Libri > Orgoglio e Pregiudizio
Segui la storia  |       
Autore: Ser Balzo    15/10/2019    2 recensioni
Tutto è bene quel che finisce bene, o almeno così si usa dire. Ma per il signore e la signora Darcy, la fine non è che un intermezzo. E in una fredda notte di ottobre, il destino verrà a bussare per il secondo atto.
"Il destino dell’Inghilterra è in pericolo... tu sei in pericolo. E finché avrò vita, non posso permettere che questo accada."
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elizabeth Bennet, Fitzwilliam Darcy
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

3.

Sic Semper Tyrannis, miserabile screanzato

 

 

 

 



Quando Lizzie aveva cominciato a discendere le scale che portavano al seminterrato dell’Old Dempsey Inn, si era figurata la cantina della locanda come un luogo umido, freddo, chiuso da una porta arrugginita: quando vide comparire quest’ultima ai piedi delle scale,  perfettamente corrispondente all'immagine mentale che aveva di essa, non poté fare a meno di congratularsi con se stessa per il proprio acume. 

Grazie al cielo non ho preso niente da mangiare. Lì dentro non può che—

Con sua grande sorpresa, l’uomo ignorò bellamente la porta sgangherata, lasciandola alla propria sinistra e dirigendosi verso un enorme armadio che occupava tutta una parete della stanza.

E tanti cari saluti alla mia pronta arguzia.

Stava per chiedere all’uomo cosa stesse succedendo, ma una vocina – che somigliava vagamente a quella di suo marito – le disse restare in silenzio.

Molte volte, cara Elizabeth, un silenzio al posto giusto può essere più convincente di mille parole. Che di norma era il suo commento quando lei attaccava a conversare mentre lui era ancora intento a leggere i giornali.

Non preoccupatevi, caro Fitzwilliam: non pretendo così tanto da voi, era di norma la sua risposta. Al che lui la guardava, faceva un piccolo sorriso, lasciava andare i giornali e si metteva ad ascoltarla. 

Questo, almeno, prima che smettesse di presentarsi a colazione.

Un schiocco attraversò la stanza, facendola riemergere di colpo dai suoi ricordi. L’uomo doveva aver tirato una leva o premuto un bottone, perché le due metà dell’armadio si aprirono come i battenti di una porta: dietro di essi c'era una porta circolare d’acciaio, chiusa da una maniglia che ricordava la ruota di un piccolo carro.

Senza dire una parola, mastro Dobb tirò fuori tre chiavi, una dopo l’altra, e le girò dentro tre serrature che si aprivano sul lato destro della porta; una volta fatto afferrò la maniglia e cominciò a ruotarla, in un miscuglio di grugniti e cigolii. Lizzie si avvicinò, cercando di sembrare quando più a suo agio possibile.

Con un ultimo ringhio, mastro Dobb tirò a sé la maniglia, facendo aprire la porta. Lizzie notò che era spessa quasi quanto una mano, dalla punta delle dita alla linea del polso.  

«Prego, madam. Dopo di lei.»

 

 

«Non ci credo!»

Jane si lasciò andare ad una violenta serie di improperi, talmente volgari che Helen fu costretta a tapparsi le orecchie. 

«Un secondo, solo un secondo e ce l’avremmo fatta! Giusto oggi quel caprone bastardo doveva fare le corse!»

«Jane…»

Jane inclinò verso di sé una piccola sedia accanto all’armadio. Il passaggio segreto si aprì, rivelando la porta rotonda corazzata.

«…te l’ho detto, non possiamo aprirla.»

«Lo so, lo so!» Jane si strofinò le mani sulle guance, come se in questo modo potesse ungere gli ingranaggi del suo cervello. «Stammi a sentire: se non possiamo sfondare la porta…»

«Torniamo indietro?»

«…possiamo sfondare tutto quello che c’è intorno.»

Jane la guardò allibita. «Vuoi far saltare in aria la locanda?»

«Non è necessario» mormorò Jane, cominciando a guardarsi intorno. «Mi basta un… ha!» 

Jane si avventò su una massa indistinta di ciarpame accumulata sotto le scale e ne tirò fuori una cassetta della frutta. La poggiò a terra e prese a sparpagliarne il contenuto sul pavimento, come fosse una talpa che ha fretta di scavarsi la propria tana.

