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Autore: Iryael    09/10/2019    3 recensioni
Ratchet racconta in prima persona l’esperienza della DreadZone: l'arrivo, la finta libertà dei gladiatori, le giornate scandite dai combattimenti, la fuga.
«All'inizio mi rifiutai di capire che quel che pensavo dei gladiatori, in realtà, era l'immagine che i mass-media vendevano agli spettatori. Ma il mio rifiuto non durò a lungo: bastarono pochi giorni a farmi aprire gli occhi.
Non esisteva paragone migliore del circo: noi gladiatori eravamo le fiere; mentre gli Sterminatori, le brillanti stelle dello spettacolo, erano domatori che si alternavano sulla pista dell'Arena.
Poi c'era lui, Gleeman Vox. Lui che aveva l'abito rosso del presentatore e coordinava la baracca, guadagnando sulla nostra pelle.
Fama, soldi e belle ragazze erano la nostra gabbia dorata. Quella vera, esplosiva, ce l'avevamo chiusa al collo.
Aprire gli occhi mi fece incazzare di brutto.
Nessun circo poteva permettersi di tenere un drago in gabbia. E loro - Vox e compagnia - l'avrebbero capito presto.»

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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Big Al, Clank, Gleeman Vox, Nuovo Personaggio (Takami Kinomiya), Ratchet] [Probabile OOC]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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Casino che va, casino che viene
(Un angolo segreto, una possibile alleata e un colpo al cuore)
 
