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Autore: Old Fashioned    07/10/2019    13 recensioni
Un’arma segreta del Reich, il dispositivo ombra, viene recuperata quasi casualmente dallo scanzonato pilota di un idrovolante ricognitore.
L’ufficiale inglese che si è visto sottrarre l’oggetto, però, giura vendetta al tedesco, anche perché nello scontro che c’è stato fra i due, egli ha perso una mano e ora è costretto a portare un uncino al posto dell’arto perduto.
I due si incontreranno nuovamente in una misteriosa e sconosciuta isola al centro del Mar dei Caraibi: Ypa'u Oiyva, l’isola che non c’è. Tra indigeni ostili, foreste impenetrabili e luoghi misteriosi, si contenderanno di nuovo il dispositivo ombra e il capitano inglese approfitterà dell’occasione per cercare di saldare vecchi conti rimasti in sospeso.
Seconda classificata al contest Villains against Heroes indetto da missredlights sul forum di EFP. Vincitrice del premio speciale "Miglior Hero"
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gente mia,
almeno un o dei tre mappazzoni in corso giunge oggi a compimento. Grazie di cuore a tutti coloro che mi hanno seguito, che hanno letto, messo in qualche lista o addirittura commentato.
Come dico sempre, sono i lettori che rendono vive le storie, quindi grazie ancora a tutti per aver reso vivi i miei personaggi e la mia storia!






X – Tutto è bene quel che finisce bene



Quando la mente di Pankow tornò in grado di elaborare pensieri coerenti, il primo che formulò fu il fermo proponimento di non bere mai più nulla che fosse stato preparato dagli indios.
Nonostante nel corso di quell'infausta notte avesse vomitato anche quello che aveva mangiato a Natale, la testa gli doleva come se dentro ci fosse stato un troll inferocito, in bocca aveva un sapore che gli evocava quello di un ossario sotterraneo e la sola idea di introdurre qualcosa nello stomaco era in grado di provocargli i conati.
Si alzò faticosamente in piedi e constatò che ormai era giorno.
Intorno a lui c'erano degli alberi, gli unici rumori che si udivano erano quelli della foresta che si stava svegliando. I primi raggi del sole facevano brillare le perle di rugiada che durante la notte si erano raccolte sulle foglie.
Ragazzi?” biascicò. “Wendel? Guardiamarina Bär? Dove siete?”
Si passò una mano sulla fronte, se la fece scorrere tra i corti capelli rossi, che gli passarono fra le dita come esili lingue di fiamma. “Ragazzi?” riprovò.
Si guardò intorno e intravide da una parte la sommità della capanna del tizio con le collane.
Cominciò a camminare in quella direzione.

Gli abiti fradici, ansante, Schelle correva per la foresta con tutta la velocità che la lunga nuotata e i postumi dell'alcol gli consentivano.
Peter Pankow è uno stronzo, si ripeteva correndo. Uno stronzo, un irresponsabile e un superficiale. Uno che non ha rispetto. Uno che se ne frega di qualsiasi cosa e fa solo quello che gli pare.
Saltò un tronco caduto, si piegò per evitare una liana che pendeva di traverso.
Una persona inaffidabile, uno che non si preoccupa di ferire i sentimenti altrui.
Mise il piede in una pozzanghera fangosa, imprecò, barcollò e imprecò di nuovo.
Stronzo!” ansimò, questa volta a voce alta. “Brutto stronzo. Uno meno buono di me ti lascerebbe saltare in aria come lo stronzo che sei!”
Passò a guado un torrentello, saltando di sasso in sasso.
Ma io sono troppo buono,” proseguì a denti stretti. “Anzi, talmente buono che sono quasi coglione, per cui eccomi qui.”
Finalmente comparvero in lontananza le capanne del villaggio. Schelle raggiunse l'agglomerato e per prima cosa si imbatté in un indio riverso.
Si immobilizzò stupefatto e mentre ansante si chinava ponderando il da farsi, gli capitarono sotto gli occhi altri due o tre indigeni nelle stesse condizioni. Adocchiò delle anfore vuote e a quel punto tutto gli fu chiaro: né suicidi collettivi né epidemie fulminanti, ma solo una sbronza generale, dalla quale, a quanto pareva, non erano rimasti immuni neppure i bambini.
Usanze locali,” disse fra sé e sé alzando le spalle.
Si guardò intorno alla ricerca del tenente Pankow.

