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Autore: moonlightstucky    26/09/2019    1 recensioni
Raccolta di onefiction Stucky ispirate a parole intraducibili.
1. Cwtch, gallese: l'abbraccio in cui ci sentiamo protetti, il posto sicuro che ci dà la persona che ci ama. E’ un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti.
2. Cafuné, portoghese: passare le dita tra i capelli della persona amata.
3. Won, coreano: la difficoltà di una persona nel rinunciare ad un’illusione per guardare in faccia la realtà.
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Cwtch, gallese: l'abbraccio in cui ci sentiamo protetti, il posto sicuro che ci dà la persona che ci ama. E’ un posto in cui niente ti turba, niente ti ferisce, niente può colpirti.
 

Avevano affittato un piccolo appartamento che non era nemmeno degno di tale nome. Una camera da letto grande quanto una scatola di fiammiferi, una cucina in cui ci si stava uno alla volta, un bagno cieco con una doccia che aveva visto giorni migliori. All’ingresso il proprietario aveva sistemato un divano da cui penzolavano le molle interne, l’aveva recuperato da una discarica e l’aveva fatto sterilizzare così da non avere insetti o topi in giro per casa. Non potevano permettersi un posto migliore. Bucky lavorava in cartiera dalle sei del mattino fino alle dieci di sera durante la settimana e nell’alimentare a due isolati di distanza da casa dei suoi nel weekend. I quattro spiccioli che guadagnava bastavano a malapena a pagare l’affitto e le medicine per Steve, che si ammalava un mese sì e l’altro pure. Bucky si prendeva cura del suo migliore amico da quando la madre si era ammalata ed era morta. Che si trattasse di dimezzare la propria porzione di riso e piselli per metterla nel piatto di Steve o di girare in casa in canottiera per farlo stare al caldo con i suoi maglioni, nonostante le temperature gelide e il riscaldamento fuori uso. E i suoi genitori gli avevano detto più volte di pensare a sé, di lasciare che la polmonite facesse il suo lavoro e si prendesse quel ragazzino gracile che non era nient’altro che uno scherzo della natura. Ma loro non capivano. Nonostante alcuni giorni non riuscissero a mettere sotto ai denti nemmeno un tozzo di pane, la fame era più sopportabile della distanza e della sofferenza che questa avrebbe causato. O insieme, o niente.
Qualche volta Steve si rabbuiava, gli urlava contro che non voleva la sua carità e che preferiva morire anziché essere un peso. Il volto gli diventava rosso e il mento gli tremava come a preparare le lacrime che sarebbero venute poco dopo. Allora Bucky gli mostrava i palmi delle mani e gli chiedeva il permesso di abbracciarlo, perché con le parole sapeva soltanto conquistare le ragazze e non era in grado di spiegare al suo migliore amico che non poteva lasciarlo morire perché lui l’avrebbe seguito. Steve si calmava quando sentiva le braccia dell’altro sul suo fragile corpo, appoggiava la fronte sulla sua spalla e sussurrava sciocchezze, qualcosa sul non meritarlo, sul non essere in grado di ricambiare i sacrifici a causa della sua stupida costituzione, sull’essere inutile e altri rimproveri che Bucky zittiva con le proprie labbra. Accedeva spesso, più volte di quante volessero ammettere. Steve era consapevole del fatto che il moro non l’avrebbe mai abbandonato, eppure continuava a tirare la corda per vedere fino a quando l’altro l’avrebbe sopportato. E così andavano a letto, troppo esausti per affrontare qualsiasi altro discorso, e si addormentavano nel lettino singolo con le gambe intrecciate e i cuori pesanti che battevano all’unisono.

