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Autore: ChiiCat92    05/10/2019    1 recensioni
"Quando trascinò in casa l’ultimo scatolone era ormai passata l’ora di cena. Le braccia gli dolevano, le gambe tremavano e un cerchio si stringeva sempre più intorno alla testa.
Però ce l’aveva fatta: ufficialmente viveva da solo.
L’affitto dell’appartamento non era alto, poteva permetterselo e vivere dignitosamente con quello che rimaneva del suo stipendio. La finestra della cucina e della sua camera da letto davano sulla strada, il salottino era piccolo ma accogliente con divano letto che all’occorrenza avrebbe potuto ospitare gli amici."
Questa storia partecipa al Writober 2019 di Fanwriter.it, lista PumpINK.
#writober2019 #fanwriterit #halloween2019
Genere: Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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20/09/2019

 

Fantasma

 

Quando trascinò in casa l’ultimo scatolone era ormai passata l’ora di cena. Le braccia gli dolevano, le gambe tremavano e un cerchio si stringeva sempre più intorno alla testa. 

Però ce l’aveva fatta: ufficialmente viveva da solo.

L’affitto dell’appartamento non era alto, poteva permetterselo e vivere dignitosamente con quello che rimaneva del suo stipendio. La finestra della cucina e della sua camera da letto davano sulla strada, il salottino era piccolo ma accogliente con divano letto che all’occorrenza avrebbe potuto ospitare gli amici.

Era un gran bel posto dove cominciare la sua vita da adulto. 

Si era chiesto come mai un bilocale carino come quello, centrale, in una strada nella zona a traffico limitato, costasse così poco, ma i dubbi erano durati il tempo di firmare il contratto: era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, e lui aveva davvero bisogno di andarsene da casa, ottenere l’indipendenza.

La maggior parte degli scatoloni erano già stati smistati, d’altronde era stato bravo e aveva etichettato tutto. Il punto adesso era svuotarli e sistemare ogni cosa al suo posto. Non aveva ancora idea di come organizzare il tutto. 

Era in quella casa solo da un pomeriggio e si sentiva già sopraffare. Forse era troppo stanco, forse aveva bisogno di un caffè. La caffettiera doveva essere da qualche parte, in uno degli scatoloni con su scritto “utensili da cucina”. E il caffè? Sicuramente in “dispensa”.

Il cerchio alla testa si fece più stretto. “Medicinali”?

Mentre andava verso il bagno, facendo lo slalom tra scatole di ogni dimensione, provò massaggiandosi le tempie. Il dolore cominciava a farsi pulsante, ritmico, come un tamburo di guerra percosso da un infervorato soldato. 

Accese la luce in bagno e per un attimo gli piombò addosso lo sconforto: la quantità di scatoloni che aveva accasciato in un angolo era tale da permettergli a malapena di raggiungere il water. 

Cercò di ricordare in quale di quelle scatole avesse gettato i farmaci e se avesse scritto la giusta didascalia sul cartone. Spostò da una parte “Asciugamani”, “Phon e cose così”, “Prodotti da bagno?”, e alla fine trovò “Miscellanea Bagno”. Si strinse nelle spalle e tagliò il nastro da pacchi con il taglierino che ormai si portava in tasca da tutto il pomeriggio. Anche se fosse stata la scatola sbagliata prima o poi avrebbe dovuto aprirla comunque. 

Frugò un po’ quasi ad occhi chiusi, vedendoci appannato mentre il mal di testa peggiorato, scostando forbicine, rasoi consunti, pinzette, elastici, qualche boccetta di smalto (aveva davvero portato via da casa dei suoi i suoi vecchi smalti?). Aveva appena chiuso le dita intorno alla confezione di antidolorifici quando la luce del bagno sfarfallò e si spense.

Gli venne fuori un mugolio spaventato e rimase immobile per un lungo istante aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità. Per fortuna i lampioni in strada erano abbastanza luminosi da gettare una pallida luce dentro l’appartamento. 

« Si è fulminata una lampadina. » disse a se stesso, come per tranquillizzarsi. Forse avrebbe dovuto chiedere ai suoi amici di rimanere e aiutarlo con gli scatoloni invece di convincerli che poteva farcela e che non aveva bisogno che rimanessero tutti lì a mettere mani nelle sue cose. 

Ovviamente, non aveva il cellulare con sé, perché aveva preferito ficcarsi in tasca il taglierino.

Si alzò, lasciò le pillole sul bordo del lavandino e con le mani avanti uscì dal bagno. Ricordava abbastanza bene la posizione degli interruttori, ma nel semibuio quella casa gli appariva estranea. Le ombre che gli scatoloni gettavano sui muri e sui pavimenti sembravano minacciose, la luce dei lampioni da fuori occhieggiava cruda, bianca, fredda.