Quella notte dormii male. Mi svegliai spesso, scappando da un incubo per saltare in un altro. Come se gli incubi non fossero sufficientemente sgradevoli, poi, non appena tornavo cosciente i pensieri si focalizzavano sul problema con Al. Fu proprio una notte da dimenticare.
Se non altro, però, quelle veglie ansiogene mi consentirono di pensare un piano per risolvere il nostro casino interno. Non una cosa ultra dettagliata, eh! Però arrivai a un’imbastitura decente per qualcosa di pratico.
A quel punto, finalmente, riuscii a schiacciare un pisolino senza sogni.
* * * * * *
Subito dopo colazione io e Takami ci dividemmo. Lei andò con Clank alle palestre per il suo addestramento; mentre io andai a cercare Al. Ero ottimista sulla mia pensata notturna ed ero convinto che ci avrebbe portato a una tregua. Dovevo solo interpellarlo nelle vesti di ChronoPath.
Prima di dividerci Clank – santo Clank – mi diede una dritta. Mi disse di un posto nel Padiglione 4 dove Al s’era procurato una cassa di telecamere per farne circuiteria. Nel parlargliene Al l’aveva chiamato “il Magazzino”, ma non aveva rivelato dove fosse.
Per fortuna lo sapeva Takami, che mi diede istruzioni molto precise su come raggiungerlo. Poi, arrossendo davanti ai nostri sguardi incuriositi, si era giustificata proiettando che lei ci era andata di nascosto, qualche volta.
In sostanza: il Padiglione 4 era costruito attorno ai generatori degli scudi stellari della stazione, quindi aveva una planimetria incasinata. Mettendoci una sistemistica al risparmio, ecco che al suo interno si era creato un percorso che si snodava completamente negli angoli ciechi delle telecamere.
Non era certo un percorso lineare, anzi: fu lungo e snervante, un po’ perché avevo l’impressione di girare in tondo e un po’ perché Takami aveva scritto e ribadito che quel posto era un luogo di cui tutti i Tecnici erano parecchio gelosi; per cui non dovevo assolutamente uscire dal percorso.
Uno sbuffo alla volta arrivai al livello più basso. C’erano una manciata di porte a scorrimento, e da una di esse stava uscendo un akva. Mi vide e trattenne un sussulto; poi, dopo il primo attimo, lo sentii mormorare che per fortuna non ero una guardia.
«Ehi. È il Magazzino?» lo apostrofai alludendo con lo sguardo alla porta, che in quel momento si richiuse in silenzio.
Lui mi squadrò meglio. «Hai... come sei arrivato qui?»
Che domanda idiota. «Fuori dai radar, se è questo che intendi.»
L’akva ci pensò un attimo, poi annuì. «Vai pure.»
Dentro, in una stanza quadrata, c’era una mezza dozzina di persone di varie specie. Al mio ingresso qualcuna si girò a guardarmi, ma tornò quasi subito a farsi gli affari suoi. Solo una xarthar, che sedeva su una grossa cassa con un pc in grembo, chiuse il portatile e mi venne incontro. Aveva il pelo rugginoso, una disordinata coda di capelli biondi e indossava la divisa grigia e blu dei Crociati.
«Ehi, sembri perso. Prima visita o ci sei finito per caso?»
«Prima visita. A dire il vero cerco il mio tecnico. È un kerwaniano alto così...» e gli descrissi Al.
Gli occhi, di un verde vivido, le si illuminarono. «Ah! Sì, so chi è. Viene spesso. È passato più o meno un’ora fa.»
Un’ora?
Ero allibito. E preoccupato. Un’ora prima noialtri facevamo colazione! «E... ha detto dove sarebbe andato?»
Scosse la testa. «Ha detto solo che sarebbe tornato prima di pranzo.»
Tornare indietro e ritentare in seguito mi avrebbe preso più tempo che rimanere ad aspettarlo. Sospirai e mi guardai intorno. «Posso sedermi da qualche parte o ci sono postazioni riservate?»
La xarthar allungò un sorriso. «Abbiamo sedie, brandine e qualcosa di meglio. Preferenze?»
Nel suo tono c’era una lievissima nota di divertimento, che mi catturò al volo. «Cosa intendi con “di meglio”?»
«Siamo specializzati in più di trenta branche scientifiche; qui ognuno ha il suo “di meglio”. Sono sicura che ci sia qualcosa anche per te.»
Intrigante. Un sorriso gemello al suo mi salì alle labbra. «Allora è deciso.»
«Ottimo.»
E, materializzato un contel, ci portò altrove.
* * * * * *
Quando arrivammo rimasi a bocca aperta.