Peter Pankow abbandonò il protettivo abbraccio della foresta e subito il sole caraibico gli ferì gli occhi.
Maledizione,” biascicò, sollevando una mano per ripararsi. Tra luce e caldo, l'agitazione del troll che abitava il suo cranio ebbe un parossismo ed egli si trovò a desiderare con intensità qualcosa da mettersi sulla testa.
Si guardò intorno e la prima cosa che lo colpì fu che nessuno dei suoi era in vista. “Ma dove sono finiti tutti?” chiese. Di nuovo fece scorrere lo sguardo in giro, poi a voce più alta chiamò: “Ehi, dove siete? Non è che siete andati a mangiare cocchi e banane senza di me?”
Tutt’intorno c’erano solo indios in vari stadi di ebbrezza etilica.
Finalmente adocchiò una capanna che aveva una vaga connotazione familiare. La raggiunse e si affacciò all’interno. Riconobbe il copricapo di piume, la cui vista gli procurò subito una sensazione di fastidio, ma accanto a esso notò il suo berretto da ufficiale.
Un involontario sorriso gli comparve sul volto: niente robaccia che si infilava in naso o orecchie, niente puzza di selvatico, niente roba ingombrante in testa.
Si chinò a raccoglierlo.
Incontrò una resistenza inaspettata, che con uno scatto metallico venne poi improvvisamente meno. Abbassò lo sguardo e si rese conto che aveva appena tolto la sicura di una granata Mills. I postumi della sbronza lo abbandonarono all’istante. “Oh, mer...” cominciò.
Qualcosa di pesante gli arrivò addosso e lo trascinò lontano giusto un attimo prima che l’ordigno esplodesse. Ci fu una detonazione che quasi gli sfondò i timpani. Seguirono il crollo delle assi del soffitto e lo sfondamento delle pareti di stuoie, che si aprirono come la buccia di una banana. Una nuvola di polvere e frammenti di paglia rese l’aria praticamente irrespirabile.
Seguirono alcuni secondi di silenzio irreale, poi si udì il rumore di legname smosso. Qualcuno si sollevò facendo rotolare giù macerie e frammenti.
Tutto bene, signore?” chiese una voce, tra un colpo di tosse e l’altro.
Till!” esclamò Pankow. “Till, dove sei, stai bene?” Individuò una sagoma nella caligine, si precipitò ad abbracciarla, per ritrovarsi con le braccia al collo di un feticcio di legno. Si scostò e riprese a sondare i dintorni. “Till, dove sei?” ripeté.
È meglio che andiamo, signore,” si limitò a rispondere il caporale.
Si alzò in piedi e finalmente Pankow riuscì a individuarlo attraverso la nebbia. Ripeté il tentativo di abbraccio e stavolta riuscì ad agguantarlo.
L’altro cercò di farsi indietro, ma il tenente imperterrito rinsaldò la presa. “Sei venuto a salvarmi!” esclamò.
Sissignore.”
Beh, Till, sappi che non ti serbo rancore per quella lite. Fra noi è tutto come prima.”
Ma veramente ero io che...” cominciò l’altro, che da alcuni minuti stava rimuginando le poche ma sentite parole con cui gli avrebbe nonostante tutto concesso il suo perdono. Incontrò il sorriso disarmante di Pankow. “Va beh, è lo stesso,” concluse, accompagnando la frase con un gesto di noncuranza.
Dove sono gli altri?” chiese il tenente.
È questo il problema, signore. Gli inglesi li hanno catturati.”
Dobbiamo liberarli,” rispose subito Pankow.
Schelle non poté trattenere un sospiro di esasperazione. “Signore, sono a bordo di un incrociatore. Ha presente quanta gente c’è su un incrociatore?”
Qualcosa ci inventeremo,” fu la disinvolta risposta.
È proprio quello che temevo.”

