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Autore: ireturner    04/10/2019    1 recensioni
In una notte sospesa nel tempo, un giovane riflette un’esegesi sulla sua storia d’amore non corrisposta.
“Mi guardasti, dicesti «Sono solo tuo», in quel modo lì, lo conosci bene, quel modo che significa «Non sono di nessuno mai».”
[ Questo breve racconto si ispira al #Writober indetto da @fanwriter.it. ]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’eco dei tuoi baci


 
«Cade giù dal sole un raggio pieno di grazia
Un’apparenza di felicità
Sono pietra lavica i tuoi occhi, mi bruci
Mi allontano e sono sempre qua
E poi ho dovuto scegliere di rinunciare a tutto di te
Ma proverò a difendere lo stretto necessario per me»
Levante, “Lo stretto necessario”.
 
Dolce la notte d’Occidente quando si sposa al Grande Carro: mi dici di alzare il viso, ed è una condanna distrarre lo sguardo da te. Eppure t’ascolto, perché obbedirti è sempre stato lo screzio migliore dato da bere alla mia anima—t’ascolto, come sempre, dopo le mille volte che mi hai tradito, con questa stessa bocca che ora mi parla, e parla placidamente, parli placidamente, mio poeta in fiore. Mi parli di Pasolini e di tutti i modi in cui ami ogni uomo: non solo me. Mi parli di Pasolini, sì, del corpo maschile, come pensassi di non ferirmi, del Grande Carro e della leggenda del cielo, mi parli di come pensi che sia stato creato, il mondo, e sputi bestemmie sulle divinità che conosci – scordi Buddha, scordi Allah –, mi parli di come sia l’arte, la vera arte, a comandare l’universo. Ti capisco, o fingo di capirti, come sempre, e da quando m’hai detto che non c’è speranza, per noi due, ti capisco ancora di più, perché l’ho capito ancor prima di te, questo. Mi hai avvicinato, per la prima volta, che era mattino, che era Sicilia: all’ombra dei templi, mi indicasti le colonne ioniche, mi parafrasasti quello che pensavo anch’io, senza saperlo dire a parole. E la guida turistica tentava di zittirci; noi, all’ombra di antichi templi, alla luce di un nuovo sentimento, consumammo lo sguardo intenso, discorrendo allora con le pupille, non più con la voce. Permettimi, permettimi di ricordarlo, perlomeno, di come credevo che tutto sarebbe andato bene. Tuffavo il viso sulla tua clavicola e, da lì, aspiravo ad un futuro insieme. I chiacchiericci tutt’attorno non mi interessavano: volevo solo te, te e le tue poesie, che leggevo fino a tarda notte, nei mesi a venire, per sentirti vicino in un letto già vuoto. Le tue poesie—acerbe e, al tempo stesso, le migliori su cui avessi mai poggiato sopra la mia attenzione. Rimembri, allora, come disprezzavo Montale! O Pascoli, o Leopardi! Erano un nonnulla, al tuo cospetto, e quando te lo dicevo, quando dicevo così, vedevo il tuo petto esalare un respiro d’orgoglio: avrei infangato qualunque scrittore, anche davanti ai suoi occhi se necessario, pur di sapermi autore d’una tua singola emozione. Avrei dovuto comprendere fin dal principio che cosa andavi cercando: non un forte eroe disposto ad amarti fino all’oltretomba, ma uno schiavetto che ti servisse nella tua vita mortale—non eri innamorato di me, lo eri della tua Vanità. Avrei dovuto comprenderlo fin dal principio, sì, o almeno avrei dovuto comprenderlo quando, di ritorno dall’abbronzatura in spiaggia, cantavi a squarciagola quei versi de “La ballata dell’amore cieco” di De André. Oh, come li cantavi! Come li avessi scritti tu, quei versi! Come volessi vedermi morire, al volante della macchina, mentre allungavo le distanze dal viottolo di casa tua. Avrei dovuto comprenderlo almeno allora o, ancor meglio, quando ti ebbi finalmente tra le mie lenzuola: eri statuario, greco col tuo naso dritto, e riponevi gli occhiali sul comodino per non averli d’intralcio mentre mi sbottonavi i pantaloni; mi guardasti, dicesti «Sono solo tuo», in quel modo lì, lo conosci bene, quel modo che significa «Non sono di nessuno mai». Ma ti credetti, come credetti a tutto. Non è stato un inganno, non lo è neppure adesso: io mi sono immerso nei tuoi lapidari bisogni così, consapevolmente, senza farci caso, fidandomi d’un fantasma—e neppure d’un fantasma, poiché fantasma sarebbe l’ombra di qualcosa che c’è stato, e tu per me non ci sei stato mai—fidandomi d’un nulla, tu che per me eri tutto. Cieco, sordo, sciocco… Io, vinto, davanti al tuo nome, ai tuoi taccuini, al modo in cui pronunciavi che volevi fare sesso. Ma non importa, non m’importa come tutto si è sgretolato, se tu sei ancora qui, in fin dei conti, su questa sabbia, ad indicarmi il Grande Carro. Non importa: mi farò uccidere altre cento volte, altre cento ed una, pur di sentire il suono della tua voce, del tuo respiro. E, timidamente, vorrei chiederti anche un bacio. Non posso; soggiogato sono ai tuoi voleri, e tu, ormai, non vuoi più me. Del sapore delle tue labbra, solo l’eco nella mia memoria: che mi ci seppelliscano pure assieme, e che i ricordi del tuo calore mi scaldino nella tomba, che edulcorino la fitta del tuo pugnale, quando vorrai andartene via, stavolta per sempre. Per sempre: io te l’ho promesso. Ed è dolce la notte d’Occidente quando si sposa al Grande Carro… Dolce anche la mia morte, dunque, perpetua nella tua mente sadica.
   
 
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