Giunse la guerra, la terribile guerra. Steve era così cocciuto, voleva arruolarsi a qualsiasi costo per uno spirito patriottico che Bucky non comprendeva. Ad ogni rifiuto, dovuto a quel fisico che odiava così tanto, diventava ingestibile. Si serrava dietro una barriera di silenzio, immobile su quel divano che era scomodissimo e che puzzava di pizza stantia e di birra. Bucky tentava di distrarlo, portandogli dal lavoro dei fogli macchiati su cui disegnare e le sue mele preferite dall’alimentari. Non bastavano, non era così semplice, e il moro si arrabbiava così tanto che gli passava per la mente di abbandonarlo davvero al suo destino. Ritornava in sé quando sbatteva la porta di casa alle spalle e Steve correva alla finestra per guardarlo andare via, troppo orgoglioso per richiamarlo dentro, troppo spaventato che quella sarebbe stata la loro fine definitiva. Allora Bucky passeggiava per qualche ora nel vicinato, incapace di allontanarsi sul serio da quel mulo testardo che gli faceva saltare i nervi e lo feriva. Perché, nel caso in cui Steve fosse stato ritenuto idoneo, sarebbe dovuto partire per l’Europa e l’avrebbe lasciato in un appartamento che era minuscolo per due, ma era enorme per un’unica persona. Al calare della notte rientrava in casa e un paio di occhi annacquati gli davano il benvenuto, come a sussurrargli un ‘sono un idiota, ti amo’.

Ciò che nessuno dei due si aspettava, fu la chiamata alle armi che Bucky ricevette qualche mese dopo l’inizio della guerra. Diceva che avrebbe ucciso in fretta i nazisti e che sarebbe tornato a casa prima ancora che Steve potesse rendersene conto. Voleva dire in realtà: voglio creare un mondo migliore per noi, niente più guerra, niente più scarafaggi nello scarico della doccia, niente più fame. Sottintendeva: non so se sopravvivrò, ma almeno tu resterai in vita. Il saluto stazione fu straziante. C’erano soltanto loro due, dato che i signori Barnes avevano deciso di salutare Bucky il giorno prima, per non assistere alla partenza di quel figlio il cui ritorno non era garantito. Steve non si vergognava di far vedere le lacrime che scorrevano copiose sulle sue guance e si raccoglievano sull’arco di Cupido e sul mento. Era sempre stato il più sentimentale della coppia. Gli piaceva credere che le emozioni erano l’unico dono che madre natura gli avesse dato in abbondanza, dato che per il resto si era rivelata particolarmente matrigna con lui. E Bucky non sapeva come comportarsi, perché le emozioni le sigillava sempre in una cassaforte e ne buttava via la chiave. Voleva piangere, voleva perdere la coincidenza per restare con il suo piccoletto, voleva sparare una pallottola in testa ad Hitler e finirla una volta per tutte con quella sofferenza ingiustificata. Fece l’unica cosa che gli riusciva bene: prese il volto di Steve tra le mani e baciò via la scia salata che conduceva a quelle labbra che avevano il retrogusto dell’addio.

Passarono i primi sei mesi. La vita al fronte era difficile, Bucky dormiva con un occhio chiuso e uno aperto, accanto ad un compagno ferito a morte e abbracciato ad un fucile che ricordava nelle forme spigolose il suo Steve. Cominciava ad avere le allucinazioni, credeva di trovarsi sul divano di casa sua, una molla contro la schiena e delle ossa aguzze contro il fianco.
“Ti avevo detto di aspettarmi”, gli diceva il piccoletto, mentre con le dita sfumava i contorni degli zigomi sul ritratto che gli stava facendo senza nemmeno guardarlo in volto. Non ne aveva bisogno perché Bucky era impresso nella sua mente e conosceva con la memoria del cuore ogni suo dettaglio. Dalla fossetta sul mento, alla piega all’insù che le sue labbra avevano anche quando non sorrideva, alle profonda ruga che gli si disegnava sulla fronte quando era preoccupato o non comprendeva qualcosa. Quelle allucinazioni ad occhi aperti erano il massimo a cui poteva aspirare e gli andava bene così, perché quando si appisolava sognava di essere morto. Vedeva gli ufficiali consegnare l’infelice messaggio alla sua famiglia e al suo piccoletto; vedeva sua sorella singhiozzare e sua mamma accasciarsi sull’uscio di casa, un corpo senza spina dorsale che si afflosciava come un palloncino sgonfio e urlava contro il cielo perché gli aveva sottratto il figlio. E Steve, Dio, il suo piccolo grande Steve. Rimaneva in silenzio, stringeva le nocche fino a farle sbiancare e scuoteva la testa come a dire che non era possibile, che c’era stato uno sbaglio e che Bucky sarebbe saltato fuori da un cespuglio e avrebbe detto “ve l’ho fatta!”. L’avrebbe preso a pugni e poi avrebbe guarito ogni livido con un bacio.