Toccò con la punta delle dita la parete finché non trovò l’interruttore. 

Clack.

La luce si accese in corridoio e lui poté tirare un sospiro di sollievo.

“Domani andrò a comprare la lampadina nuova.” si disse, più tranquillo.

Aveva persino trovato le pillole! Ne mandò una giù senz’acqua e anche se ci sarebbe voluto un po’ perché facesse effetto si sentiva già meglio. 

« Con ordine. » disse, ad alta voce. Sentire le parole invece che pensarle soltanto le faceva sembrare più reali, e sconfiggeva lo sconforto della solitudine. « Prima di tutto il letto. Altrimenti dove dormo stanotte? » 

Annuì tra sé e sé come se quell’idea non fosse venuta da lui.

La sua stanza aveva un letto matrimoniale, un armadio enorme, una libreria e una scrivania. La finestra, spalancata sulla strada, faceva entrare l’aria fresca della sera.

Cominciò con il togliere gli scatoloni dal materasso, spingendoli da una parte con un piede, finché non trovò “Lenzuola e Coperte”: stava facendo davvero un buon lavoro! 

Mentre faceva il letto, lisciando bene le lenzuola, avvertì un formicolio sulla nuca. La sensazione non era molto dissimile da quella che si prova quando qualcuno ti fissa insistentemente.

Si voltò, le sopracciglia aggrottate.

Per un attimo sentì lo stomaco stringersi e il cuore accelerare i battiti. La porta d’ingresso era chiusa e l’appartamento era al secondo piano, non era possibile che fosse entrato qualcuno. 

Scosse la testa, si strinse nelle spalle e prese a sprimacciare i cuscini. 

Stavolta avvertì un brivido, dalla base della schiena fino all’attaccatura dei capelli. Si voltò di scatto, gli occhi adesso sgranati per la paura.

« Chi c’è? » si sentì stupido subito dopo aver fatto la domanda. Non poteva esserci nessuno.

Per sicurezza andò a controllare che la porta fosse effettivamente chiusa. Controllò che ci fossero due mandate e che il chiavistello fosse ben fissato: tutto in regola.

« Sono troppo stanco. » mormorò, sottovoce.

Andò a sedersi sul letto appena fatto e si chiese se non fosse il caso di andare a dormire e sistemare tutto alla luce del giorno, quando avrebbe fatto tutto meno paura

Anche se il cerchio alla testa stava cominciando a sciogliersi aveva gli occhi pesanti. 

« D’accordo, d’accordo, sai cosa? Ordino una pizza su JustEat e me ne vado a letto. » 

Andò in cucina per recuperare il cellulare ma non lo trovò. Forse non l’aveva lasciato lì? 

Sbuffò, infastidito da se stesso, e cominciò a sollevare scatoloni e spostare lo spostabile finché…

La suoneria del suo telefono era la Victory Fanfare del suo videogioco preferito. Lo sentì squillare dal salotto e si chiese quando esattamente l’aveva lasciato lì.

« Axel, stai uscendo di testa. » si disse, passando di fronte allo specchio. Aveva una faccia stravolta dalla stanchezza, gli occhi verdi cerchiati di viola, i capelli rossi sfatti e tenuti insieme da un elastico consunto. In tuta da ginnastica sembrava un ragazzino, non un uomo adulto autorealizzatosi. 

Il telefono smise di suonare quando accese la luce in salotto. Si guardò intorno e l’unica cosa che vidi fu altri scatoloni, la custodia della sua chitarra, la prima parte di libri sistemati nella libreria. Niente telefono.

« Ma che diavolo… » 

Sobbalzò quando lo sentì squillare di nuovo, stavolta dalla cucina.

Scattò in quella direzione, come temendo che se avesse perso la chiamata avrebbe perso anche il telefono. Era sua madre. Gli chiese se era tutto okay, se si era sistemato, e gli augurava la buonanotte.

La salutò e andò a controllare il registro chiamate. L’ultima, e unica, chiamata era quella a cui aveva appena risposto: non c’era nessuna chiamata persa.

Scosse la testa, di nuovo, e cercò di ignorare lo stomaco attorcigliato per l’inquietudine. 

Pizza, patatine fritte e birra avrebbero scacciato la sensazione.  

 

Nel sogno veniva sommerso da una cascata di vetro, facevano un rumore infernale ma brillavano alla luce, una miriade di colori che si riflettevano sulle pareti e lo lasciavano senza fiato. Non era un brutto sogno e lo sciabordio dei vetri che cadevano sembrava infrangersi come onde sulla spiaggia.