§

Sotto i raggi del sole al tramonto, le acque della laguna sembravano metallo liquido. Le palme erano nere sagome che si stagliavano contro un cielo che in basso era color fiamma e salendo acquisiva man mano un azzurro cupo, nel quale brillavano le prime stelle.
Il comandante Hook si appoggiò all’impavesata e lasciò vagare lo sguardo sull’isola. “Lo sa, signor Soak?” disse in tono nostalgico, “Mi dispiacerà un po’ lasciare Ypa'u Oiyva.” Emise un sospiro.
Il nostromo lo fissò dubbioso. “Davvero, signore?”
L’altro annuì. “La selvaggia bellezza di questo luogo incontaminato ha finito per conquistarmi, signor Soak.” Sospirò di nuovo, quindi concluse: “Ma ahimé, la vita del guerriero non concede nulla ad agi e mollezze. Domattina salperemo per non tornare mai più e questo luogo diverrà l’eterno custode del dispositivo ombra e dei suoi foschi segreti.”
Sissignore,” si limitò a rispondere il nostromo.
Il sole scomparve dietro l’orizzonte, la calma bellezza della notte tropicale, con i suoi profumi e i suoi mille rumori, si sostituì alla magnificenza del tramonto.
A un tratto, a Hook parve di vedere baluginare qualcosa di dorato in lontananza. Aggrottò le sopracciglia e si sporse in avanti. “Cos’è?” chiese sospettoso.
Soak guardò a sua volta e disse: “Sembra una zattera incendiata, signore.”
Una zattera incendiata? Che significa?”
Dalla costa se ne staccarono altre due, e poi ancora altre due. Dopo un po’ la laguna ne era piena.
Un faro,” ordinò Hook, senza distogliere gli occhi dall’insolito spettacolo.
Lo strumento fu portato in coperta, un potente fascio di luce spazzò il pelo dell’acqua rivelando le strutture galleggianti per quello che erano: piccole zattere di legno su cui era stato acceso un fuoco.
Che sia qualche rito di quelli là, signore?” ipotizzò Soak.
Pescatene una,” ordinò il comandante.
La zattera fu issata a bordo, ma si confermò una piattaforma fatta di pochi pali legati fra loro, con sopra foglie secche incendiate. Fu ributtata a mare.
Un'altra,” ordinò Hook.
Di nuovo la zattera fu esaminata e buttata a mare.
Può bastare,” disse a quel punto il comandante, ma il tono era poco convinto, come se qualcosa si ostinasse a sfuggirgli.

Speriamo che non gli venga in mente di controllarle tutte, signore,” sussurrò Schelle.
Sta’ zitto e nuota.”
Pagaiando cautamente con i piedi, attenti a non sporgere dalla sagoma della loro zattera, Pankow e Schelle si dirigevano adagio, col moto casuale di un legno affidato alle correnti, verso la Jolly Roger.
E se mi si appicca il fuoco ai capelli?” chiese il Radiotelegrafista.
Metti la testa sott’acqua e li spegni.”
Come faremo per salire a bordo?”
Ci sono un sacco di modi. Dalla scaletta laterale, per esempio.”
Schelle rinunciò a insistere. Continuò a nuotare adagio, cercando di non produrre alcun rumore. Se guardava la nave, vedeva la gente – un sacco di gente – che si muoveva in coperta.
Tutti sembravano interessati alle zattere su cui il fuoco brillava più vivace: qualcuno stava addirittura togliendo la capottatura a un cannoncino prodiero, con il chiaro intento di usare quegli improvvisati bersagli per fare un po’ di esercitazione notturna.
Hai visto? Funzionano!” esclamò Pankow. “È valsa la pena di lavorare tutto il pomeriggio.”
Signor tenente, ma se sparano a noi?” non poté fare a meno di chiedere Schelle.
Tanto non ci sparano.”
Si udì una detonazione, accanto a una delle zattere si sollevò una fontana d’acqua. Dalla nave provennero risate e acclamazioni.
I due continuarono a nuotare.
Ci furono un secondo colpo e poi un terzo. Una zattera esplose lanciando lapilli infuocati tutt’intorno.
Il cannoncino brandeggiò.
Schelle si girò in quella direzione e disse: “Signore, sta puntando verso di noi!”
Ma no, a quella dietro.”
No no, a noi, signore!” rispose il caporale inorridito.
Lascia la zattera,” gli consigliò il tenente, “e non mettere la testa sott’acqua, se no le esplosioni ti fanno scoppiare i timpani.”
Ma signore!”
L’impalcatura di legno e paglia, lasciata a se stessa, fu colpita da un tiro teso e si disintegrò, provocando la solita salva di acclamazioni sulla coperta. I due continuarono a nuotare fino a che non raggiunsero una delle scalette: i primi pioli erano corrosi, arrugginiti, incrostati di alghe e concrezioni. Schelle la fissò sgomento, poi chiese: “Signore, come facciamo a salire qui sopra?”
Fa’ finta di essere in palestra.”
Il caporale scosse la testa. “Ah, ma certo,” replicò cupo. “Stupido io a non pensarci.”
Pankow intanto, agile come un furetto, si stava già arrampicando. Di tanto in tanto si fermava per guardarsi intorno, poi riprendeva come se niente fosse. Sembrava che quell’esercizio non gli costasse il minimo sforzo.
Schelle proferì fra i denti un paio di imprecazioni, poi agguantò un piolo e a forza di braccia cominciò a issarsi.
Raggiunsero la coperta mentre ferveva il tiro al bersaglio, tanto che nessuno fece caso ai due fagotti fradici e ansanti raggomitolati sul castello di prua.
Pankow fu il primo a rialzarsi. Si scrollò come un cane e disse: “E ora, andiamo a cercare i nostri.”

