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Autore: Enchalott    16/10/2019    4 recensioni
Nao sopravvive a un incidente e inizia a vedere un giovane affascinante e misterioso. I medici pensano che sia la conseguenza del trauma, la stessa Nao alterna momenti in cui dubita di se stessa a momenti in cui è convinta che lui, Rim, esista davvero. Qual è la verità?
"Ricordo anche lui. Gli occhi chiari mi osservavano dall'ombra cappuccio, calato sul capo a protezione dall’acqua che gocciolava impietosa dal cielo, confondendosi con le mie lacrime. Seminascosto dietro un albero, velato dalla bruma fluttuante, un sorriso accennato sul volto attraente".
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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RIM OF SPIRITS
 
“Ehi… da dove viene quell’anello?”.
“Vuoi dire che lo vedi?”
“Ma certo, perché non dovrei? Ti senti bene, Nao?”.
“Sì, scusami. Intendevo dire… l’hai notato subito!”.
“È un po’ difficile che passi inosservato, brilla come un segnale navale! Devo pensare a qualcosa di ufficiale, quindi?”.
“Oh, no. È solo il dono di un amico”.
“Beh, a essere sincera mi pare molto più di un semplice omaggio”.
Mia sorella Tara cerca di mantenere una tonalità neutra, ma io conosco i suoi pensieri. La mia esclamazione di sorpresa è stata tanto spontanea quanto decisamente poco accorta. Le ha fatto riaffiorare alla mente un filo di ricordi spiacevoli. Avrei dovuto prestare maggiore attenzione, ma il fatto che lei lo abbia visto in fondo mi conforta.
L’anello, dico. Quello che mi ha regalato Rim.
 
Mi chiamo Nao e al presente ho diciannove anni. Uno dei significati del mio nome, che ha origini giapponesi, ha a che vedere con la sincerità.
Non so se mi ha portato fortuna, però: più che il nome, l’augurio dei miei genitori quando l’hanno scelto. Affermare in modo schietto la verità – o quanto ho sempre pensato fosse la verità – non mi ha portato assolutamente nulla di positivo.
Medici, ospedali e farmaci per capire se, dopo l’incidente, la mia testa ne avesse risentito temporaneamente o definitivamente. Se il mio fosse un problema psichiatrico pregresso oppure un passeggero tentativo di evasione da una realtà troppo pesante da affrontare.
Sì, quando avevo solo dieci anni, l’auto su cui viaggiavo con i miei genitori è uscita di strada, giù al lago.
In quell’autunno fradicio e nebbioso, la strada era viscida di foglie brune e marcescenti. Pioveva molto forte e mio padre ha perso il controllo. Una fatalità che è costata la vita a lui e a mia madre.
Io sono stata l’unica superstite. Miracolata, dicono. Mia sorella maggiore non era con noi in quel momento: stava sostenendo un esame all’università e non ha mai smesso di sentirsi responsabile per me. È stata nell’affetto come una seconda madre e, fino al raggiungimento del mio diciottesimo anno, è stata il mio tutore legale. Eppure non ci capiamo: Tara non mi crede mai, preferisce pensare che io abbia un disagio.
Degli eventi ho un ricordo sbiadito come la giornata in cui è accaduta la sciagura. Rammento che mi sono ritrovata fuori dal veicolo, che era accartocciato contro un albero, tra le fiamme. Seduta sull’erba zuppa, grondante di pioggia, a osservare il rogo che stava portando via metà della mia famiglia.
Ho memoria della foschia indistinta che esalava dalla superficie immota del lago: tutto pareva privo di tinte, come se fossero state risucchiate e ridotte a una tavolozza di grigi, eccezion fatta per le luci rosse e blu intermittenti, che si avvicinavano rapidamente. Poi, i colori sono tornati con l’aspetto di una coperta arancione posta sulle mie spalle, con il verde dei camici del personale medico, con le parole violacee di conforto, ovattate e inutili in quella mattina indelebile e stranamente confusa.
Ricordo anche lui.
Gli occhi chiari e tristi che mi osservavano da sotto un cappuccio bianco, calato sul capo a protezione dall’acqua che continuava a gocciolare impietosa dal cielo, confondendosi con le mie lacrime. Seminascosto dietro al tronco robusto di un albero, velato dalla bruma fluttuante. Il suo sorriso, appena accennato, sul volto attraente e ammorbidito dalla penombra.
Mentre l’ambulanza mi trascinava via, ho pensato che si trattasse di un semplice curioso o del nuovo proprietario di una delle villette che si affacciano sulla sponda del lago, accorso a quel trambusto. Ho persino chiesto chi fosse, ma nessuno lo ha notato e certo non faceva parte del personale di soccorso. Ho udito chiaramente sussurrare con preoccupazione i termini “allucinazioni dovute al trauma”. Me ne sono convinta anch’io.
Finché non l’ho incontrato ancora.
 
