo che ce l’ho! Mica sono orfano.» A quella parola Annalucia ripensò a Samuele e suo marito. Era stata così presa dalla situazione surreale che si era venuta a creare che per un attimo si era dimenticata di loro. Ed era stata bene.
Stava bene adesso…
Nel frattempo erano arrivate birre e patate. Andrea prese la sua bottiglia e la fece tintinnare contro quella di Annalucia, quindi bevve un lungo sorso.
«Non dovresti bere» disse lei addentando una patatina fritta.
«Sono maggiorenne professorèss, posso fare che voglio
«Sei un ragazzino che si crede un uomo.»
La radiolina a batterie del paninaro cominciò a intonare la canzone preferita di Annalucia fra tutte quelle di Pino Daniele: Napule è. Andrea alzò un dito come a voler indicare le note nell’aria e la canticchiò:
«Napule è nu sole amaro. Napule è addore 'e mare. Napule è 'na carta sporca
e nisciuno se ne 'mporta…
».
Annalucia sorrise bevendo un sorso di birra direttamente dal collo della bottiglia. Ascoltò la voce di Andrea intonare quei versi. Anche lui era “‘na carta sporca” di cui non importava a nessuno?
«Mi stavi dicendo che hai una famiglia. Però nessuno viene agli incontri scuola-famiglia».
«Perché sono troppo impegnati. Mamma e papà lavorano all’Upim a Mergellina».
Per Annalucia fu una versa sorpresa. Credeva che De Simone fosse uno di quei ragazzi con una famiglia sgangherata e squattrinata. Tuttavia, osservandolo bene, non aveva per nulla l’aria di quei delinquenti da strada. I capelli erano puliti e ordinati, perfettamente lisci fino alla nuca, color biondo cenere, che lui acconciava spesso dietro le orecchie. Il giubbotto nero, forse di renna, era aperto su una t-shirt bianca con fantasie astratte, il jeans sembrava di buona fattura, così come le scarpe. Nell’insieme le ricordava il tenente Tom “Iceman” Kazansky del film Top Gun. Sì, sarebbe diventato un bel pezzo d’uomo. Cercò di annacquare quel pensiero con la birra.
«Ce l’hai la fidanzata?» Finalmente erano arrivati anche i panini e doveva ammetterlo: non aveva mai mangiato dei broccoli più buoni.
«No.»
«Tutto qui?»
«Cosa vuoi sapere? Chiedi e ti sarà dato! Forse.»
Annalucia rise. Quella era la frase che usava quando era di buon umore e in classe uno studente alzava la mano.
«Solo ”no”? Niente amore incompreso o ragazza già impegnata o storia impossibile?»
Andrea ingoiò il boccone e mosse l’indice verso di lei:
«Quello, l’ultimo. Un amore impossibile».
I loro sguardi si incontrarono a metà strada, Annalucia avvertì un lieve senso di disagio e bevve un sorso di birra più che altro per interrompere il contatto visivo. D’improvviso si chiese cosa ci facesse lì, a cena con uno studente, davanti a un paninaro e con una Wührer a metà. Non era quello il suo posto. Non osò consultare l’orologio al polso, ma ad occhio e croce dovevano essere passate le 22:00. Sarebbe dovuta essere a casa, con Giuseppe, a vedere qualche stupido quiz televisivo, a leggere un buon libro o a mettere a letto il piccolo Samuele. Già, Samuele. Il bambino che non voleva e che, senza colpe, era diventato il motivo della sua infelicità.
«Adesso tocca a me» aggiunse il ragazzo.
«Vai. Di cosa vuoi parlare ?» Si sarebbe aspettata una domanda personale, era pronta – quasi – a rispondere a ogni sua curiosità, invece Andrea la stupì:
«Voglio parlare del Napoli di Maradona. Domenica abbiamo una partita fondamentale per il campionato.»
Annalucia gliene fu grata, chiedendosi se fosse così maturo da comprendere che una domanda personale rivolta alla sua professoressa sarebbe stata fuori luogo o se, invece, era tanto ottuso da voler parlare di calcio.
 
Quando Annalucia rientrò erano le 23 passate. Nonostante avesse rifiutato più volte l’invito di Andrea di riaccompagnarla fin sotto casa, alla fine aveva accettato: passeggiare di notte per le vie di Napoli non era una scelta molto intelligente.
Ad accoglierla ci fu l’assoluto silenzio. Si sfilò le scarpe e si affacciò nella camera da letto, sussurrando il nome del marito per constatare se fosse ancora sveglio. Giuseppe però dormiva e con lui il piccolo Samuele che giaceva accanto allo zio, al posto di Annalucia. Quest’ultima restò a osservarli per un po’, delusa dal fatto che suo marito non l’avesse aspettata sveglia come invece faceva quando rientrava dopo le cene di lavoro. Per chiacchierare certo, ma soprattutto per fare l’amore. Erano ormai cinque anni di matrimonio e Giuseppe non era mai stato tutto quel tempo senza sfiorarla, anche solo con una carezza. Provò a chiamarlo di nuovo e quando lui non rispose si arrese: quella sera avrebbe dormito sul divano.
Peccato che suo marito fosse più sveglio di lei.
  
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