Schelle ormai aveva rinunciato anche ad arrabbiarsi. In quel momento, ad esempio, Pankow stava camminando rasente a una parete su un incrociatore nemico, a cinque metri dall'equipaggio, certissimo che nessuno li avrebbe notati.
Per l'ennesima volta rinunciò a chiedersi se al suo superiore mancasse l'area del cervello che generava la paura o se fosse semplicemente stupido. Si limitò a seguirlo rassegnato.
Ora dobbiamo solo trovare i nostri,” sussurrò il tenente, come se si fosse trattato della cosa più semplice del mondo.
Il caporale alzò gli occhi al cielo: ma certo, niente di più facile. E poi come li avrebbero fatti evadere? Come si sarebbero difesi dagli inglesi, ma soprattutto dai loro Lee-Enfield?
Tutto ciò ovviamente non interessava a Pankow, che al momento sembrava un ragazzino intento a una partita di guardie e ladri particolarmente emozionante.
A un tratto si accesero tutti i fari e la coperta venne illuminata a giorno.
I due rimasero congelati, Pankow addirittura non proferì parola per quasi trenta secondi. Poi aprì la bocca per farlo, ma a quel punto una voce impostata e un po' sussiegosa disse: “Lei è solo un ostacolo sul mio cammino.”
Il comandante Hook avanzò con la sua andatura misurata e si fermò a debita distanza, con una posa degna del Re Sole e una pistola nella mano sana.
Alle sue spalle c'erano il sottufficiale corpulento e svariati marinai armati.
Schelle sentì il cuore piombargli nei pantaloni. Si vide già in un campo di prigionia in Canada ad aspettare i pacchi viveri della Croce Rossa.
Pankow fece un sorrisetto e tentò di nuovo di aprire bocca, ma Hook lo prevenne: “No, tenente, si faccia un favore, non dica una delle sue scempiaggini. Anzi, mantenga proprio il silenzio, già che c'è.”
L'altro rimase sì immobile e muto, ma Schelle vedeva già il suo sguardo guizzare alla ricerca di una via d'uscita da quella situazione. Via d'uscita che non c'era ovviamente, ma che Pankow avrebbe continuato pervicacemente a cercare, anche a costo di mettersi in guai più grossi di quelli in cui si trovava già.
Io ero un abile pianista,” disse Hook, senza abbassare l'arma, “e ora, per colpa sua non lo sarò mai più. Ero candidato a una promozione, ma il fatto che lei si sia impadronito del dispositivo ombra mentre era sotto la mia custodia l'ha fatta sfumare. Avevo un'intensa vita mondana, ma questo,” sollevò con fare minaccioso l'uncino, “questo l'ha resa un deserto.”
A quel punto, Pankow intervenne: “Perché? Mi sembra un ottimo argomento di conversazione.” Imitò la voce impostata dell'altro: “Volete sapere come ho perso questa mano, signori? E poi racconta qualche storia avventurosa.”
Quindi, a sentir lei, dovrei quasi ringraziarla,” ringhiò Hook assottigliando lo sguardo.
Schelle ritirò la testa fra le spalle. Gli spara, pensò, ora gli spara, lo fa secco e poi alla faccia della Convenzione di Ginevra lo butta ai pesci. E dopo tocca a me.
Pankow sorrise spavaldo e disse: “Le faccio una proposta: lei lascia andare tutti i tedeschi che ha catturato, ci dà una scialuppa e noi ce ne torniamo alla nostra unità.” Tacque.
Passarono alcuni secondi, poi Hook chiese: “E io cosa ci guadagnerei?”
Che conserverei un buon ricordo di lei.”
Il capitano fece una breve risata di scherno e scosse la testa. “Mi dispiace, tenente, ma temo di non poter accettare. Vede, io spero che d'ora in poi lei mi ricorderà esattamente come io ricordo lei.”
Come un simpatico giocherellone?” propose Pankow.
No, come la persona che mi ha rovinato la vita. Nel pensare a lei in futuro, tenente, avrò una sola e unica consolazione: che grazie a me sarà finito nel campo di prigionia più orrendo, pericoloso, violento e difficile di tutte le forze armate britanniche. Sto pensando alla Tasmania, tanto per darle un'idea.”
Speravo l'India, comandante. È tanto che voglio visitarla.”
Schelle di nuovo ritirò la testa fra le spalle, chiedendosi quanto sarebbe venuta a costare, in termini di disagi e patimenti, la sfrontatezza del tenente.
Si voltò verso di lui, ma Pankow era concentrato sul comandante Hook e sembrava che in quel momento nulla gli interessasse di più che rendere colpo su colpo all'avversario.
Emise un sospiro sconsolato.
A quel punto si fece udire un ticchettio. Proveniva dal basso, sembrava una simpatica vecchia sveglia.
Alla comparsa del suono, il nostromo inglese rivolse uno sguardo preoccupato al comandante Hook, ma questi non aveva occhi che per Pankow.
Il ticchettio frattanto continuava.
Signore...” tentò a un certo punto il sottufficiale.
Hook fece un gesto come per allontanare un insetto.
Signore, c’è di nuovo la Crocodile,” tentò di nuovo l'altro.
Il comandante strinse i denti e in tono tagliente replicò: “Cosa vuole che me ne importi? Usate l'asta della nafta come al solito, io ho da fare.” Rivolse di nuovo l'attenzione a Pankow. Con un ghigno diabolico disse: “Torniamo a noi, tenente. Penso proprio che la affiderò ai nostri servizi segreti, saranno molto curiosi di sapere che fine ha fatto il dispositivo ombra.”
Peccato che io non lo sappia,” replicò l'altro.
Il ghigno di Hook si accentuò. “Questo è del tutto irrilevante,” gli assicurò. “L'importante è che loro siano convinti che lei lo sappia, perché questo li spingerà a usare ogni sistema di persuasione, anche e soprattutto il più drastico, nei suoi confronti.” Emise un sospiro di nostalgia e concluse: “Peccato solo non essere presente.”
Il ticchettio si fermò.
Seguirono alcuni istanti di un silenzio cristallizzato e gravido di minaccia, in cui tutti parvero immobilizzarsi come in una sorta di grottesco tableau vivant.
Poi ci fu un’esplosione mostruosa. La detonazione fu talmente forte che Schelle sentì una fitta di dolore irradiarsi dai timpani fin dentro il cranio. Un’onda d’urto rovente sbatté a terra chiunque fosse in piedi, dalla fiancata della nave si alzò un geyser di fiamme che illuminò a giorno tutti i dintorni e si innalzò nel cielo come se avesse voluto arrivare fino alla luna. Roventi schegge di metallo si dispersero sibilando.
Il caporale si rialzò disorientato, con le orecchie che fischiavano. Gli sembrava di assistere alla proiezione di un film muto: vedeva la gente agitarsi, vedeva il fumo che si alzava e il ponte di coperta che assumeva un’inclinazione sempre più decisa, ma non sentiva assolutamente nulla.
Qualcuno lo afferrò per un braccio. Si girò bruscamente e si trovò di fronte Pankow. Lo vide muovere le labbra e immaginò, più che sentirlo, che gli stesse dicendo di muoversi.
Si rialzò un po’ incerto, barcollò un paio di volte, poi si risolse a seguirlo.

