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Autore: ChiiCat92    02/10/2019    1 recensioni
"Nonostante i 27° e l’aria satura della tarda calura estiva, seduto con le gambe nel vuoto sulla balaustra del suo balcone all’ottavo piano si stava bene.
Lassù il vento soffiava a tratti, non rovente com’era stato durante la giornata, ma tiepido e piacevole.
Da lì aveva una visione frammentata della città a causa dei palazzoni fino a dodici piani che nascevano dal terreno come alberi di cemento. Eppure quella vista gli piaceva."
Questa storia partecipa al Writober 2019 di Fanwriter.it, lista 1, PumpINK, prompt "Bacio". #fanwriterit #writober2019 #halloween2019
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Bacio 


Nonostante i 27° e l’aria satura della tarda calura estiva, seduto con le gambe nel vuoto sulla balaustra del suo balcone all’ottavo piano si stava bene. 

Lassù il vento soffiava a tratti, non rovente com’era stato durante la giornata, ma tiepido e piacevole. 

Da lì aveva una visione frammentata della città a causa dei palazzoni fino a dodici piani che nascevano dal terreno come alberi di cemento. Eppure quella vista gli piaceva.

Al mattino il sole sorgeva oltre il palazzo di fronte, rosso come il tuorlo d’uovo immerso in un cielo rosa pesca, la sera la luna dondolava a destra e a sinistra, rimanendo sempre visibile. 

Non c’erano stelle in quel cielo, a causa dello smog luminoso, ma c’era comunque qualcosa di bello in quella vista. Forse dipendeva dal fatto che ormai ci aveva fatto l’abitudine. 

Quello era stato il suo primo appartamento, l’affitto pagato con il suo primo stipendio, la vita condivisa con i suoi primi coinquilini. Era persino giunto alla conclusione che la vita adulta non fosse poi così orribile. Non soffriva la fame, il suo lavoro gli piaceva, riusciva a ricavarsi un po’ di tempo per i suoi hobbies, e aveva soldi sufficienti per farsi almeno una settimana di vacanza l’anno: a venticinque anni era molto più di quanto qualcuno possa sperare.

Oh, e ovviamente c’era Allie. Allie riempiva quel vuoto in lui che la vita quotidiana, nonostante tutto, a volte scavava in lui. 

Allie era stata l’unica vera ragione per cui aveva abbandonato il pensiero di suicidarsi. Ma adesso si rendeva conto che non era così, la sua presenza l’aveva soltanto appannato, come lo specchio di un bagno quando si lascia scorrere l’acqua calda.

Il pensiero era conficcato nel suo cervello così a fondo da non fare più male, era diventato una colonna portante del suo essere pian pianino, senza che lui se ne rendesse davvero conto.

A chi lo guardava poteva sembrava un ragazzo realizzato, giovane, con tutta una vita davanti, mentre dentro era marcio come una mela. 

A volte si chiedeva come fosse diventato così bravo da nascondere il decadimento continuo della sua anima, così bravo che neanche guardandosi allo specchio riusciva a vederlo.

Eppure c’era, sempre.

A volte succedeva per caso, mentre pedalava per andare al lavoro. Un pensiero fulmineo quanto abbacinante. 

Sterza, buttati sotto quell’autobus.

Poi passava, ondeggiava appena, l’autobus gli sfrecciava accanto scompigliandogli i capelli, e lui continuava a pedalare. 

Quei pensieri erano così veloci e così insignificanti che finivano con l’accumularsi insieme agli altri. 

Forse avrebbe dovuto parlarne con Allie. 

Forse. 

Dondolando le gambe nel vuoto cercava di immaginare cosa sarebbe successo nelle ore subito successive al suo salto.

A quell’ora di sera non passava nessuno da quella strada, la piccola bottega all’angolo aveva già chiuso, e l’unica attrattiva poteva essere la pizzeria da asporto, ma non oggi durante il giorno di riposo. Le imposte dei palazzi di fronte erano tutte chiuse, come sempre dal momento che si trovavano così vicini l’uno all’altro da poter letteralmente vedere negli appartamenti altrui.

Nessuno l’avrebbe visto gettarsi, esattamente come nessuno lo vedeva adesso, quando poteva ancora essere salvato.

I suoi coinquilini non erano in casa, sarebbero tornati tra una settimana, a cose fatte, così da risparmiargli il compito di raccogliere il suo cadavere dall’asfalto. 

Immaginò che ci sarebbe voluta almeno un’ora perché qualcuno si accorgesse di quello che era successo, nel frattempo avrebbe decorato la strada con le sue interiora, un fiore rosso scuro sbocciato all’improvviso.

Poi? 

Non aveva certo intenzione di gettarsi con i documenti o il cellulare in tasca, ma la finestra del suo appartamento sarebbe stata spalancata, così sarebbe stato più facile capire da dove era saltato. Avrebbero chiamato la polizia e sfondato la porta dell’appartamento per entrare a constatare cos’era successo.

Era caduto? Qualcuno l’aveva spinto? Si era suicidato? Aveva lasciato un biglietto? 

Avrebbero trovato una stanza in ordine, piena di fotografie e poster alle pareti, con la televisione accesa, un libro aperto sul comodino e la tazzina di caffè sporca con il segno delle labbra sul bordo: non proprio gli oggetti che si aspetterebbe di trovare nella stanza di un suicida. 