Quel pomeriggio, avevo accompagnato Tara sul luogo della disgrazia: desiderava portare un fiore sull’erba ancora abbrunata. E poi i medici le avevano consigliato di non trattarmi come una malata: prendere coscienza e accettare la situazione mi avrebbe restituito un beneficio salutare. Insomma, ripartire da dove, secondo le loro diagnosi, mi ero fermata. Mentre stavo pensando che non sarei dovuta tornare laggiù, in preda a un batticuore angosciato e gelido, il mio sguardo è corso all’albero sotto cui l’avevo scorto la prima volta.
Lui era lì, il fianco adagiato contro il tronco spoglio del ciliegio, con il sole che si rifletteva negli occhi azzurro ghiaccio.
Dimostrava poco meno di una trentina d’anni. Ricordo di aver pensato, nel fitto della sofferenza che mi stringeva il cuore come una guaina, che fosse l’uomo più bello che avessi mai visto. Era reale. L’ho capito dall’ombra che gettava al suolo. Un’accortezza di ragionamento su un particolare che mi ha convinta di non essere poi tanto preda delle visioni, almeno in apparenza.
Confortata, ho attirato l’attenzione di mia sorella e lei ha seguito con sguardo indagatore il mio indice puntato, sorpresa e poi sconfortata, dopo aver esaminato un paesaggio che le è apparso privo di qualsiasi essere umano.
È stata quella la prima volta in cui ho realizzato che Tara non era in grado di affrontare da sola la propria apprensione e le mie cosiddette stranezze. Ha pensato che in me ci fosse un problema persistente e si è comportata di conseguenza, con l’unico fine di aiutarmi. In verità, l’ho pensato anch’io con rassegnata timidezza e non ho insistito, per non accrescere il suo dolore attraverso il mio. Ho accettato altri medici, altre cure, altre diagnosi complicate senza ribellarmi.
Finché non gli ho parlato.
 
Alcune settimane dopo, spinta da un’ostinazione quasi infantile, sono uscita di casa e mi sono diretta al lago. Mi sono seduta a leggere sulla riva ormai asciutta e lui è apparso all’improvviso, sotto le ombre ricamate dei rami nudi, come una presenza.
Il mio Rim.
“Sei… vero?”
Ho ancora impresso il suo sorriso, dovuto alla domanda ingenua e impertinente di una ragazzina sola e spaventata, misterioso e affascinante come lo ricordavo.
“Per te lo sono?” ha risposto, sistemandosi accanto a me in un fruscio di vesti leggere dal taglio molto originale.
Quel pomeriggio, in verità, non era affatto caldo e i suoi abiti serici parevano usciti da un racconto fantasy particolarmente accurato.
“Beh…” ho risposto io, dubbiosa “Non è che sei un vampiro che non teme la luce o lo spettro di qualcuno che è annegato laggiù… oppure un alieno?”.
Lui ha replicato il sorriso, illuminandosi, posando lo sguardo sul volume che tenevo saldamente in mano.
“Hai letto troppi manga” ha risposto, indulgente e divertito.
“Allora chi sei?” ho insistito, piccata.
“Rim. Mi chiamo Rim”.
“Sei straniero, allora?”
“Se vogliamo” ha riso lui “Ma se non erro anche il tuo nome è molto singolare”.
“Oh… come fai a saperlo?”.
“Quel giorno” ha sottolineato, serio “Continuavano a chiamarti, Nao”.
A quel punto, mi è venuta voglia di piangere, ma in qualche modo sono riuscita a trattenermi. Poi, ho avvertito come una sorta di intuizione, osservando la sua espressione assorta, ma serena e priva di emanazioni negative.
“Mi hai salvata tu, vero?” ho sussurrato, malinconica.
“Sì” ha ammesso semplicemente lui.
Le lacrime hanno iniziato a scendermi con inarrestabile persistenza e lui mi ha stretto la mano nella sua, con premurosa empatia.
“Sono addolorato. Non ho potuto fare altro”.
“Grazie…”.
“Ho una responsabilità. So che, forse, per te è difficile comprendere. Possiedo il dolce onere della vita che ho sottratto alla morte”.
Ho annuito, senza avere inteso del tutto quella dichiarazione, così come lui ha anticipato, priva di spiegazioni plausibili.
“Sei un angelo, quindi?”
“Nemmeno” ha precisato lui “Sono solo Rim”.
 