Poi aprì gli occhi, sobbalzando, e capì che il suono veniva dal suo appartamento. Sì alzò in fretta, senza infilare le pantofole, e quando entrò in cucina imprecò saltando indietro: il pavimento era cosparso di frammenti di piatti.

Accese la luce imprecando. Un grosso pezzo di ceramica era conficcato nella pianta del suo piede. Aveva le lacrime agli occhi per il dolore e dovette mordersi le labbra per non urlare. 

La mensola sopra il lavandino pendeva da un lato, ad un certo punto durante la notte doveva aver ceduto. Tutti i piatti erano andati distrutti, tutti. 

Cercò di non camminare sul vetro mentre saltellava verso il bagno su un piede solo. Non riusciva neanche a sentire il dolore, solo sbigottimento e incredulità. C’era un sacco di sangue.

Gli tremavano le mani e sentiva sudore gelido appiccicargli la maglia del pigiama sulla schiena, ma riuscì a prendere le pinzette dallo scatolone e a togliere il frammento di vetro dal piede. 

« Oh, mi dispiace. » 

Axel sentì il sangue gelarsi nelle vene. Alzò la testa di scatto, le orecchie piene del battito affannato del suo cuore. 

Quella voce, una voce estranea. C’era qualcuno nell’appartamento. 

A tentoni prese la prima cosa simile ad un’arma che trovò nello scatolone (un paio di forbicine per unghie non troppo minacciose), e la puntò verso la porta.

« Chi cazzo c’è?! » gridò, le forbicine che andavano a destra e sinistra. 

« È il massimo che sai fare? » 

Strillò, perché la voce veniva da dietro di lui, non dal corridoio dove l’aveva sentita prima. 

Si voltò, ormai tremava tutto come un cucciolo. L’unico posto dove lo sconosciuto poteva essersi nascosto era la doccia. 

Vi si avvicinò, le forbici sempre puntate in avanti. Scostò la tenda in un colpo solo e…

« Niente. » mormorò, tremando. « Non c’è niente. » 

Una risata isterica gli affiorò alle labbra. Il piede gli faceva un male cane, stava ancora sanguinando, e guardandosi allo specchio vedeva solo un ragazzo con gli occhi spiritati.

Prese un profondo respiro e si sciacquò il viso per riprendersi, era così pallido che si faceva paura da solo. Quando tornò a guardarsi allo specchio, però, c’era un ragazzo dietro di lui. 

Urlò così forte da farsi male alla gola, scappò a gambe levate. Fu solo per istinto di conservazione che riuscì ad evitare di calpestare altri cocci perché aveva il cervello completamente in pappa. Schizzò verso la sua stanza, sbatté la porta e chiuse a chiave.

« Che cosa vuoi?! » urlò, diretto allo sconosciuto rimasto in bagno. « Chi sei?! G-guarda che non ho un soldo! Mi sono appena trasferito! » 

« Sì, lo so. Non c’è bisogno di gridare, comunque. »

Il ragazzo era davanti a lui.

Axel si pressò contro la porta, consapevole di averla chiusa a chiave e di essere in trappola. Non aveva idea di come fosse entrato ma neanche gli importava, riusciva solo a pensare di essere in pericolo, che l’avrebbe derubato, forse ucciso. Il terrore atavico della preda messa all’angolo gli strinse la gola. 

Il ragazzo era bello, con capelli blu zaffiro lunghi dietro la schiena, occhi intensi giallo ambra, ma aveva un’orribile cicatrice a solcargli il volto, sul naso, profonda, slabbrata. 

« Cosa...cosa… » balbettò Axel, le dita arcuate ad artiglio conficcate sulla porta.

Il ragazzo non rispose, l’espressione neutrale, priva di sentimento, non rendeva possibile capire cosa pensasse, o se pensasse. Si fece avanti, piegandosi sulle ginocchia. Allungò una mano per toccare il piede ferito di Axe, ma lui ritrasse la gamba al petto, spaventato.

« Non credevo che saresti stato così stupido da correre scalzo. » disse lui, le labbra superiori inarcate per il disgusto. 

« Stai...scherzando? » chiese, sottovoce, Axel. Ora che la paura scemava cominciava ad essere arrabbiato. « Sei stato tu?! »

Il ragazzo incrociò le braccia al petto. Bello era bello, ma nessuno gli avrebbe risparmiato un pugno su quel muso.

Quando provò a colpirlo, però, Axel si ritrovò ad attraversare l’aria, aria fredda, umida, come se avesse attraversato la nebbia del primo mattino. Boccheggiò, quasi cadendo, e quando si voltò il ragazzo era ancora lì, nella stessa posizione.