La nave stava chiaramente affondando. Pankow, che si era sporto per vedere l’entità del danno, si era trovato davanti una falla nella quale sarebbe senza sforzo passato un Opel Blitz con tanto di cassone rialzato. Non si intendeva molto di natanti, questo bisogna dirlo, ma anche da neofita capiva che una voragine del genere non era decisamente compatibile con il galleggiamento.
Non abbiamo molto tempo,” dichiarò.
Schelle, che correva al suo fianco, brontolò: “Ma che scoperta.”
La risposta fece supporre a Pankow che il caporale avesse già recuperato l’udito. “Andiamo,” disse quindi, “dobbiamo trovare i nostri.”
Adocchiò un marinaio della Jolly Roger che stava tentando di srotolare un naspo. Le pompe avevano già portato l’acqua in pressione, quindi il poveretto sembrava alle prese con i serpenti di Laocoonte. Lo raggiunse, agguantò il tubo, vigoroso e guizzante come una creatura viva, e disse: “Ti aiutiamo a portarlo se ci dici dove sono i prigionieri!”
Il tizio lo fissò con aria sbigottita, Pankow realizzò di aver parlato in tedesco. Ripeté la proposta in inglese, e nonostante la sua pronuncia ricordasse una raspa sul legno, l’altro sembrò capirlo.
Accennò di sì con la testa.
Il naspo richiese gli sforzi congiunti del marinaio e dei due tedeschi, soprattutto perché la coperta era ormai inclinata lateralmente di venti gradi, scivolosa e ingombra di detriti. Dalla falla si levava una colonna di fumo nero, di tanto in tanto salivano lingue di fiamma.
Qualcosa dentro la nave stava crepitando e sibilando.
Il marinaio pronunciò quelli che probabilmente erano ringraziamenti, quindi indicò un boccaporto che conduceva sottocoperta. Disse anche qualcosa a proposito di corridoi e svolte, ma tra la confusione che regnava ovunque e il suo cockney strettissimo, Pankow capì praticamente una parola su ventidue.
In ogni caso ringraziò compitamente e raggiunse il boccaporto. Appena fu sottocoperta, a pieni polmoni cominciò a urlare: “Guardiamarina Bär! Professor Hase! Professor Dachs! Mi sentite?”
Dopo un po’ che sbraitava come un banditore in un giorno di mercato, dal fondo di un corridoio provenne una voce: “Qui!” Qualcosa di pesante cominciò a battere ritmicamente contro una parete, forse per dare un’idea migliore della posizione.
Pankow sorrise. “Eccoli, i bimbi sperduti!” esclamò.
Correndo a braccia spalancate per bilanciarsi nel corridoio inclinato ormai di trenta gradi, il tenente raggiunse una fila di porte chiuse. dall’altra parte, qualcuno ci stava battendo contro con impegno.
In tono apprensivo, la voce di Bär disse: “Faccia presto, tenente! La nave sta per rovesciarsi.”
Ovunque si udivano scricchiolii, gorgogli e gli sfiati di masse d’aria che l’acqua spingeva fuori dai locali che man mano invadeva. La luce andava e veniva, le ventole che si trovavano sul soffitto funzionavano a intermittenza.
Pankow individuò un armadio antincendio, lo aprì e ne estrasse l’ascia, poi con la punta dello strumento colpì la porta, creando un buco passante.
Guardò di là e incontrò lo sguardo teso di Bär. “Ci siete tutti?” gli chiese.
Sì, si sbrighi!”
Pankow sfondò la prima porta, per la seconda gli diede una mano il guardiamarina. Uscirono tutti: i fratelli Liefke, i due studiosi e i marinai Murmeltier, Marder e Fuchs.
Caliamo una scialuppa, finché siamo in tempo,” disse Bär.

