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Autore: DorotheaBrooke    03/10/2019    3 recensioni
I pensieri di Albus e Gellert in una notte insonne a chilometri di distanza
[storia partecipante al contest "l'enigma dell'Uroboro" indetto da _ Freya Crescent _ sul forum di efp
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una macchiolina con il suo cartiglio nell’angolo superiore sinistro mostrava il professor Silente intento a camminare su e giù per il suo studio.
(J.K. Rowling. Harry Potter e il prigioniero di Azkaban)
 
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti
(Petrarca. Canzoniere, 35)
                                                                                                                 
 
Albus misura lo studio deserto a passi stanchi e lenti. Il vociare sommesso dei presidi dei quadri sembra essere stato inghiottito dalla notte discesa sul castello. Una smorfia asimmetrica inclina le sue labbra in un sorriso senza gioia. A cosa era servito il suo talento dopotutto? A cosa giovava la sua penetrante intelligenza? Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe successo. Come aveva fatto a non presagire che egli stesso si sarebbe reso abilmente artefice della propria punizione?

Gellert misura la cella deserta a passi stanchi e lenti. Rivolge uno sguardo obliquo alla fessura nel muro che funge da finestra. Spettrali i raggi della luna calano sul volto segnato dagli anni e dal dolore. Il freddo crudele che permea ogni meandro di Nurmengard gli morde le ossa e l’aria gelida gli lacera la gola a ogni respiro. In fondo crede di averlo sempre saputo. Gli anni conferiscono inaspettatamente chiarezza alla memoria. Ora ricorda di averlo pensato fin dal loro primo incontro. Quest’uomo sarà la mia rovina…

Quest’uomo sarà la mia rovina, perché è l’unico dono che desidero veramente nella mia vita. Parole mai pronunciate che gridano invano i loro avvertimenti nella mente di Albus con voce uguale alla sua. Le palpebre sfinite non chiedono che di calare pesantemente, concedendo per qualche ora l’oblio dal mondo, ma i piedi continuano a muoversi come animati da una volontà loro. Che senso avrebbe cercare di fermarli? Da molto tempo non tenta più di lottare, del resto ormai gli è diventato familiare quell’insonne tormento. 

A volte gli sembra di essere in quella cella da sempre, ma non di notte, mai di notte… I ricordi sono demonietti maliziosi che si trastullano con la sua sofferenza. Gellert torna per l’ennesima volta sui suoi passi, per l’ennesima volta ripercorre i sentieri tortuosi della propria memoria. Non è sempre stato così vecchio. Non è sempre stato così solo. Una volta era giovane. Una volta qualcuno camminava al suo fianco e rideva.

Una volta rideva, ma non del riso di adesso. Una maschera scherzosa indossata accortamente per rasserenare gli animi innocenti e inconsapevoli dei suoi allievi. Albus incurva le labbra e contrae ritmicamente il diaframma tentando di riprodurre la risata selvaggia e euforica che lo scuoteva quand’era con Gellert. Soltanto singhiozzi patetici gli contorcono la bocca e gli sconquassano il petto. Curioso. Nonostante tutta la sua maestria nell’arte della dissimulazione, non è ancora in grado di fingere la felicità.

Gellert ha rinunciato alla felicità molto tempo fa, ben prima di essere richiuso per sempre in una cella. Tu hai ucciso la mia felicità, mi rimane solo il potere. Potere che ora gli è inutile, indesiderato orpello di ciò che è stato.  Recluso nella prigione che lui stesso ha eretto. Tu li hai convinti a risparmiarmi la vita e mi hai abbandonato qui a marcire. Ti prendevi gioco di me? L’ironia della situazione stuzzicava il tuo intelletto?

Albus scuote la testa e i passi lenti riportano i suoi pensieri al processo. Il suo discorso lungo e accorato. Le sue scaltre elucubrazioni filosofiche. La sua ipocrita definizione del bene. Una farsa diabolicamente perfettamente per soddisfare il suo scopo personale, per mettere a tacere il grido disperato del suo cuore. Non uccidete Gellert! Non uccidete il mio amico per colpa mia!