« Non erano piatti di valore, non c’è bisogno di prendersela così. » sorrise il ragazzo.

Axel dovette battere le palpebre per realizzare il significato di quelle parole, la presenza di quel tipo, e la sensazione di umido che aveva addosso dopo averlo...toccato? L’aveva toccato?

« Cosa sei tu? » chiese, con un filo di voce, più confuso che spaventato.

« Sono la persona che ti vuole fuori da casa sua. »

« Questa non è… » 

Non riuscì a finire la frase perché il viso del ragazzo cambiò espressione, divenne terreo, gli occhi svanirono in una pozza di oscurità giallo intenso, la cicatrice sembrò diventare più larga, cominciò a stillare sangue, i capelli si alzarono nell’aria come scossi dal vento, la sua bocca divenne una chiostra di zanne affilate. 

« Fuori da casa mia. » 

Axe cercò di gridare, ma all’improvviso si ritrovò senz’aria.

 

Si svegliò urlando e scalciando come un matto, il lenzuolo si era attorcigliato intorno al suo bacino ma lo percepiva come mani artigliate al suo corpo che gli impedivano di muoversi.

Prese coscienza pian piano, con la luce del sole che lo accecava.

Lentamente si calmò, man mano che tutto intorno a lui prendeva contorni familiari. Il suo letto nuovo, l’armadio ancora vuoto con l’anta aperta, gli scatoloni ammucchiati un po’ ovunque. 

Aveva fatto un brutto sogno, tutto qui. 

Non appena poggiò i piedi a terra una scossa elettrica lo attraversò facendolo sobbalzare. Il piede gli faceva male, ma era fasciato.

Ma certo, i piatti, il coccio di vetro. Doveva essere andato in bagno per medicarsi e poi era tornato a letto.

Ridacchiò, nervoso, mentre allontanava l’immagine spaventosa del ragazzo dalla sua mente. Alla luce del giorno non c’era niente di cui aver paura. 

Sospirò, tranquillo, mise le scarpe per evitare di farsi male e andò in cucina. I piatti erano ancora sparpagliati sul pavimento, il danno non era così grave e comunque aveva già intenzione di comprare altre stoviglie: quelle appartenevano a chi aveva abitato quell’appartamento prima di lui. Tutto sommato gli era anche andata bene. 

Mentre raccoglieva i cocci con scopa e paletta organizzava mentalmente le cose da fare. Poteva ancora ordinare da asporto per pranzo e andare a comprare il necessario per riparare il mobile e un paio di piatti nuovi nel pomeriggio. Aveva tempo, il week-end era appena cominciato.  

Aprì la finestra della cucina e si affacciò, respirando a fondo. Era una bella giornata, il cielo era terso, il quartiere cominciava a svegliarsi, tutto sembrava perfetto.

« Buongiorno. » il verso che uscì dalla bocca di Axel sembrava quella di una ragazzina spaventata. Il ragazzo era lì, seduto al suo tavolo, una gamba accavallata. « Avanti, siediti. Parliamone. » 

Con una mano lo invitò a sedersi.

Axel si mosse con circospezione, attento a non staccare gli occhi da quella figura eterea. La luce del giorno sembrava attraversarlo, il suo corpo sembrava fatto di materia sottile. Scostò una sedia e sedette il più lontano possibile da lui.

« Mi dispiace per ieri sera. » esordì il ragazzo, pragmatico. Axel annuì, incredulo. « Ammetto di essere stato un po’...aggressivo, ma pensavo che dopo l’ultima volta non avrebbero più fatto venire nessuno qui. Ero piuttosto arrabbiato. » 

« Sì, certo. » mormorò. Si pizzicò un braccio per accertarsi di essere sveglio.

Il ragazzo poggiò le mani con le dita intrecciate sul tavolo, sembrava quasi che stesse per proporgli un contratto di lavoro o qualcosa del genere. 

« Guarda, non ti chiedo molto. Devi solo andartene. » terminò lui, un lieve, finto sorriso sulle labbra. 

« Non credo. » rispose Axel. Il ragazzo inarcò le sopracciglia, sorpreso. « Ho pagato per questo appartamento, è mio adesso, ho firmato un contratto. Non me ne frega un cazzo di te. Non sono neanche sicuro che tu esista. » 

« Questa è casa mia. » Axel percepì un cambiamento nell’aria, come se all’improvviso fosse piena di elettricità. I capelli sulla nuca si rizzarono e gli venne la pelle d’oca sulle braccia. « Non costringermi ad ucciderti. » il cassetto delle posate schizzò in fuori e Axel sobbalzò per lo spavento. « Quindi da bravo, prendi le tue cose e vattene. » 

« No. » Axel si alzò, battendo le mani sul tavolo. « Io da qui non me ne vado. » 

 

Per il resto della giornata il ragazzo tormentò Axel in modi fastidiosi ma innocui. 