Dietro i banchi, gli attrezzi, i pezzi, il casino, l’odore di officina e di ferro bruciato c’era una vetrata. E, al di là, un piccolo sole chiuso in una stanza.
«Quello è il nucleo radiante degli scudi della stazione.» mi disse la xarthar, orgogliosa come se quell’affare ce l’avesse messo lei. «Ci fornisce luce e ci scherma dagli occhi e dalle orecchie di Vox.»
Fischiai l’ammirazione. «Non mi stupisce che teniate segreto questo posto...»
«È una manna dal cielo scambiarsi le idee senza temere la scossa punitiva. Comunque.» Mi tese la mano. «Cocobìt O’Can-do, per tutti Coco. Benvenuto al Magazzino, assassino di Skìos.»
Le strinsi la mano. A dispetto del piglio aveva una stretta delicata. «Chiamami Ratchet. Quel titolo mi va stretto.»
Coco allargò il braccio indicando lo stanzone. «Allora, come possiamo tenerti impegnato? Là ci sono le rastrelliere con le armi riparabili; di là ci sono vecchi robot per i ricambi; di là invece...»
La mia attenzione, però, se l’era già guadagnata qualcos’altro. Coco lo notò. «Quello è il mio progetto a tempo perso.»
«Posso dargli un’occhiata? Ti dispiace?»
Mi accompagnò al suo bancone. A sinistra, puliti e ben mantenuti, c’erano due carrelli con un tornio e una fresatrice; mentre a destra, sul tavolo, c’era un blocco motore molto compatto. Era parzialmente smontato, con parti sparse sul piano di lavoro. Leggermente più lontani – come se fossero più importanti – c’erano i pezzi di un cambio manuale disposti su due file. Sembrava di vedere un esploso: su una fila c’erano gli ingranaggi, i perni e tutti i pezzi dell’albero primario e sull’altra fila tutte le componenti di quello secondario.
Prima, seconda, terza... sei marce. – contai. Poi, nel girarmi verso il blocco motore, urtai qualcosa col piede. Controllai di non aver fatto danni e, vedendo cos’avevo toccato, la domanda sorse spontanea.
«Pneumatici?»
Guardai la xarthar, sottintendendo una domanda che lei colse perfettamente.
«Avevo un kart, a casa. Roba d’epoca, però ogni tanto lo facevo andare. Mi ha insegnato che una derapata su gomma è più coinvolgente come sensazioni.»
«Sul serio?»
«Serissima!» aggiunse, gli occhi che brillavano per l’entusiasmo. Poi quella luce si smorzò di colpo. «Quand’ho capito che da qui non si esce ho scaricato i progetti e ho cominciato a costruirne uno mio... ovviamente con trazione su gomma.»
“Ovviamente”. Io già avrei optato per il moto levitato.
Questione di gusti, mi dissi.
* * * * * *
Passai l’attesa chiacchierando con Coco del suo progetto. Me lo illustrò volentieri e quando mi disse che i pezzi sul bancone erano tutti fatti a mano con gli strumenti del Magazzino il mio cervello esplose. Poi, mentre discutevamo della trasmissione, Al ci raggiunse. Mi accorsi del suo arrivo con la coda dell’occhio e, alla seconda occhiata, capii che la mia presenza lì non gli era gradita.
«Che ci fai tu qui?» fu il suo saluto, asciutto.
«Devo parlarti.» ricambiai, ancora vivace per la chiacchierata meccanica. «E finalmente ho capito dove passi il tempo libero.»
«Non credevo mi monitorassi.»
«Non lo faccio, infatti.»
«Non si arriva qui per caso.» fece, duro. «E non credo che tu abbia pedinato il tecnico di qualche altra squadra.»
Aggrottai le sopracciglia. Pedinato?
Sul serio pensava che l’avrei pedinato per arrivare lì?!
«Ma perché avrei dovuto spiarti?»
«Oh, e chi può saperlo.» fece, stizzito. «Ultimamente neanche ti comporti da te stesso.»
Quell’uscita – quell’accusa – mi deluse parecchio. Mi morsi la lingua per non inveirlo; mi aggrappai al motivo per cui avevo passato quaranta minuti a sgattaiolare nei corridoi; mi imposi di tornare ai binari che la mia mente aveva tracciato fra un incubo e l’altro.
Il braccio di Cocobìt sbandierò fra me e Al. Aveva fatto il giro del tavolo e non me n’ero neanche accorto.
«Ehi, sentite, questo è il mio bancone. Se dovete lanciarvi piatti fatelo lontano da qui.» intervenne, piuttosto bellicosa.
Al le rivolse un’espressione sgarbata, poi mi indicò un angolo vuoto fra alcuni banchi inutilizzati. Ci spostammo là.
«Senti: non sono qui per fare scena.» cominciai subito, prima che mi trascinasse al punto di non ritorno con le sue cazzate. «Voglio reclutare ChronoPath.»