Da quel giorno in avanti, mi sono abituata a incontrarlo tutti i pomeriggi. Fuggivo di casa, se necessario. Lui non è mai mancato.
Parlavamo per ore, finché le corniole frantumate sulle increspature dell’acqua non annunciavano l’imminente tramonto, costringendomi a rientrare a malincuore.
Altre volte, Rim leggeva per me con la sua voce dolce e profonda e io lo ascoltavo, rapita dalla bellezza delle storie che riusciva a interpretare con passione unica, incantata dai suoi modi raffinati e semplici, affascinata da tutto ciò che lui era. Anche se, a quel tempo, non lo ha mai rivelato.
Ho iniziato a disegnare, come per necessità, mentre lui discorreva del presente e del passato o recitava lunghe poesie che scatenavano le mie emozioni più nascoste.
Prima il paesaggio e il mutare delle stagioni. Poi il paesaggio e Rim. Infine, Rim, fino a impararlo a memoria. I suoi occhi chiari dal taglio allungato, con la loro sfumatura di inafferrabile celeste, quasi inumani. I suoi lunghissimi capelli color argento, lisci e splendenti in qualsiasi variazione di luce. I suoi abiti di seta dalle tinte orientaleggianti, lucidi e impeccabili. Il suo viso dalla carnagione chiara, assorto e attraente.
In tutti i modi e in nessun modo, poiché esisteva sempre qualche particolare che mi sfuggiva. Una volta gli ho confessato la mia frustrazione.
“Non riuscirò mai a farti un ritratto decente, Rim!”.
“Non dire così, i tuoi disegni sono magnifici, Nao”.
“Ho l’impressione costante che manchi qualcosa”.
“Sono certo che la troverai”.
Non ho mai voluto fotografarlo, forse per riguardo, affinché quella magia che ci legava non si interrompesse. Ricrearlo da zero con la matita era un modo per renderlo parte di me. Si dice che l’amore non abbia età. Lui ne è la prova assoluta.
“Posso chiederti quanti anni hai, Rim?”.
“Sono tanti, ho smesso di contarli”.
“Non prendermi in giro! Non voglio apparirti eccessivamente importuna, vorrei solo farti gli auguri il giorno del tuo compleanno senza sbagliare”.
Lui ha sorriso, con uno scintillio commosso nelle iridi di ghiaccio. Sincero e lieve.
“Non so risponderti. Ma puoi scegliere tu il giorno e l’età”.
“Allora festeggeremo insieme quando toccherà a me”.
 