§

Ormai era l’alba. Vista da lontano, la Jolly Roger era uno spettacolo apocalittico. L’incrociatore era praticamente sdraiato su un fianco e un denso fumo usciva da tutti i suoi boccaporti. Le file di uomini che lo stavano abbandonando creavano uno spettacolo degno dell’Inferno illustrato dal Dorè.
In piedi a prora della piccola lancia, Bär osservò serio il relitto e disse: “Spostiamoci in copertura dietro l’isola.”
Perché?” chiese Pankow, che stava seguendo la faccenda come avrebbe fatto un ragazzino con le evoluzioni degli acrobati di un circo.
Quel fumo non mi piace. Per me tra un po’ salta la santabarbara.”
Mi ha convinto, Bär. Forse è meglio che ce ne andiamo.”
I marinai si misero ai remi, la scialuppa si allontanò rapidamente. Avevano appena doppiato un piccolo promontorio quando si udì dapprima un’esplosione assordante e poi una serie di detonazioni più piccole, raffiche, crepitii e fischi. Allo stesso tempo, dal relitto ormai sventrato si levò una colonna di fiamme alta come un palazzo a tre piani, sormontata da un nuvolone di fumo rosso aranciato alla base e violaceo nella parte superiore.
Bär emise un sospiro e disse: “È sempre un dolore vedere una nave che affonda.” Rispettosamente si tolse il berretto e chinò il capo. I tre marinai lo imitarono.
Pilota e avieri si scambiarono un’occhiata poi, più che altro per non fare brutta figura, assunsero a loro volta un atteggiamento di compostezza grave. Chi era riuscito a conservare il berretto se lo tolse, gli altri si limitarono a un silenzioso raccoglimento.
Nel generale clima di mestizia, si fece udire la voce del professor Hase: “Non sarebbe meglio recuperare il dispositivo ombra, prima di lasciare l’isola? Costa un sacco di soldi.”
Bär gli riservò l’occhiata che avrebbe rivolto a un mercante nel tempio.