«Jane, cosa…» disse Helen, costretta ad un passo di lato per evitare di ricevere un vecchio ferro da stiro arrugginito sui piedi. «…che stai facendo?»

«Dove sei, dove sei… eccola!» 

Trionfante, Jane si rialzò in piedi e mostrò ad Helen una sfera di metallo scuro, grande quanto le sue mani messe a coppa, dalla cui cima spuntava quello che pareva un piccolo pezzo di spago.

«Che cosa… buon Dio, ma è una granata?»

Jane annuì, gli occhi che le brillavano di una luce molto poco raccomandabile. «Te lo ricordi tre settimane fa quel tipo che sosteneva di aver combattuto a Badajoz e blaterava di aver raccolto una palla di cannone ancora rovente e di averla tirata in testa ad un capitano francese? Non aveva soldi per pagarsi da bere, così ha offerto questa in pegno.»

«Jane, no.»

«La piazziamo alla base del muro, al lato della porta, la accendiamo e poi scappiamo su per le scale. Ci vorrà un attimo…»

«Io non credo che—»

«Dunque, sì, ci sarà un bel botto, ma non poi un così gran botto. Non credo che qualcuno—»

«Stai zitta un secondo, che diamine!»

Jane si bloccò, colpita – e forse anche un po’ spaventata – da quello scatto improvviso. Anche Helen parve dello stesso avviso, perché impallidì, buttò lo sguardo a terra e fece un lento e profondo respiro. «Perdonami» mormorò poi, riportando gli occhi su di lei. «Ma non abbiamo molto tempo.»

«Lo so» rispose Jane, in un mugolio che mescolava scuse e risentimento.

«Quello che volevo dire» continuò Helen, cercando di assumere un tono tranquillo e assertivo, «è che non credo che la bomba servirà allo scopo: per reggere una porta di quel genere, ci vuole un muro altrettanto spesso.»

«E quindi?»

«E quindi accanirsi su quella porta non serve… soprattutto perché noi sappiamo dove conduce.»

«Mi fa molto piacere, ma per arrivare a dove conduce dobbiamo comunque passarci, per la maledetta…» Gli occhi di Jane si dilatarono, mentre comprendeva appieno il senso delle parole di Helen. «…oh no. Non il Tamigi. Non di nuovo

 

 

Mastro Dobb non aveva detto una parola da quando si era chiuso la porta alle spalle. Avanzava nella galleria strascicando appena il piede destro e emettendo, a intervalli di cui Lizzie poteva quasi tracciare la regolarità, dei sordi mugugni – che in certe occasioni sembravano quasi tramutarsi in sofferenti mugolii.

Lizzie si chiese se per caso quella gamba non nascondesse una qualche ferita di guerra. Sebbene non fosse granché informata sugli accadimenti del mondo, sapeva che Londra – e in misura seppur minore, anche il resto dell’Inghilterra – pullulava di soldati rientrati dalla guerra contro la Francia, e che ora si ritrovavano senza impiego. 

O peggio.

Una volta aveva visto il figlio dei signori Belcroft nel giardino di Pemberley. Era la prima volta che lo incontrava da quando era tornato dalla Spagna: fino a quel momento, i suoi genitori lo avevano sempre tenuto in casa. Arthur Belcroft era un bellissimo giovane, alto e biondo, splendido nella sua uniforme verde scuro da ufficiale dei Fucilieri: quando aveva riconosciuto in lui la figura curva, dall’andatura ondeggiante e dallo sguardo spento che vagava senza meta nella sua proprietà, aveva pensato ad un’allucinazione. Poco dopo, però, era comparso il signor Belcroft, prendendo per le braccia il proprio figlio come fosse un bambino; e profondendosi in sentite e angosciose scuse per “il ragazzo che si era allontanato” se l’era portato via. 

Mentre parlava, neanche una volta il signor Belcroft era riuscito a guardarla in faccia. 

Non l’aveva mai raccontato a nessuno.

Neanche a William.

Sentì il bisogno immediato di fare conversazione, per alleggerire almeno un poco il macigno che quel ricordo aveva depositato sul suo petto: purtroppo per lei, il luogo e il contesto non erano certo dei migliori.