I miei ritratti, nel corso dei mesi, sono diventati sempre più precisi, come i miei sentimenti per lui. Occupava il mio cuore e i miei pensieri.
“Mia sorella pensa che tu non esista” ho confessato un giorno, angosciata.
“Le hai parlato di me?”.
“No. Ha trovato gli schizzi e si è preoccupata. Li ha collegati alla descrizione di te che le ho fornito dopo l’incidente. Quella per cui sono finita in cura”.
Lui ha sospirato, afflitto e malinconico, abbassando il viso.
“Mi dispiace. Non voglio crearti dei problemi”.
“Ho paura, Rim”.
“Perché, Nao?”.
“Tara mi ha seguita di nascosto fino a qui. Ha detto di non aver incontrato nessuno, ma io in quel momento ero con te. Non capisco che cosa mi stia succedendo”.
I suoi occhi, a quel punto, sono diventati terribilmente tristi e quell’angoscia ha contagiato anche me, facendomi comprendere che l’unico vero timore che albergava nella mia anima era quello di perderlo. Non quello di essere psicotica o di essere magari morta mesi prima e prigioniera di un limbo dell’immaginazione. Ho capito che lo disegnavo con tanta passione per affrontare il momento in cui sarebbe scomparso.
“È comprensibile. Anche questa è una mia responsabilità” ha sussurrato lui, desolato “Mi dispiace, forse non avrei dovuto…”.
“No! Ti prego, non dirmi che non potremo più stare insieme! Impazzirei sul serio e non riuscirei più a vivere, non come adesso! Voglio solo sapere la ragione per cui Tara non riesce a vederti!”.
“Perché non ha né desiderio né attitudine di farlo. Invece tu, Nao, sei una persona speciale”.
Rim ha accompagnato il suo pensiero con una carezza sulla mia guancia e persino il suo sguardo fermo ha avuto un’incrinatura dolorosa, come se nel suo cuore adulto dimorasse il medesimo terrore di restare privo di me.
“Anche tu sei speciale, Rim. Quando crescerò, troverò delle parole più consone per esprimerlo. Abbi la pazienza di aspettare…”.
“Hai la mia promessa. Ma sappi che le parole non servono. Ciò che provi brilla in te come una luce. E io la vedo perfettamente anche nel silenzio”.
Ero arrossita. Se Rim era in grado di leggere nel mio cuore, sicuramente sapeva che la ragazzina che gli sedeva accanto era innamorata di lui.
 
Così come ora che sono una donna lo amo con la stessa intensità di allora e lui, sul quale il tempo pare non avere avuto alcun effetto, ama me con tutta l’anima.
Ma prima di ciò, ho dovuto guadare un fiume in piena, fatto di sofferenza e di separazione. In esso mi sono bagnata, ho combattuto e sono diventata più forte senza realizzarlo. Lo comprendo adesso.
 