§

Sulla coperta della Schütze erano state drappeggiate bandiere da combattimento della marina e bandiere del Reich, inoltre erano stati confezionati ornamenti di foglie per decorare un palco su cui era posata una scatola a tenuta stagna, delle dimensioni di una cassa di birra, con la scritta GeKaDoS stampigliata sopra in rosso.
Tutti gli uomini che non erano impegnati in servizi indispensabili erano schierati in attesa.
Si fece avanti il comandante von Stauff, in uniforme di gala nonostante il caldo, e tutti scattarono sull’attenti come un sol uomo.
L’ufficiale diede il riposo, poi estrasse un foglio e si apprestò a leggerlo.
A quel punto, nel silenzio perfetto della coperta si udì un gnaulare infernale, accompagnato dal rumore fesso di barattoli di latta percossi. Davanti ai piedi di von Stauff passò come un fulmine il gatto di bordo, emettendo strida demoniache e trascinandosi dietro, legate alla coda, un certo numero di lattine vuote.
Pankow assunse l’aria innocente di un agnellino neonato.

Hans Liefke alzò gli occhi verso il tenente Pankow, che momentaneamente privo di un velivolo era sdraiato sulle guide della catapulta in calzoncini corti e occhiali da sole, e disse: “Io voglio diventare come lui.”
Anch’io,” disse Michael.
Appena possibile voglio fare domanda per la scuola di volo.”
Anch’io!”
No, tu no.”
E perché io no?”
Perché l’ho detto prima io!”
E allora? Pensi che il Reich abbia bisogno di un solo pilota? E poi sai che ti dico? Che io non vado a fare la scuola sugli idrovolanti: io voglio diventare un pilota da caccia!”
Hans si concesse addirittura una sghignazzata. “Anche tu vuoi andare alla scuola di volo come Wendel? Ragazzi, ci vuole il fegato per fare i piloti da caccia.”
E sentiamo, tu ce l’avresti?”
Hans lo fissò con degnazione, “Certo.”
Ma figurati. Quando ci hanno catturati gli inglesi a momenti te la facevi sotto.”
Parla quello che quasi quasi si metteva a piangere.”
Non è vero!”
A quel punto intervenne Wendel dicendo: “Hans, Michael, andate a fare i vostri bagagli, partiamo fra mezz’ora.”
I due lo fissarono sgomenti. “Fra mezz’ora?” ripeterono all’unisono. “Ma...” Partire significava niente più avventure divertenti, niente più scherzi al gatto di bordo, niente più risate. Solo serietà e dovere.
Torniamo sul Walküre,” spiegò il maggiore.
I due si voltarono verso Pankow già con l’espressione di nostalgia. Michael emise un sospiro e chiese: “Possiamo almeno andare a salutarlo?”
Wendel assentì.
I due partirono festanti, fecero di corsa i gradini che portavano alla piattaforma di servizio, poi Hans gridò: “Signor tenente!”
Svegliato di soprassalto, Pankow sobbalzò e si girò come per scendere da un immaginario letto, ma trovò sotto di sé solo il vuoto. Freneticamente cercò di aggrapparsi da qualche parte, ma non ci riuscì.
Si udì il tonfo di un corpo che piombava in acqua.
Uomo in mare!” urlò qualcuno.