Passò il primo anno. I nemici avevano lanciato una granata contro il reggimento e Bucky aveva perso il braccio sinistro. Sarebbe potuta andare peggio, ripetevano i dottori, avrebbe potuto perdere la vita. E che vita era quella che stava facendo e quella che avrebbe condotto senza un braccio? Come avrebbe potuto prendersi cura di Steve? Le infermiere anziane erano gentili con lui, gli cambiavano la fasciatura due volte al giorno e gli facevano trovare sul comodino un fiore di campo ogni volta che si svegliava dallo stato di dormiveglia in cui era sprofondato. Le infermiere giovani arrossivano quando dovevano passargli la spugna bagnata sulle spalle per evitare che la ferita prendesse un’infezione e gli dicevano che con il bel viso che aveva doveva fare l’attore, non il soldato. Bucky pensava che in un’altra circostanza ci avrebbe provato con un paio di loro, le avrebbe portate ad una fiera o al cinema, così da strappare loro un bacio e la promessa di un altro appuntamento. Continuava a fantasticare su realtà alternative, perché gli era rimasto solo quello. Il dolore era troppo e la morfina aveva esaurito da tempo il suo effetto.

Passò un anno e sei mesi. L’esercito lo congedò quando i medici l’assicurarono che non ci sarebbero state complicazioni e che sarebbe sopravvissuto. Trascorse il viaggio di ritorno a pensare a ciò che l’avrebbe aspettato, a come dire a Steve che anche se non aveva risposto spesso alle sue lettere, le aveva strette al petto durante le notti peggiori, quando la speranza di rivedere la luce del sole non c’era e i rumori della guerra coprivano il suono dei suoi pensieri. Una volta arrivato nell’antro della sua palazzina, un paio di condomini gli rivolsero uno sguardo compassionevole e lo ringraziarono per il servizio svolto per la patria. Avrebbe voluto rispondere che il patriottismo sembra una grande stronzata quando vedi morire al tuo fianco uomini delle più disparate nazionalità che credono in un Dio che permette che accadano simili orrori, ma sorrise semplicemente e si affrettò a salire i due piani di scale per raggiungere il suo piccoletto. Fece forza con la spalla buona per aprire la porta e fu accolto da una zaffata di whiskey che gli fece lacrimare gli occhi, tanto era forte. Rannicchiato in un angolo c’era Steve, in preda ai singhiozzi e coperto da un maglione che era più grande di lui.
«È questa l’accoglienza che un mutilato deve ricevere?», ci scherzò su Bucky con voce roca, perché aveva capito che era meno doloroso non prendersi sul serio che lasciarsi ammaliare dall’autocommiserazione. In un battito di ciglia un paio di braccia ossute gli si strinsero intorno e rilasciò un sospiro tremante, come se fosse ritornato a respirare dopo lungo tempo. Avevano affittato un piccolo appartamento che non era nemmeno degno di tale nome, ma avevano sempre saputo che casa erano le braccia dell’altro. E anche se a Bucky ne era rimasto solo uno di braccio, Steve era abbastanza sicuro che sarebbe bastato.

   
 
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