Al s’irrigidì. Si guardò intorno con aria circospetta, poi soffiò: «Non ci mettere in relazione! Sei demente?»
Gli lasciai il tempo per sfogare l’agitazione con tutti quei gesti assolutamente antisgamo come riguardarsi intorno, mordere l’interno della guancia, nascondere le mani e controllare i dintorni per la terza volta in pochi secondi. Poi anch’io parlai sottovoce.
«Mi servono dei filmati della sorveglianza.» dissi. «E non te li chiedo da amico, ma da cliente.»
Forse fu il tono, forse fu la parola in sé, ma quando dissi “cliente” Al sembrò bloccarsi; come se gli avessi tirato un gavettone.
In quell’attimo si trasformò: si fece più freddo nei modi e nel tono. Mise le distanze. Ma andava bene, era quello che volevo: io ero un cliente; non il suo capitano e nemmeno un amico.
«Dipende dai filmati.» disse, pragmatico.
«Ufficio di Vox, la sera che abbiamo saputo il nome di Takami.»
La sua espressione si fece corrucciata. Gli lessi in faccia la domanda “e che te ne fai?!”, ma scelsi di ignorarla apertamente.
«Non hai idea di quanto sia protetta la videosorveglianza, vero?»
Domanda retorica. «Neanche un po’.»
«Be’, lo è parecchio.»
«E tu sei il peggior incubo dello staff di Vox. Sono sicuro che saprai superare i loro blocchi.»
Attimo di silenzio.
«Di certo non li vuoi per ricordo.» concluse. «A chi devi darli?»
«Importa poco.» mentii. «Chi me li ha chiesti non è il destinatario finale.»
«E non sai chi è?»
«No.» ed ebbi un improvviso lampo di genio. «Ma voglio stanarlo. Vorrei che criptassi il video, e se lo vorrà vedere dovrà scendere a patti direttamente con me.»
Capii di aver detto una schifezza nel momento in cui Al storse il naso. «Criptarlo non è un problema. Il problema è che questo tipo potrebbe giocare sporco se gli forzi la mano.»
«...e tirarvi in mezzo. Hai ragione, non si può fare.» mormorai, deluso. Altro che lampo di genio; era stata un’idea ingenua. Allora gli chiesi consiglio.
«Potrei fare in modo di tracciare su quali computer viene visualizzato. Se non altro restringerà il cerchio dei visualizzatori.»
Finsi di pensarci su, poi gli diedi l’okay. Rimanemmo d’accordo che m’avrebbe consegnato la microcard una volta pronta e mi fece cenno di levarmi dai piedi.
«Non abbiamo discusso il prezzo.» gli feci notare.
«Sono anni che non do fondo alle mie conoscenze; sono arrugginito. E non faccio pagare un servizio scadente.»
«Ma se l’anno scorso hai impegnato la griglia di difesa di Capital City per un videofumetto di Qwark!» protestai. «Dove saresti scadente?»
«Quello!» Fece roteare gli occhi, quasi oltraggiato da quello che voleva essere un complimento. «Quello era un gioco. Ed ero fisicamente dentro la centrale.»
«Bah!» alzai le mani. «Come vuoi. Grazie del regalo allora.»
Lui mi scoccò un’altra delle sue occhiate professionalmente fredde.
«Io, fossi in te, aspetterei a cantare vittoria.»
* * * * * *
«Sta’ all’occhio. Le probabilità sono tutte contro.»
Fu l’ultima frase che Al mi disse prima di riportarmi via contel nel bugigattolo dove avevo incontrato Coco.
Quelle parole mi tormentarono più del lecito mentre tornai indietro. Era per il tono? Era per il fatto che non riuscissi ad associare l’Al del Giorno Uno a quello dell’ultimo periodo?
È andata come pensavo. – mi dissi, cercando per l’ultima volta di zittire il disagio – Anzi: non ha urlato istericamente, quindi è andata pure nel modo migliore. Ora devo coinvolgere Clank.
Fu per quello che, una volta tornato nel corridoio della cella 4-723, puntai dritto al Padiglione 2 e alle palestre.
Clank era al pian terreno, in un buchetto abbastanza vicino alla porta. Quando arrivai stava chiedendo a Takami di alzare un ginocchio. Lei, dritta come un palo, dopo aver preso la posizione si ritrovò a fare mille movimenti per non perderla.
«Le braccia; apri le braccia.» la corresse ancora Clank, mostrandole la posizione da tenere. Quando lei riuscì a stare ferma, in equilibrio, allora lui indicò l’angolo tra la gamba alzata e il torso e cominciò un’altra spiegazione. Galassia, che pazienza. Io avrei sbottato almeno un paio di volte.
Takami non fece che annuire fino all’ultimo, e quando tornò con entrambi i piedi per terra mimò una porta e mi indicò. Clank si girò all’istante.