 Gli sembra che questo carcere sia esistito ben prima di assumere forma fisica nella roccia. Una gabbia inespugnabile nella mente fatta di parole, le parole di Albus. Per il bene superiore. La rabbia è veleno che scorre nelle sue vene al posto del sangue. Se non fosse per gli incantesimi che egli stesso ha imposto sulla prigione, con la sua furia potrebbe sbriciolare le mura come granelli di sabbia. Tu eri il mio carceriere già allora e non lo sapevi. Io non lo sapevo.  Si prende il volto fra le mani senza smettere di camminare. Dove sei? Dove sei?

Dove sei? Dove sei? Lo spirito di Albus pone domande di cui la mente conosce la risposta. Rinchiuso a Nurmengard e custodito nel suo cuore. La sua immagine gli è sempre dinnanzi ovunque vada, eppure è perso per sempre. Come Ariana. Il preside di Hogwarts è uno spettro che si aggira smarrito nello studio, incapace di reprimere la domanda che lo atterra e lo annienta come ogni volta. Chi di noi è stato? Chi di noi è stato?

Chi di noi è stato? Chi di noi è stato? Lo ripeteva ossessivamente Albus, mentre Aberforth abbracciava il corpo troppo immobile della sorella gridando come un animale ferito, reso demente dal dolore. Chi di noi è stato? Urlava Albus e i suoi penetranti occhi azzurri non vedevano più nulla, il suo sguardo era un cielo straziato dal quale piovevano gocce di orrore. I passi di Gellert si affrettano nella cella, come per portarlo lontano da quel ricordo. Aveva abbandonato il suo unico amico nel momento più disperato. Chi di noi è stato? Vorrebbe fuggire come allora da quella domanda che lo insegue. Quella domanda di cui non potrebbe sopportare la risposta. Come in quel giorno preghiere involontarie si liberano dal suo animo oppresso verso il cielo vuoto.  Dimmi che non sono stato io. Dimmi che non ho fatto questo a lui.

Albus vaga nello studio come se fosse su una giostra che rigira su stessa senza mai giungere da nessuna parte. La sua vita ha smesso di procedere in linea retta, è diventata un gorgo che risucchia a sé città, persone, passioni. Al centro, invisibile a tutti fuorché a lui, il giovane Gellert gli sorride dolcemente. Ridammi mia sorella! Ridammi la mia famiglia! Accuse silenziose gridate dalla sua coscienza sporca. L’amicizia, ancor più che l’ambizione, è stata la sua colpa. Solo conoscendo te, ho conosciuto me stesso. L’aria della notte è opprimente, troppo densa dei suoi peccati. Lo priva del sonno e del senno, mentre il cuore è preda di palpitazioni oscure che reclamano straziate l’amore che Albus sa di non avere diritto di chiedere.

Gellert è sfinito, disgustato dal suono dei suoi stessi passi. Si ferma solo per vedere il cielo tingersi di rosa, rischiarato dall’alba. Un altro giorno di nulla. Le palpebre calano pesanti sugli occhi asimmetrici e per un istante ha l’impressione di non essere solo nella cella. Li apre con un sussulto trovando solo il vassoio della colazione portato in silenzio da una guardia a fargli compagnia. Non verrai mai da me. Hai rinchiuso me in una cella e te stesso in una scuola. Sorride amaramente sedendosi sul giaciglio duro. I vecchi amano la compagnia dei bambini perché essi non ne immaginano le colpe. Avrebbe dovuto capire che sarebbe finita così. In fondo erano sempre state due solitudini gemelle prigioniere l’una dell’altra. Condannate per il loro amore troppo cieco, troppo egoista. Non si sarebbero mai più rivisti e non sarebbero mai più sfuggiti l’uno al ricordo dell’altro. Il loro amore terminava nel reciproco tormento. Proprio quell’amore che Albus aveva scoperto essere la soluzione a tutto. Mentre alle sue spalle esplode il giorno, Gellert chiude gli occhi. Nell’oscurità torna a perseguitarlo il volto dell’amico a cui protende le mani. Che me ne faccio dell’amore se non posso darlo a te?
  
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