Ma neanche dei peggiori. Rispetto alla cena a casa Foster dello scorso settembre, qui sotto è una vera delizia... 

Passò accanto all’ennesima torcia appesa al muro. Prima che potesse pensare alcunché, la sua bocca decise di muoversi per conto suo.

«Ditemi, signore: come fate per la manutenzione di queste torce? Suppongo che prima o poi si spengano: avete qualcuno di specifico che attenda alla bisogna?»

Il signor Dobbs girò la testa verso di lei, scoccandole un’occhiata quantomai perplessa.

«Non ne ho idea, madam. Raramente vengo qui sotto.»

«Oh. capisco.» Lizzie rimase qualche momento in silenzio, poi non riuscì nuovamente a trattenersi. «E come le vanno gli affari, caro signore? Una volta ho sentito dire dal signor Hirst che il prezzo del pane pare aumentato… spero che per voi non sia un problema.»

«Già, pare aumentato» ribatté mastro Dobbs, senza aggiungere altro.

Lizzie non riuscì a capire se nelle parole dell’uomo ci fosse una sfumatura di dileggio, ma era abbastanza accorta da intuire che non aveva voglia di proseguire la conversazione. Continuarono così il loro viaggio in silenzio, mentre Lizzie cominciava a chiedersi quando sarebbe finita – e sopratutto dove – quella galleria che pareva non terminare mai.

La risposta le venne dopo una brusca svolta a sinistra e una repentina inclinazione verso il basso del terreno. Lizzie vide le pareti farsi umide, la fila di torce interrompersi e la galleria finalmente concludersi di fronte ad una porta di ferro corroso dall’umidità, con una finestrella ad altezza uomo chiusa da una sbarra di metallo.

Mastro Dobb bussò alla porta una volta, poi di nuovo, poi due e infine tre volte. Attesero per così tanto tempo che Lizzie stava per prendere e tornare indietro, quando con uno scatto e un guaito metallico la finestrella si aprì, lasciando intravedere degli occhi umani.

«Un Locksley ben fermentato» disse mastro Dobb.

«Fate vedere.»

Dobbs si voltò e fece cenno a Lizzie di avvicinarsi.

Al vedere la donna avvicinarsi, gli occhi dell’uomo divennero due fessure. «Cosa volete? Non è posto per voi questo, madam

«Sono d’accordo.» Lizzie tirò fuori la moneta che le aveva dato suo marito e la sollevò all’altezza della finestrella. «Ora mi fate entrare, così posso andarmene da questo antro terribilmente umido il prima possibile?»

Lo sguardo dell’uomo passò più volte da Lizzie alla moneta. «Spiacente, signora. Avete sbagliato persona» disse infine. Con la spietatezza di una ghigliottina, la finestrella si chiuse. 

Eh no.

«Non provateci nemmeno!» esclamò Lizzie, abbattendo un pugno sulla porta. Lasciandosi scappare un’esclamazione di dolore, prese ad agitare la mano offesa, mentre sentiva la rabbia aumentare sempre di più.  «Sic semper tyrannis, miserabile screanzato!»

Il suo urlo rimbombò nelle pareti strette della galleria. Lizzie attendeva, le gote arrossate e il fiato grosso. Dietro di lei, mastro Dobb era intento a chiedersi quale tiro barbino avesse per sbaglio giocato al mondo per essere diventato in cambio una calamita per donzelle ben poco timorate di Dio.

Un altro scatto venne dalla porta, questa volta più in basso. Con fatica e stridore di cardini, l’uscio si dischiuse.

«Prego» disse una voce diversa da quella che le aveva rifiutato l’ingresso. «Entrate.»

 

 

Il locale era ampio e dal soffitto basso, intervallato da travi di legno e colonne di mattoni. Diverse lanterne – niente torce, notò Lizzie sentendosi un po’ sciocca – ammantavano tutto di una luce tenue e inquieta. L’uomo che le aveva aperto la porta – in quella luce incerta, Lizzie riuscì a distinguere soltanto una matassa di capelli scuri – la condusse in mezzo alla stanza, dove tre tavolacci erano stati uniti insieme per poter dispiegare sopra di essi un gran numero di mappe e carte. Alla sua destra, Lizzie vide gli occhi di colui che le aveva negato l’accesso a quella specie di cripta fissarla con immutata ostilità.