«...Ratchet. Non ci aspettavamo di vederti arrivare.» fece, stupito. «Sei riuscito a parlare con Al?»
«Yep. Incredibile ma vero.»
Mi squadrò. Non era una risposta completa, e lui aspettava il resto. Così gli raccontai del mio incontro, tralasciando Coco e tutti gli sbuffi che avevo esalato lungo il percorso.
«Quello che Al non sa è che il destinatario del video in realtà è lui.» confessai alla fine. «Be’, in effetti anche te.» mi corressi. «Pensi di riuscire a controllarlo?»
«Perché proprio l’incontro con Vox?» chiese lui di rimando.
«Tcì!» Takami, forse per la polvere, starnutì all’improvviso. La guardai di riflesso, mentre si strofinava il naso contro il dorso della mano fasciata, e mi resi conto che la risposta nuda e cruda le avrebbe fatto un sacco male.
«Perché ci sono cose che ho dimenticato di dirvi.» tamponai. «Cose importanti, che Al non ascolterebbe manco se gliele dicessi in ginocchio.»
«E in che modo con me sarebbe diverso?»
Aprii la bocca e la richiusi subito, senza sapere cosa rispondere. Lui era quello paziente dei tre, mi aspettavo che sarebbe riuscito a far funzionare l’operazione in modo liscio. Perché faceva il difficile?
«Sai, pensavo che la fase irresponsabile fosse finita assieme all’addestramento Megacorp.» disse. Era deluso, forse anche arrabbiato. «Invece, da quando ti hanno nominato capitano della Phoenix, continui a rifilarmi gli incarichi a te sgraditi. E peggio! Da quando siamo qui mi metti anche in una posizione in cui, se rifiuto, accade qualcosa di brutto. E la cosa più sgradevole è che, mentre io tappo una falla, tu vai in giro ad aprirne un’altra.» avvertii i miei lineamenti cambiare disposizione. Clank appoggiò un dito sul mio sterno. «No, non hai diritto di protesta. È così, e devi capire che non posso continuare a tappare buchi; ma soprattutto che non posso essere contemporaneamente dappertutto. Nel caso attuale: se sto con Al non posso stare con Takami, e questo mi impone di scegliere.»
Allungò una mano col palmo verso l’alto. «O scelgo di conoscere fatti rilevanti per l’integrità della squadra,» portò l’altra mano in posizione speculare «O scelgo d’insegnare a Takami delle tecniche che domani potrebbero salvarle la vita.»
Mosse le mani come fossero due piatti da bilancia. Le guardai fare su e giù per qualche istante, poi tornai a guardarlo in faccia. Che melodrammatico. «Potresti lasciarmi Takami per un giorno o due e seguire Al. Sistemerebbe tutto.»
Mi scoccò un’occhiata scontenta. «Come la prima volta che siete andati al poligono?» ironizzò. La memoria di quel pomeriggio riemerse portando con sé l’eco della rabbia e dell’impazienza. Non riuscii a nascondere la mia reazione, ma Clank fu abbastanza magnanimo da non caricarci sopra.
«Sai cosa? Resterò con Takami.» concluse, secco. «Se proprio vuoi controllare Al puoi impegnare te stesso. Almeno non aprirai falle altrove.»
* * * * * *
 Portai il mio ego maltrattato nella cella che dividevo con Takami. Mi lasciai cadere a peso morto sulla branda e rivissi il dialogo con Clank. Galassia, era davvero esasperato per farmi una parte simile.
Comunque era stato chiaro: ad Al ci dovevo pensare io. E lo avrei fatto. Oh, se l’avrei fatto! Tutta la mia pensata notturna dipendeva dal fatto che Al guardasse quel video di straforo!
Comunque: era improbabile che lavorasse come Chronopath dalla sua cella. Quasi sicuramente avrebbe scelto un altro luogo... e se avessi dovuto puntare il dito sulla mappa avrei scelto il Magazzino. Era riparato, era segreto, e gli permetteva di lavorare in mezzo a un po’ di gente senza che qualcuno si immischiasse nei suoi affari.
Dovevo controllare, ma in modo antisgamo. Mi ci voleva una scusa, e pure una buona, per andare in quel posto.
Dovevo pensarmela bene.
* * * * * *
Quel pomeriggio tornai nel Magazzino. Passai la prima stanza con la cortesia del Tecnico di Kid Nova e andai al bancone di Cocobìt. Lei non c’era, ma era una possibilità che avevo messo in conto. Così presi un rotolo di nastro carta e ne stesi una striscia vicino al motore sventrato. Il lapis con la punta sbozzata fece il resto.
 