Così avrebbero cominciato a pensare che fosse assurdo, il suicidio era fatto al 90% di premeditazione, invece a loro sarebbe parso un atto impulsivo, fatto a metà di un pensiero. Non avrebbero mai scoperto da quanto tempo ci pensava realmente, e che l’unico modo per farlo era, beh, farlo e basta. 

Quanto tempo sarebbe passato prima che Allie venisse contattato dalla polizia? Forse un paio d’ore dopo la sua morte?

Cercò di immaginarlo, cercò di ricreare più dettagli possibili. La ruga tra le sopracciglia vedendo il numero della polizia sul display del cellulare, la voce tesa mentre rispondeva “pronto?” con fare interrogativo, e poi il fiato che gli si mozzava in gola, il viso che diventava pallido, la ricerca di un appiglio a cui aggrapparsi mentre una voce dispiaciuta gli comunicava che il suo fidanzato si era gettato dalla finestra ed era morto. Cercò di immaginare il suo dolore, le lacrime, la negazione e poi...la rabbia.

Non l’avrebbe perdonato mai per quello. Non avrebbe provato rimorso o rimpianto, no, avrebbe provato solo furore. 

Dondolò le gambe nel vuoto ancora una volta, i piedi volarono su e giù come sull’altalena, provò la stessa ebbrezza di quand’era bambino e si spingeva troppo in alto, fino a sentire le vertigini rovesciargli lo stomaco e fargli provare il terrore dell’oblio.

Adesso la mente taceva, come consolata dalla ninnananna dell’inevitabile, consapevole che sarebbe bastato poco, un centimetro, un millimetro, sporgersi in avanti solo con il mento. Persino il cuore batteva più lento, più lento, più lento, il sangue scorreva come melassa. 

La pubblicità finì, il programma che stava seguendo ricominciò con un breve jingle, sentì la voce quasi familiare del presentatore snocciolare un breve riassunto nel qual caso ci si fosse sintonizzati in quel momento. 

Poi il suo telefono squillò, il toc toc che aveva associato al numero di Allie. Da dov’era non poteva raggiungere il telefono, non poteva nemmeno vederlo, ma quel suono cominciò rimbombare nella sua mente. 

Toc toc.

Allie, uscito da un colloquio snervante di cui voleva parlare per sentirsi meglio.

Toc toc.

Allie, che chiedeva se per sabato confermavo di essere libero per prenotare al ristorante cinese che gli piace tanto per andare a cenare insieme.

Toc toc. 

Allie, appena tornato dall’università, che si scusava per non aver potuto rispondere.

Per qualsiasi ragione gli stesse scrivendo, era Allie. 

Esitò per un attimo, all’improvviso era diventato difficile ragionare, seguire il pensiero vacuo e soffice che l’aveva spinto ad arrivare fin lì. 

Allie.

Allie.

Allie.

Lentamente, un piede alla volta, scese dalla ringhiera, rientrò in camera, socchiuse la finestra, come mettendola in attesa. 

Il cellulare, con lo schermo nero, sembrava un animale pericoloso, avrebbe potuto squillare ancora, farlo sobbalzare, aggredirlo in qualche modo. 

Lo sollevò con cautela, sbloccandolo con l’impronta dell’indice (il pensiero di come avrebbe fatto la polizia per riuscire a superare quel blocco balenò nella sua mente per un attimo, poi pensò che c’è sempre un modo per farlo). 

L’icona di Telegram aveva un piccolo “1” di fianco, per indicare che aveva un messaggio da leggere.

Aprì la chat, era un messaggio di Allie, chissà perché aveva sperato fino all’ultimo che fosse qualcun’altro, pur sapendo di aver associato quella suoneria al suo numero. 

 

“Scusa se non mi sono fatto sentire, è stato un disastro oggi pomeriggio. Non vedo l’ora di vederti, ho così bisogno di baciarti.” 

 

Per un attimo rimase a fissare quelle parole mentre, come sempre, si insinuavano in lui accomodandosi, calde, roventi, nei grotteschi anfratti dentro di lui.

Sentì gli occhi farsi lucidi, la stupidità aveva un sapore acido e gli invadeva la bocca.

Premette l’icona delle chiamate e mentre il telefono squillava andò a chiudere la finestra, ermeticamente.

« Amore! Sto per salire in treno, scusa la confusione. » rispose subito, con la sua voce argentina. Lo immaginò sorridere. 

Il suo ragazzo, che lo amava, che lo perdonava per non essersi fatto sentire tutto il pomeriggio, e che lo chiamava per fargli compagnia mentre tornava a casa.  

« Se vuoi ti lascio stare, ci sentiamo più tardi. » tentò, gli occhi corsero per un momento solo verso la finestra.

« Scherzi? Non puoi lasciarmi solo proprio adesso! Mi sei mancato troppo. Hai letto il messaggio? » 

Sorrise.

L’idea, il calore, il conforto di un bacio gli aveva salvato la vita. Allie gli aveva salvato la vita.

Un giorno sarebbe stato coraggioso abbastanza da ringraziarlo. 

 
   
 
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