«Signore.»

Attorno ai tavoli c’erano una mezza dozzina di persone. Al suono della voce, i loro occhi si sollevarono dalle carte; quando si accorsero della presenza di Lizzie, ammutolirono.

«Che significa» disse la figura al centro del gruppo, un uomo di una sessantina d’anni con il volto butterato e una spruzzata di capelli argentei in testa.

«Ha presentato l’obolo e pronunciato le parole.»

 L’uomo la scrutò in silenzio. Lizzie aveva l’impressione che un trapano le si fosse poggiato sulla fronte e che, lentamente, qualcuno lo stesse mettendo in moto.

«Chi vi ha detto come entrare?»

«Mio marito» disse Lizzie. «Fitzwilliam Darcy.»

«Mai sentito nominare. Ma in ogni caso, sapere come si chiami per me è inutile: ognuno qui conosce solo lo stretto indispensabile di ciascun altro. In questo luogo i nomi sono pericolosi, madam

Lizzie annaspò, avvertendo il muro compatto che l’uomo aveva eretto di fronte alla sua necessità di avere informazioni. «Allora forse avete sentito parlare di George Wickham.»

L’uomo dai capelli argentei non fece una mossa, ma Lizzie vide chiaramente alcuni dei suoi compari scambiarsi delle occhiate. «Se non vi interessa di mio marito, forse vi interessa di lui.»

L’uomo era immobile, ma Lizzie poteva percepire la sua mente al lavoro. «Che cosa sapete di George Wickham?» 

«Che è un farabutto, principalmente» rispose Lizzie, poggiando le mani sul tavolo e sperando che questo desse al suo uditorio l’illusione che sapesse quello che stava facendo. «Che è subdolo, manipolatore e un gran vigliacco, e che due notti orsono ha fatto irruzione nella mia casa e ha rapito mio marito – il quale mi ha dato la moneta, mi ha riferito i vostri arguti codici e mi ha detto di venire qui. Dunque suppongo che a questo punto sia quantomeno irrilevante continuare a nascondervi dietro le vostre ombre, signori: ditemi che ne è stato di mio marito e dove si trova, e io toglierò il disturbo per non tornare mai più.»

A quel punto, un forte rumore fece sussultare tutti quanti i presenti: una vecchia scaffalatura alle spalle dell’uomo dai capelli d’argento cadde pesantemente a terra, portandosi dietro due giovani figure che avevano avuto la pessima idea di appoggiarvici il proprio peso.

Tutti gli uomini nel sotterraneo estrassero le proprie armi.

«Complimenti!» disse una delle due. «Davvero un’ottima mossa!»

«Oh, piantala, Jane!» rispose l’altra. «Sai quante volte hai perso tu l’equilibrio e io non ti ho detto niente?»

«Questo lo chiami perdere l’equilibrio?»

«E comunque tu mi hai pestato il piede!»

«Perché se non ti pesto i piedi tu non ti muovi neanche se viene a chiamarti il Signore in persona!»

«Non osare scomodare l’Onnipotente per queste quisquilie o giuro che—»

«Silenzio!» gridò l’uomo dai capelli grigi. «Alzatevi lentamente. Molto lentamente.»

Spazzolandosi i vestiti – o meglio, solo la metà superiore, visto che le gonne erano zuppe d’acqua come se le due avessero deciso di fare il bagno in una fontana –, Jane e Helen scesero dallo scaffale schiantato e sollevarono le mani, ritrovandosi circondate da una selva di pistole, moschetti, sciabole e pugnali. 

Scrutando i loro volti, un giovane dai capelli rossi spalancò gli occhi. «Helen?»

«Ciao Henry» disse Helen, con un sorriso di scuse.

Gli altri si voltarono verso il giovane. «Henry?»

Jane le pestò di nuovo il piede, questa volta con sentimento.

«Ahia!»

«Lo sai che non devi fare nomi, per la miseria!»

«…oh cielo, è vero.»

«Vi avevo detto di non farvi più rivedere» disse Capelli d’Argento. «Mastro Dobb ha garantito per voi, ma questa volta—»

«Questa volta garantisco io» disse Lizzie.