Il tuo progetto è una figata! Mi piacerebbe aiutarti, se due mani in più ti fanno comodo.
Fammi sapere. – Ratchet
 
Poggiai la matita, ma dopo un attimo ci ripensai e la ripresi per aggiungere il nome della squadra. Non so quanto sia comune il mio nome, ma non volevo dubbi.
Non restava che incrociare le dita.
* * * * * *
Il mattino dopo, 4 novembre 5401-PF
 
Dopo una notte senza sogni e una doccia non volutamente gelata, uscimmo per andare a colazione. Avviammo la saracinesca e aspettammo tutti gli otto secondi che ci volevano perché si aprisse completamente.
Lì per lì percepii qualcosa di strano, ma non capii cosa. Poi misi a fuoco il muro di fronte alla porta della cella. Affissa all’altezza delle anche c’era una striscia di nastro carta.
 
Sicuro! Quando vuoi!
 
Mi avvicinai. Non era firmata, ma non avevo dubbi che fosse per me. Il nastro e il lapis erano i mezzi che avevo usato nel Magazzino.
Strappai il messaggio e lo appallottolai. Poi sentii tirare la tuta.
 
Che cos’è?
 
«Niente.» risposi in automatico. Takami abbassò la mano e non chiese altro.
Ci avviammo al Padiglione 3, quello con la mensa, e una volta là ci riunimmo con Clank. Era già seduto e ci aspettava con in mano quello che sembrava un bicchiere pieno d’olio.
«Al è ancora intrattabile?» chiesi, mentre ordinavo la pappa grumosa. Lui fece spallucce.
«Non proprio, ma è uscito presto. Ha detto di avere da fare.»
Non servirono commenti. Una risposta vaga di solito nascondeva (male) qualche misfatto. Al era troppo onesto. Sinceramente, non mi spiegavo come avesse fatto a uscire indenne dalla faccenda dell’hacker.
Arrivò la pappa grumosa. La fissai per qualche secondo, arricciando il naso per il disgusto. Nello stesso tempo Takami riempì il cucchiaio e se lo infilò in bocca. La guardai masticare e ancora una volta pensai che io quel coraggio non ce l’avevo. Galassia. Era viscosa e dentro c’era roba sabbiosa che si attaccava al palato. E i grumi erano grigio-rossicci e sembravano calcoli renali.
«Farò come mi hai detto.» dissi di getto, attaccando gli occhi su Clank.
«Mi fa piacere.» replicò lui. «Quindi tornerai là oggi? Perché ho l’impressione che anche Al si sia rintanato in quel posto.»
«Lo credo; ricorda il RoboShack.»
 
Cos’è un RoboShack?
 
«Il negozio di Al, dove ci costruisce e ci ripara i robot. Si trova a Metropolis.»
Lei, di risposta, annuì. Presa nota dell’informazione, riprese a mangiare coi pensieri persi altrove.
* * * * * *
Cocobìt  – che pretese di essere chiamata Coco – mi mise subito all’opera, e così nei due giorni che seguirono potei intravedere Al che lavorava in un angolo.
Credevo che le cose stessero andando bene; che stessero prendendo la via della riconciliazione. Ero abbastanza sicuro che Al avesse visto il video quella mattina, quando aveva armeggiato per un po’ con le cuffie appoggiate ad un orecchio. Da quel momento aveva continuato a lanciarmi occhiatine di sottecchi, ma non mi aveva ancora allungato la microcard e io non avevo intenzione di finire prima la sceneggiata. Dunque aspettavo, e intanto mi ero fatto anticipare qualcosina su Sarathos da Coco. Lei lo chiamava “la madre dei leviathan”, e da quello che mi raccontò sulla pista desiderai ardentemente di possedere ancora il mio arsenale.
«Già. Sarathos è un bel fattore scremante.» confermò Coco, ricomponendo abilmente l’albero del cambio. «Però non sei messo così male, dai.»
«No. Non sono messo così male.» ripetei per convincermi di quelle parole.
Una breve luce vicino all’ingresso segnò l’arrivo di qualcuno, ma non ci diedi peso. Però poco dopo udii dei passi irregolari avvicinarsi, e allora m’incuriosii.
Era Takami.
Teneva una manica sotto il naso, e con l’altra mano portava in braccio Clank. La faccia di lei era una crosta di sangue; gli occhi di lui erano spenti. La chiave che avevo in mano scivolò a terra.
«TG!» chiamò Coco, sconvolta, accorrendo con me. La xarthar le spostò i capelli dagli occhi e le poggiò le mani sulle guance, controllando come stava. Io le sfilai Clank dalla mano sinistra, e fu di male in peggio. Il braccio di Takami, privato del peso, ciondolò contro il fianco e dalla mano gonfia scivolarono le gambe di Clank. Le raccolsi; erano piegate in maniera deforme.
«Cos’è successo?» sussurrai, conoscendo la robustezza di quella lega.
Takami guardò Coco e guardò me, lo sguardo stordito, poi tolse la manica da sotto il naso. Una scia di sangue corse giù dalle narici sulle labbra e sul mento, ma lei lo ignorò. Si toccò il vambrace, scosse la testa e per poco non si afflosciò come un sacco.
«I madh Aku!» bofonchiò la xarthar, costringendo Takami a guardarla negli occhi. «Vieni piccola, siediti.»
La accompagnò al banco e la mise a sedere contro la parete. Per maggiore privacy spostò anche il carrello del tornio di modo che fosse più nascosta alla vista. Takami evocò uno schermo verdolino, ma dal proiettore emerse un quadro sfrangiato e sfrigolante. Rimaneva funzionante solo un angolo; lo spazio era appena sufficiente per una lettera.
 