Quando lo psichiatra ha prospettato la necessità di un ricovero sanitario, Tara ha iniziato a singhiozzare piano, soffocando l’angoscia nel fazzoletto; invece, la mia unica reazione è stata quella di domandare se là avrei potuto ricevere visite.
Mia sorella mi ha tranquillizzata e il medico le ha dato man forte, tuttavia dalla sua espressione rigida e professionale ho compreso che aveva pienamente colto il senso della mia richiesta. Forse contava proprio su quello: allontanarmi dal lago per farmi comprendere che l’uomo che ero convinta di vedere ogni giorno era un mero frutto della mia immaginazione. Che non sarebbe mai venuto a trovarmi, non per cattiva volontà, ma perché non esisteva affatto.
Mi sono risentita, alla faccia della sindrome da shock post traumatico che perdurava da più di un anno e, secondo il dottore, era fuori controllo. Ha ridotto Rim alla stregua di una malattia mentale, senza considerare quanto mi avesse insegnato, quanto avesse fatto per me, quanto avesse risollevato la mia anima stravolta dalla sofferenza. Lui, unico e solo, mi ha accettata per come sono.
Nessuno ha il diritto di classificare Rim, di categorizzare da manuale ciò che provo per lui, di ridurlo a un problema persistente dovuto al fatto che abbia sbattuto la testa o che, inconsciamente, mi sia sentita in colpa per la scomparsa dei miei genitori.
Il conto alla rovescia dei giorni che mi separavano dall’ingresso in ospedale mi è passato attraverso come la visuale del mondo di un condannato a morte.
Tara mi ha vietato di scendere al lago. Ho resistito ventiquattr'ore, poi sono evasa dal carcere fatto di un amore eccessivo e di paura del diverso. Dovevo almeno salutarlo. Parlargli. Chiedergli di non andarsene. Di attendere.
Lui lo sapeva già. L’ho letto nello sguardo triste e delicato con cui mi ha accolta.
“Speravo che non accadesse” ha detto “Che non si venisse a creare una situazione per te tanto spiacevole. Sono dolente”.
“Verrai da me, Rim?”.
“Non posso farlo. Ma ovunque sarai tu, lì ci sarò anch’io”.
“Perché? Perché non posso più vederti? Sei forse legato a questo lago?”.
“No. Sono legato a te, per sempre. Ma se la mia presenza risulta deleteria per la tua vita, non posso fare altro che ritirarmi e attendere”.
“La tua mancanza sarà nociva! Non posso perderti, non ho armi per difendermi dall’assenza di te! Come farò a trovarti, Rim?”.
“Non esisterà la necessità di cercarmi. Resterò con te in un modo differente, Nao, in un modo che non consenta agli altri di considerarti discorde o instabile. Per metterti al sicuro una seconda volta… o non riuscirò mai a perdonarmi per aver interferito”.
“Non… non capisco, Rim. Mi stai dicendo addio?”.
Una lacrima di puro dolore mi è scesa sul viso. Una sola, ma è stata sufficiente per rendere i suoi occhi chiari altrettanto lucidi di sofferenza.
Ha allungato gentilmente una mano e l’ha asciugata, nell’intensità struggente di un sorriso donato per non arrecarmi ulteriore pena.
“Questo non accadrà. Il mio è un arrivederci. Te lo giuro”.
“Portami con te, Rim! Ti prego!”.
Lui mi ha fissata, pensieroso. Poi ha emesso un sospiro profondo, come se la mia richiesta lo avesse in qualche misura sollevato.
“Non è questo il momento. È necessario che tu ti prenda altro tempo, altra vita per riflettere su ciò che cerchi davvero. Che tu conosca questo mondo, prima di sceglierne un altro. Sei così giovane, Nao…”.
“Un altro? Il tuo forse? Davvero potrei venire con te?”.
“Sì”.
“Dove? Da dove vieni, Rim? Devo saperlo o non mi rassegnerò mai a separarmi da te, non potrò distinguere con certezza assoluta i miei reali desideri!”.
“È difficile spiegarlo. Vengo da un qui traslato, parallelo al presente”.
“Oh… da un altro piano dimensionale, forse?”.
Lui ha sorriso, carico di ammirazione e di nostalgia.
“Leggi troppi manga, te l’ho detto. Ma è la definizione più sensata che potessi trovare tra tutte quelle possibili”.
“Mi mancherai, mio adorato Rim. Esiste una soluzione per non soccombere al cuore che mi si sta disintegrando?”
“No. Esiste un’accettazione. Una speranza che non deluderò. Tornerò, quando sarà tempo, e ascolterò la tua risoluzione. Nel frattempo, mia piccola Nao, non darti per vinta. Pensami nei momenti bui, giuro che la luce splenderà per te”.
“E tu che cosa farai?”.
“Aspetterò”.
“Ma sarai solo…”.
Lui ha preso dalle mie mani fredde e contratte l’album con i suoi ritratti.
“Sarò con te”.
 
Nove anni. Il periodo trascorso senza Rim. Per la precisone, senza il suo essere fisico, perché il suo spirito non mi ha mai abbandonata. Ha mantenuto la sua parola.
Nei momenti in cui pensavo di non farcela, anche dopo essere uscita dal percorso medico ed essere stata considerata completamente “guarita”, lui si è manifestato attraverso la mia anima più sensibile.
Ho smesso di disegnare: prendere la matita era come invitare il ricordo lacerante di lui a ferirmi, come attirare l’attenzione su di me e mostrare agli altri una ricaduta nella mia patologia. Così ho rinunciato. Per ora. In verità, non mi rassegno mai.
Ho iniziato però a scrivere: tutti i racconti che lui mi ha letto, le storie incredibili che ho imparato quasi a memoria, i versi appassionati che ha recitato per me.
Anche adesso, mentre la penna percorre il foglio, avverto chiaramente la pressione della mano di Rim sulla mia. Distinguo tra le righe il suo sorriso dolcissimo e indimenticabile… e vivo. Vivo.
 