Capelli d’Argento la fulminò con uno sguardo ostile. «Madam, chiunque voi siate—»

«Il mio nome è Elizabeth Darcy» lo interruppe nuovamente Lizzie. «Sapete già quali sono le mie intenzioni. E se non avete intenzione di aiutarmi a trovare mio marito – ebbene, me la caverò da sola. Voi due» aggiunse rivolta alle ragazze. «Venite con me.»

«Credete davvero di potervene andare via così?» disse Capelli d’Argento.

«Perché no?» rispose Lizzie. «Temete che vada a riferire a chissà chi dei vostri affari qui sotto? Nessuno mi crederebbe. E in caso ci fosse qualcuno che vi cerca… se io e queste due fanciulle siamo riuscite a trovarvi, forse dovreste riconsiderare la vostra abilità nel celarvi alla vista di chicchessia.» E detto ciò, fece cenno ad Helen e Jane di seguirla e si avviò verso la porta.

«Mrs Darcy.»

Elizabeth si girò. Alla luce delle lanterne, il volto di Capelli d’Argento sembrava scavato nel granito.

«Se vostro marito è ancora vivo, non cercatelo. Potreste finire in un gioco molto più grande di me e di voi.»

«È questo il problema, caro signore» rispose Lizzie. «Ci sono già dentro.»

 

 

«Posso dirvelo, madam? Siete stata veramente forte lì dentro.»

«Oh, beh... temo non si sia servito a molto; ma vi ringrazio.»

Scortata da Jane e Helen, che si erano offerte di accompagnarla fuori dal rifugio sotterraneo – la via dell’andata era impraticabile, visto che a quell’ora mastro Dobb doveva aver ripercorso tutta la strada fatta per poi richiudersi la porta corazzata alle spalle – Lizzie avanzava a fatica nel terreno, che si faceva ad ogni passo sempre più umido e limaccioso.

Se non altro, ora ho qualcuno con cui parlare.

Poco ma sicuro, due fanciulle come quelle non le aveva mai viste. Anche la più tranquilla, la ragazza con i capelli rossi che aveva detto di chiamarsi Helen, non era lontanamente paragonabile alla sua amica Charlotte – o anche a una personalità a lei più simile come Georgiana.

«Come conoscete questi luoghi?» chiese, evitando per un pelo di affondare tutto lo stivaletto sinistro in una pozza d’acqua.

«Siamo clienti affezionate di mastro Dobb» disse Jane.

«Ha una scorza rude, ma è un brav’uomo» aggiunse Helen.

«Non siete il primo Locksley ben fermentato che passa dalla locanda.»

«Capisco» disse Lizzie, anche se in realtà non è che comprendesse poi così tanto. 

«Ci abbiamo messo un po’ a capire come funzionava il tutto» disse Jane. «Poi una mattina abbiamo rubato le chiavi di mastro Dobb—»

Helen emise una sorta di squittio indignato. «Non le abbiamo rubate…»

«Ah no? Se non erro siete stata proprio voi, miss Burns, a sfilargliele dalla cintura con i vostri ferri da maglia…»

«Le abbiamo solo prese in prestito, ecco.»

«Non so se il buon Gesù se la berrà, questa.»

«Dunque» le interruppe Lizzie, temendo che potessero continuare all’infinito. «In questo modo avete scoperto il rifugio.»

«In una certa maniera» rispose Jane. «Abbiamo aperto il passaggio, ma senza una guida lì sotto avremmo sicuramente finito per perderci. Sapevamo che i Locksley entravano ma non uscivano dalla porta della locanda: all’inizio pensavamo ne usassero una di servizio, ma poi abbiamo capito che l’uscita del passaggio doveva essere da qualche altra parte, molto lontano dall’Old Dempsey Inn

Lizzie era decisamente stupita dall’intraprendenza e dall’arguzia delle due giovani donne: sotto quelle chiome scarmigliate dovevano nascondersi delle teste davvero niente male. «E come avete fatto a trovarla? Londra è piuttosto grande.»

«Infatti davamo la partita ormai per persa… finché Helen non ha accalappiato il giovane Henry.»