S
 
«Dopo.» le disse Coco in tono fermo, coprendo il proiettore con la mano. «Ora pensiamo al tuo naso. China un pochino la testa e stringi così.»
Il banco accanto quello col kart era vuoto. Ci poggiai le gambe deformi e poi, con tutta la cura che possedevo, posai Clank.
Fu quel gesto a far scoppiare la mia bolla di stordimento interiore. Realizzai che metà squadra era stata pestata e che il mio migliore amico era disattivato, danneggiato oltre ogni mio conto più tetro e forse irreparabile.
Strinsi i pugni, i denti visibili e una rabbia che non provavo da tempo. «AL! VIENI SUBITO QUI!»
Si girò più di una persona. Si girò anche Al, che piantò lì le cuffie e corse al banco. La sua espressione mutò di passo in passo: timore, sorpresa, sconcerto, preoccupazione. Quando vide le gambe staccate farfugliò un’esclamazione, e quando vide i fili strappati che uscivano dalle anche impallidì.
Materializzò un avvitatore e aprì lo sportello sul ventre di Clank. Poi materializzò uno strumento per la diagnostica, quello che sfoderava nei casi seri.
Mormorò tra sé per minuti interi. Io lo fissai, in silenzio, cercando di estrapolare informazioni. Un attimo erano pezzi funzionanti, e allora prevaleva la preoccupazione; quello dopo erano pezzi rotti, e allora la rabbia mi gridava di trovare il bastardo e staccargli la testa.
Avvertii un tocco sulla spalla. Era Coco. «Ho fermato il sangue, per ora.»
Registrai a malapena l’informazione e tornai a fissare Al. Mi concentrai sulle sue mani, sul modo con cui sceglieva ed esaminava i pezzi. Emanava un’aura di competenza assoluta.
Coco strinse leggermente la presa sulla spalla. Il suo tono perse la gentilezza. «Guarda che hai due persone di cui occuparti.» Continuai a fissare Al. La sua voce, poco dopo, era risentita: «Ehi, lo conosci o no il codice del primo soccorso? Gli organici hanno la precedenza.»
Mi girai di scatto, allontanando la sua mano con un gesto brusco. «Nessuno viene prima di Clank. Nessuno!»
Lei si massaggiò il polso, nel punto dove l’avevo colpita. «Comprendo la vostra relazione, ma non sarà il robot a darti spiegazioni.» fece, asciutta.
«Non sarà manco quella là!» Indicai Takami, che sedeva inerte dove l’avevamo lasciata. «Guardala! Guardala bene: è inutile! Scommetto che Clank è ridotto così per colpa sua, ma lei non ci dirà nulla perché non ne è in grado!»  
Lo sguardo frastornato di Takami si fece più lucido, ma ero troppo preso dalla mia rabbia per notarlo. Continuai a fissare Coco in cagnesco. «E adesso lasciaci stare; ché una maestrina è l’ultima cosa che voglio tra i piedi!»
* * * * * *
Non mi curai che di Clank per tutto il tempo che ci rimase a disposizione. Tutto quanto, fino all’ultimo minuto, anche a rischio di beccarmi la scossa perché non ero presente all’ora prevista per il criosonno. Alla fine, però, tutto ciò che avevo potuto fare era stato trasportarlo a pezzi fino alla cella di Al. Non eravamo riusciti a riavviarlo, ma lui era certo che ce l’avrebbe fatta entro l’inizio della gara.
Quando rientrai nella 6-538 Takami era già in branda. Ne dedussi che Coco l’avesse riaccompagnata lì quando, alcuni minuti dopo che le avevo dato della maestrina,  si erano teletrasportate fuori dal Magazzino.
«Ohi. Sei sveglia?»
Nessuna risposta. Schioccai la lingua, e per l’ennesima volta mi dissi che dovevo sapere cos’era successo, e per l’ennesima volta mi pentii di non averla interrogata mentr’era seduta contro quel muro.
Mi lasciai cadere sullo sgabello, e notai con la coda dell’occhio un’ombra sul tavolo. Un accendino nero, lucido, con un fiore disegnato su un lato. Avevo visto spesso quel fiore negli ultimi due giorni: Coco lo disegnava su qualsiasi cosa le appartenesse.