Continuava a spostare oggetti, o farli cadere dalle mensole dove li aveva appena sistemati, o faceva esplodere il polistirolo in una pioggia bianca.

Dopo aver pulito l’ennesimo disastro, Axel sospirò, stanco.

« Sai, non sei troppo diverso da un gatto. » borbottò. Il ragazzo stava seduto sul tavolo, ondeggiando nervosamente le gambe, le braccia incrociate al petto. 

« Un gatto. » disse lui, inarcando un sopracciglio. Era blu, come i suoi capelli, dalla forma sottile e perfettamente curata. 

« Sì. Stanno sempre in mezzo, fanno cadere le cose, creano confusione. Un gatto. » lo scatolone “Maglioni” era vuoto adesso, e Axel potè voltarsi a guardare il ragazzo. Aveva un profilo netto, il naso, la mascella, il collo, un giovane nello sbocciare dei suoi anni migliori. « Quindi sei...una specie di fantasma? » 

Lui alzò gli occhi al cielo, e di nuovo inarcò il labbro superiore in una smorfia. « Il termine esatto sarebbe poltergeist. Ma va bene anche fantasma. » 

« Wow. » un fantasma, nella casa che aveva affittato per due soldi, senza avere nessuna garanzia se non un lavoro da commesso che bastava per farlo tirare avanti: avrebbe dovuto capirlo da solo, era un tale clichè. « E quindi...cioè...sei morto e sei rimasto in questo appartamento? » 

Lui si irrigidì. Aveva notato, durante quell’assurda giornata in sua compagnia, che quando diceva qualcosa che lo infastidiva la sua immagine sfarfallava, minacciando di sparire. Avrebbe dovuto immaginare che la sua morte fosse un tasto dolente. 

« Come ti chiami? » chiese quindi, a bruciapelo, senza guardarlo. Aprì un altro scatolone, “Scarpe”, e cominciò a sistemarle ad una ad una nella scarpiera dentro l’armadio.  

« Che ti importa. » sbottò lui. 

« Io sono Axel. » 

Passò un’infinità di tempo prima che il ragazzo rispondesse, aveva praticamente finito di sistemare tutte le scarpe ed era passato ad un altro scatolone. 

« Saïx. » sputò, da un altro punto della casa.

Axel cominciava a farci l’abitudine. Compariva e scompariva all’improvviso, ma i suoi occhi erano sempre gli stessi: una distesa ambrata di sofferenza nascosta in cui aveva appena appena il tempo di sbirciare. 

« Beh, Saïx, devo andare a fare un po’ di spesa. Non mi distruggerai casa mentre sono via, vero? »

« Tu non conosci il significato della parola “poltergeist”, giusto? » 

Axel sorrise e scosse la testa. Chiuse l’armadio, infilò una giacca e andò alla porta. Per qualche ragione Saïx lo seguì, uno strano sguardo negli occhi. Abbandono, paura, sconforto. Axel cercò di ricordare da quanto tempo fosse sfitto l’appartamento, e si chiese se non fosse il caso di chiamare il proprietario per dirgli che si era dimenticato di riferirgli che c’era un fantasma ad abitarlo. 

« Passo a prendere qualcosa dal ristorante cinese, tu mangi? » Saïx inarcò il labbro superiore in quella smorfia di disgusto che Axel cominciava a trovare divertente. « Okay, okay. I fantasmi non mangiano. » 

Fece per uscire, la porta già aperta, ma sentì sulla spalla il tocco gelido di Saïx. Rabbrividì ma non sobbalzò. 

« Dimentichi le chiavi. » disse, indicando il portacenere dove le aveva riposte la sera prima.

Axel sorrise, divertito. Tutto sommato voleva che tornasse. 

Più in là avrebbe chiesto a Saïx di dividere l’affitto con lui.

« Grazie. » disse, prendendo le chiavi. « Ci vediamo dopo. » 

Gli rivolse un saluto e uscì.

C’era un fantasma nel suo appartamento, ma era il suo appartamento. Non aveva di certo intenzione di rinunciarvi, fantasma o non fantasma. 



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The Corner 

La mia musa mi guarda mentre scrivo il corner, quindi non posso dilungarmi troppo.
Il finale non è propriamente come vorrei, ma raramente torno sui miei passi, quindi...eccoci.

Chii
   
 
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