«Io non ho accalappiato nessuno» chiarì Helen, indignata. «Henry cercava semplicemente un’anima affine con cui condividere le sue meditazioni sul Salmo quarantaquattro… smettila di guardarmi a quel modo, di grazia.»

«Fatto sta» proseguì Jane, continuando a fissare Helen con la necessaria dose di sarcasmo, «che il povero Henry pensava di avere a che fare con una sciocca sguattera baciapile, così le dava appuntamento… proprio qui.»

L’acqua ormai arrivava alle caviglie, ma a una decina di metri la galleria si interrompeva, aprendosi su una piccola spiaggia fangosa, oltre la quale le acque scure del Tamigi avanzavano pigre e minacciose.

Come se l’avesse realizzato solo in quel momento, Lizzie sollevò l’orlo della gonna del vestito: una striscia nera bordava l’abito come una decorazione di sartoria.

«Oh, quello è il minimo» commentò Jane. «Fortunatamente non vi è ancora toccato di passeggiare nelle fogne.»

«Un tempo ci si poteva fare il bagno, nel Tamigi» disse Helen, con nostalgia.

«Un tempo quando.»

«Beh, non lo so. Ma sicuro un tempo si poteva.»

«Forse il giorno della Creazione. Un minuto dopo questo fiume già puzzava di m—»

«Jane.» 

«Va bene, va bene…»

«Mi permetto di dissentire» si insinuò nella conversazione Lizzie. «Non ritengo sia stata questione di tempo: sono convinta fosse proprio nelle intenzioni del buon Dio far sì che il Tamigi puzzasse, da sempre e per sempre, di incontestabile merda.»

Helen e Jane si fermarono a guardarla, meravigliate e prese alla sprovvista da quell’oscenità uscita dalla bocca di una simile donna.

«Oh» disse Lizzie, rendendosi conto di quello che aveva detto. «Chiedo venia.» prese la gonna con pollice e indice di entrambe le mani e proseguì impettita, fuori dalla galleria. «Vedete cosa succede a trascorrere troppo tempo nell’East End...»

 

 

Mrs Darcy non aveva tutti i torti, pensava Jane mentre la suddetta, lei e Helen risalivano le scale che dalla fetida spiaggia portavano su una – non molto meno fetida, a dire la verità – piccola strada, dominata dal fantasma di una fabbrica ormai in disuso. Troppo tempo nell’East End e diventi qualcos’altro: ti confondi con le pareti luride delle catapecchie, impari a cambiare strada quando incroci un certo sguardo, sparisci tra la folla di mendicanti e poveracci. Diventi tutt’uno con il fango – e con le creature che lo abitano.

Ecco perché, nonostante gli stivaletti inzaccherati e l’abito sporco, la nuova Locksley ben fermentata spiccava come uno schizzo di vernice bianca in una miniera di carbone: riaccompagnarla alla locanda senza farle capitare nulla poteva essere potenzialmente complicato.

«Helen» disse alla sua partner, avvicinandosi per non farsi sentire da Elizabeth. «Dobbiamo pensare a come tornare all’Old Dempsey Inn. Pensi che Fagin sia disponibile per farci da scorta?»

«Non so» le rispose Helen. «Credo stia ancora aspettando la seconda metà del pagamento dell’altra volta.»

«Diamine, è vero. Beh senti, la signora qui sembra piuttosto ben fornita di quattrini. Se gli promettiamo il doppio—»

«Signor Milford, da questa parte!»

Helen e Jane si girarono verso Lizzie, spaventate da quelle parole esclamate così dal nulla. Videro la donna avanzare verso una carrozza, il cui cocchiere le fece un cenno di saluto.

«Tutto bene, Mrs Darcy?» chiese il cocchiere, preoccupato di vedere la sua signora sbucare dal Tamigi con la gonna inzaccherata di fango.

«Ragionevolmente, signor Milford, ragionevolmente: sono viva e in salute, ma desidero quantomai abbandonare questo posto. Ma voi come avete fatto a trovarci?»

«Il locandiere, Mrs Darcy: mi ha detto lui dove andare.»

«In fondo avevate ragione, signorine» disse Lizzie rivolta a Jane e Helen. «Il signor Dobbs ha un cuore d’oro, a quanto pare.»

«Un galantuomo d’altri tempi» disse Jane, con un sarcasmo che non poteva fare a meno di piegarsi di fronte all’evidenza dei fatti.