Storsi il naso e lo presi per metterlo sul tavolo, ma mi resi conto che dell’accendino aveva solo il guscio esterno. Al posto della pietra focaia c’era un altoparlante e su una delle facce laterali erano stati ricavati una serie di piccoli tasti. Rec, avanti, indietro... quell’affare era un registratore. Schiacciai play.
«Un ultimo messaggio, “capitano”. Punto primo: ribadisco che la tua gestione della squadra è prettamente idiota. Mettere un robot prima di un organico vìola ogni buonsenso! Senza contare che la chiave del mistero era TG e l’hai abbandonata contro il muro.»
«Ma vaffanculo!»
«Punto secondo – finiscila con le ingiurie e stura le orecchie, nabbo. – Buon per il tuo androide TG sa stare al mondo. E dato che tu m’hai anche aiutato in questi giorni il patto che abbiamo stretto è questo: portatemi dell’akelite di qualità e vi ricostruirò le parti che Dynamo ha distrutto.»
Il ronzio dell’irritazione si placò di colpo. Drizzai le orecchie, focalizzato sull’aggeggio nero fra le mie mani. Dynamo?
«...Oh!, e punto terzo: eccoti un ultimo consiglio non richiesto. Togli la testa dal sacco e rivedi le priorità, o la madre dei leviathan si ciberà di te e di tutti quelli con te.»
La registrazione si concluse così, lasciandomi con quel nome piantato in mezzo alla fronte come un chiodo. Certo, l’irritazione ruggiva in sottofondo, ma quel nome ebbe il potere di farla passare in secondo piano.
Io l’avevo già sentito; solo che in quel momento non ricordavo né dove né il contesto.
Dynamo.
Sapevo solo una cosa: se l’avessi trovato... no, non “se”, quando. Quando l’avessi trovato l’avrei fatto a pezzi un osso alla volta. E trovarlo mi riportava all’altra questione, quella delle informazioni.
Mi voltai verso la branda di Takami. La coperta era tirata sopra la testa e l’unica cosa intuibile era la posizione, fetale, tenuta proprio sul limitare della branda. Che poi per quell’ora era una stranezza: dormiva davvero o mi stava deliberatamente ignorando?
Andai a scuoterla per la spalla. Se era sveglia di sicuro avrebbe reagito, e se si fosse svegliata avrei comunque colto l’occasione per farmi spiegare le cose.
Takami si girò. Proprio sulla schiena, proprio verso il vuoto.
«No!»
Spostai le braccia appena in tempo per afferrarla. Fu istintivo. La presi al volo, ma caddi in avanti e franammo sulla branda bassa. Da qualche parte, ticchettando, qualcosa rimbalzò sul pavimento.
«Ottimo...» borbottai a denti stretti, rialzandomi con un dolorino al retro del collo.
Lo steward monoculare comparve sul monitor in quel momento. «Gladiatori della 6-538! Sarathos, che meraviglia! Eravate così emozionati che non avete manco cenato, eh?»
Fu tutto ciò che riuscii a sentire, perché la cella cominciò a produrre quel casino di stridii, sbuffi e colpi che prima di Catacrom ci aveva tormentato. Disperato, presi il cuscino di Takami e me lo calcai sulle orecchie. Con quello, stavolta, l’esperienza fu meno drammatica.
Monocolo, imperterrito, continuò a tenere i sensori sui fogli e non si accorse di nulla. Quando il casino infernale cessò – e mi parve un’eternità dopo – feci persino in tempo a rimettere il cuscino a posto, tanto Monocolo era preso dalla sua roba, e comunque non si accorse di nulla.
Alla fine, quando rialzò la testa fu evidente che si aspettasse una risposta. Non sapendo la domanda, abbozzai: alzai il pollice e sorrisi a metà. Fu sufficiente. Tutto contento, chiuse il video mentre chiamava il collega. Sullo schermo, di nuovo, rimase solo un conto alla rovescia poco sopra il minuto.
A me, tutto scontento, rimase solo da sdraiarmi sulla branda alta e aspettare il gas del criosonno. Galassia, che situazione schifosa.

 

   
 
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