§

Sotto una tettoia di foglie di banano, seduto a un tavolino recuperato dagli arredi della Jolly Roger, Hook guardava pensoso l’orizzonte parzialmente nascosto dalla mole dell’incrociatore rovesciato.
Disseminati lungo la spiaggia, o ai margini della foresta, vi erano i ricoveri di fortuna che gli uomini avevano costruito e i depositi con quello che era stato salvato. La cosa non lo preoccupava, sarebbe arrivata presto un’altra nave di Sua Maestà a trarli d’impaccio.
Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi,” prese a recitare assorto, “perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza. Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali. Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua offesa. Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma...” si interruppe e tese l’orecchio: gli pareva di sentire tamburi, cimbali e strumenti a fiato che suonavano tutti insieme in una spaventosa cacofonia.
Signor Soak!” chiamò.
Comparve il nostromo. “Signore?”
Signor Soak, dica agli uomini di smetterla con questo fracasso. Non riesco a pensare.”
Il sottufficiale lo fisso stupito. “Signore, nessuno degli uomini sta facendo fracasso.”
I clamori frattanto stavano aumentando di intensità. Ora di distingueva anche un canto dissonante, che sembrava non aver nulla a che fare col chiasso degli strumenti.
Comparve infine una torma di indios festanti. Tutti indossavano abiti colorati e monili, le donne erano adorne di cascate di fiori.
In testa al corteo, sotto un tendale retto da quattro uomini, incedeva l’imponente figlia del capo, agghindata da gran festa.
Sotto gli occhi esterrefatti di Hook, la processione si arrestò e da essa si staccò un uomo vecchissimo, dalla pelle incartapecorita, vestito di una specie di stuoia di erbe, con una collana da cui pendevano ossa e feticci. Costui si fece avanti reggendosi a un bastone, pronunciò un discorso e fece gesti benedicenti verso la figlia del capo e verso di lui.
Il comandante continuava a fissare gli indios ammutolito.
Si fece avanti a quel punto un altro indigeno, che con qualche fatica proclamò: “Ecco moglie.” Indicò l’orchessa che aveva abbattuto non meno di tre dei suoi marinai col solo ausilio dei piedi.
Prego?” chiese Hook, più che mai stupito dalla piega che stava prendendo la faccenda.
Moglie,” ripeté l’altro in tono ovvio. Prese per mano la ragazza e gliela condusse davanti. Yvoty Jaguarete ebbe anche il coraggio di assumere un’aria timida e virginale.
Ad ogni buon conto, Hook si alzò dal tavolino e arretrò di un passo. “Come sarebbe a dire, moglie?” chiese sospettoso.
L’indio lo fissò come se si fosse sentito chiedere perché l’acqua messa sul fuoco si scalda. “Tu portata caverna,” spiegò col tono di ribadire l’ovvio. “Lei moglie.” Annuì per sottolineare il concetto. “Caverna, moglie,” ribadì.
Alle spalle di Hook, il nostromo intervenne: “Signore, forse questa gente quando si vuole sposare ha l’usanza di rapire una donna e portarsela da qualche parte.”
Beh, io no,” rispose precipitoso il comandante, arretrando ad ogni buon conto di un altro paio di passi.
Yvoty Jaguarete gli scoccò un’occhiata languida, l’indigeno che faceva da interprete parve soddisfatto. “Lei moglie!” proclamò. Ripeté verosimilmente la stessa cosa nella lingua della tribù e tutti esplosero in un’ovazione.
Il capo in persona si avvicinò e pronunciò solennemente un discorso di cui nessuno degli inglesi capì una parola, quindi si girò e si allontanò assieme al resto della tribù, mentre cimbali e tamburi riprendevano a suonare e i canti si innalzavano verso il cielo.
Hook alzò lo sguardo sull’orchessa: vestita in paramenti nuziali sembrava ancora più alta e più grossa di come la ricordava. “Puoi andartene,” le disse. Fece un gesto come per scacciare i polli. “Puoi andare via, mi capisci? Sciò sciò.”
Yvoty Jaguarete fece un passo verso di lui.
Il comandante arretrò. “Signor Soak, me la tolga di dosso!” ordinò. Il nostromo cercò di afferrarla, ma fu mandato con facilità gambe all’aria.
L’orchessa riprese la sua inesorabile avanzata.
Signor Soak!” tentò di nuovo Hook. Adocchiò una scialuppa che era stata tirata in secca, la raggiunse, la spinse in acqua e saltò a bordo giusto un attimo prima che Yvoty Jaguarete riuscisse a ghermirlo. Infilò a quel punto i remi negli scalmi e prese a pagaiare verso il largo con tutta la forza, mentre l’orchessa, ormai con l’acqua a metà coscia, tendeva le braccia verso di lui ed emetteva muggiti che di sicuro nella sua lingua dovevano essere struggenti dichiarazioni d’amore.

   
 
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