«Sarà mio piacere ringrazierlo debitamente. Ora però salite: non credo di aver mai avuto tanto bisogno di un cambio d’abito.»

«Non così in fretta, madam

La nuca di Jane fu attraversata da una scossa. Helen strinse i pugni, la mascella contratta che tremava impercettibilmente.

Sulla strada, cinque uomini bloccavano il passaggio. Nessuno di loro li aveva sentiti arrivare.

«Vorremmo discutere con voi di certi avvenimenti, Mrs Darcy. Sarebbe il caso che ci seguiste.»

«Chi siete?» disse Lizzie, una mano aggrappata alla maniglia dello sportello della carrozza, come se solo con la forza della propria stretta potesse far partire la vettura e fuggire via di lì. «E come fate a sapere il mio nome?»

«Sappiamo molte cose, Mrs Darcy. E sappiamo che lei vuole conoscerne altrettante. Una congiunzione di intenti non indifferente, non trovate?» 

Jane notò che Helen cercava di richiamare la sua attenzione. Teneva il braccio dritto lungo il corpo, la mano chiusa a pugno. Aprì la mano e agitò le dita, poi le chiuse tutte tranne il pollice, che girò a indicare le proprie spalle.

Altri cinque. Dietro di noi.

«Ora basta» intimò il cocchiere, tirando fuori da un vano del sedile una pistola. «Spostatevi, o sarò costretto ad usarla.»

L’uomo che aveva parlato fino a quel momento sospirò, come se stesse assistendo ad uno spettacolo teatrale di scarsa qualità. Poi, con un movimento così fluido da sembrare quasi sovrannaturale, estrasse una pistola dalle falde del cappotto e sparò al cocchiere.

Lizzie si lasciò scappare un grido, mentre il corpo dell’uomo si afflosciava sul sedile e la pistola cadeva a terra, il tonfo dell’arma ancora coperto dall’eco dello sparo. 

«Non avrei voluto, Mrs Darcy. Ma come ritengo avrete ormai capito, la vostra è una situazione che non concede mezze misure.»

Il volto di Lizzie aveva perso qualunque colore. «Va bene» disse, cercando di non far sentire quanto le tremasse la voce. «Verrò con voi. Ma vi prego, lasciate andare le ragazze: non hanno niente a che vedere con questa storia.»

«Oh, Mrs Darcy» le rispose l’uomo. «Cosa vi avevo detto riguardo alle mezze misure?»

Jane indietreggiò verso destra, fino sbattere la propria spalla contro quella di Helen. Sentì le dita di lei cercare le sue, e gliele strinse con tutta la forza di cui era capace.

«Uccidetele.»

Nei tre secondi che seguirono, Jane registrò una serie di accadimenti talmente rapidi che la sua mente non riuscì a separarli uno dall’altro – finendo per fonderli in un’unica girandola di luci, odori ed emozioni. Per prima cosa, vide l’individuo più a sinistra – un tipo incredibilmente magro con due occhi enormi che parevano strappati ad un pesce morto – dischiudere la bocca e sorriderle in modo spaventoso con una chiostra di denti gialli e spaccati; poi lo osservò avanzare verso di lei, estraendo un lungo coltellaccio arrugginito dalla cintura; infine, rimase a guardare impotente mentre una freccia gli compariva improvvisamente dentro la testa, facendogli roteare gli occhi e consentendogli solo un altro paio di passi prima di lasciarlo cadere a faccia in giù sulla strada.

«Ma cosa—»

Altri due stramazzarono a terra, falciati da una mano invisibile ed estremamente precisa. Il tizio che aveva parlato a Lizzie estrasse un’altra pistola, la puntò verso il tetto della fabbrica in rovina dall’altra parte della strada e premette il grilletto: per tutta risposta, una freccia lo trafisse alla coscia. Con un ringhio di sfida, l’uomo riuscì a restare in piedi, mentre con la calma glaciale di un fante ben addestrato prendeva una cartuccia dalla tasca del cappotto e strappava con i denti un’estremità dell’involucro di carta; non ebbe però il tempo di ricaricare la propria pistola, perché qualcosa di estremamente agile e pericoloso piombò su di lui dall’alto, facendolo cadere a terra e sbattendogli violentemente la nuca sul terreno.

«Jane!»

Il grido di Helen fece ruotare Jane con rapidità animalesca. Avvertì qualcosa mordergli l’avambraccio, inciampò sul terreno sconnesso e cadde malamente di schiena, convinta di doversi proteggere dall’attacco di un cane da guardia: davanti a lei, però, c’era un ometto tarchiato che stringeva convulsamente una mannaia, sul cui filo brillava cupamente quello che doveva essere il suo sangue.

Nel vedere il suo viso contorto dal furore dello scontro, Jane fece qualcosa che mai avrebbe ritenuto possibile in una situazione come quella: sconvolta dall'adrenalina, scoppiò a ridere. 

L’ometto stava per calare la mannaia su di lei, ma quella reazione così improbabile lo colse di sorpresa. Esitò giusto per un momento, ma fu sufficiente: l’ombra assassina superò con un balzo Jane e passò oltre l’uomo, facendo balenare l’acciaio ricurvo di una sciabola sul suo collo. Spinto dalla forza del colpo, l’uomo andò a sbattere la schiena sulla carrozza, proprio accanto a Lizzie, la gola tagliata come se fosse stata di carta velina.

Dei dieci uomini che avevano circondato la carrozza, ne restavano solo quattro. Uno di loro provò ad attaccare l’ombra con un affondo di una grossa spada da cavalleria; lei evitò agilmente il colpo, si portò al suo fianco e gli affondò la sciabola proprio sotto le costole, infilando e ritraendo la lama con la rapidità di uno scorpione. Mentre l’uomo cadeva in ginocchio, gli altri tre decisero di averne avuto abbastanza: rapidi come erano giunti, rinfoderarono le armi e si dileguarono.

Con uno svolazzo della lama, l’ombra appoggiò la sciabola sulla spalla della sua ultima preda – che in tutto quel trambusto non aveva ancora avuto il tempo di rovinare a terra ed esalare l’ultimo respiro – la ripulì dal sangue con due gesti fluidi e la rinfoderò con la naturalezza di una dea della guerra.

Lizzie osservò con disgusto l’ometto accanto a lei scivolare a terra, il collo lordo di sangue e lo sguardo ormai spento. Sollevò lo sguardo verso l’ombra, e vide che aveva le fattezze di una donna olivastra dai folti capelli corvini; sulla punta del naso alla greca, solo una piccola macchia di sangue si permetteva di contaminare il rigore del ponte che dritto e implacabile scendeva dalle sopracciglia alla bocca. 

«Bontà e misericordia» mormorò Lizzie. «Ma voi chi siete?»

«Il mio nome è Haydée» disse la donna, una remota traccia di francese nel suo inglese impeccabile. «E temo, Mrs Darcy, che voi siate in guerra.»








L'ANGOLO DELLA CHIACCHIERA: Ho sempre voluto continuare questa storia, ma ci è voluta l'azione combinata della mia ragazza e dell'insuperabile Dira perché le Straordinarie Gentildonne ritornassero nuovamente a far danni: a loro due il merito (o il terribile biasimo) di avermi fatto continuare questo attentato alla letteratura ottocentesca. 
Molto probabilmente Haydée (che, per chi non lo sapesse, è una principessa greca che ne il Conte di Montecristo finirà per diventare la moglie del suddetto) è un po' over-powered, visto che è una macchina da guerra supergnocca con – addirittura – l'accentino francese. Ma sapete cosa? Lei se lo merita. Perché sì.
E come ha giustamente detto, per la signora Darcy e relativa compagnia le cose sembrano farsi decisamente complicate: a Londra pare esserci in atto una guerra segreta. E in guerra, si sa, la cosa fondamentale è fare squadra.
(Oltre che sopravvivere, ma questa è un'altra fanfy.)
Se dopo ancora cinque anni siete qui a continuare questa storia, devo proprio dirvelo: non vi merito. A tutti gli altri: probabilmente non vi merito lo stesso, ma sono comunque un sacco contento che siate qui.
Tante care cose, alla prossima e sic semper tyrannis, miserabile screanzato!

 

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Orgoglio e Pregiudizio / Vai alla pagina dell'autore: Ser Balzo