Oggi è venuto da me. Lo aspettavo. L’ho atteso in ogni istante. L’ho abbracciato e basta, come non ho mai avuto il coraggio di fare quando ero solo una ragazzina.
Rim ha ricambiato lo slancio con la stessa intensità, perché ora sono una donna. Anche se ha sempre affermato che, quando due anime destinate si incontrano, il tempo perde il suo valore, pur restando degno di rispetto.
È tornato per prendere atto della mia scelta. Come se avesse effettivamente bisogno di una conferma. L’unica creatura con cui desidero spartire il mio futuro è lui. Lo sappiamo entrambi, da sempre.
Accarezzo la sua lunga chioma d’argento, identica a come l’ho sempre ricordata nei miei sogni più belli, il suo viso maschile e sereno, mi perdo nelle sue iridi azzurre portatrici di un infinito cui non intendo rinunciare.
“Resto con te. Portami con te” dico con la voce spezzata dall’emozione.
Rim passa le dita tra i miei capelli bruni, sciolti come i sentimenti mai estinti per lui, come sigillo alla nostra promessa. Scruta nei miei occhi neri con la dolcezza che ho imparato a riconoscere, come un amuleto eterno contro il male.
Mi sfiora le labbra con le sue, sfaldando ogni dubbio, ogni paura, ogni esitazione.
Al mio dito scintilla l’anello che mi ha lasciato pochi giorni fa. La gemma verde posta al centro di un cabochon d’oro rettangolare. Ha voluto che riflettessi ancora un momento sul fatto che, se lo seguirò, non potrò più tornare indietro, ma ha infilato il gioiello al mio indice sinistro per garantirmi che, qualunque sarebbe stata la mia risposta, lui sarebbe stato mio per sempre.
“E’ ciò che vuoi senza remora?”.
“Sì, lo voglio”.
Lui sorride a quella premessa, bellissimo e indecifrabile come la prima volta in cui è apparso. Immune al trascorrere degli anni.
“Ti amo, Nao”.
“Io amo te, Rim. Ti aspettavo, sin dal mio primo respiro su questa Terra”.
Riesco a farlo arrossire. Mi abbraccia e il suo calore mi cinge anima e corpo.
“Hai detto addio a tua sorella?”.
“Nove anni fa”.
“Allora possiamo andare…”.
Mi stringe la mano e poi mi solleva tra le braccia, scendendo verso il lago. Tutto è luce e gioia, tutto è Nao e Rim uniti per l’eternità.
 
Cinque anni dopo.
 
“Quindi il libro è stato pubblicato? Hai avuto una splendida idea, Tara!”.
“Sì. I racconti di Nao sono affascinanti, ho voluto che tutti li leggessero, zia. Così non saremo solo noi a ricordarci di lei”.
“Sono certa che commuoveranno e appassioneranno centinaia di lettori! Mi dispiace solo che lei non sia qui a ricevere le lodi che merita”.
Tara sospira, passeggiando lungo il viale tempestato di fiori primaverili, con il cellulare in mano.
“Non ho mai compreso che cosa sia successo, zia. Credevo che stesse bene, invece…”.
“Tesoro, smetti di fartene una colpa. Purtroppo, non ci sono state avvisaglie, nessuno ha pensato che Nao scegliesse di togliersi la vita dopo tanto tempo, proprio quando pareva aver riconquistato pienamente la serenità”.
“Questo non possiamo affermarlo. Dicono di averla vista dirigersi verso il lago, ma nulla ci indica con certezza che si sia buttata. L’hanno cercata ovunque, però il suo corpo non è mai stato ritrovato”.
“Tu credi che sia da qualche parte, priva della memoria? Che non sia morta?”.
“Non lo so, zia. Lo spero”.
“Magari vedrà il libro pubblicato a suo nome e tornerà da noi”.
“Magari sì…”.
 
Tara chiude la comunicazione con un rapido saluto. Rivangare la scomparsa della sorella la addolora. È facile dire a una persona di non sentirsi responsabile di un’altra, quando non si è vissuta direttamente la perdita.
Le torna in mente l’anello con la pietra verde, quello che Nao portava nei suoi ultimi giorni. Forse, qualcuno ha approfittato della sua fragilità e l’ha rapita, ingannandola. Forse, lei ha sbagliato sin dal principio a non credere che nella vita di sua sorella ci fosse veramente un uomo misterioso, quello tanto affascinante ritratto nei suoi disegni di ragazzina. Ne tiene ancora uno nella borsa, come se fosse un identikit, e ogni tanto lo tira fuori, quando ritiene di aver scorto in qualcuno una somiglianza. Fallendo ogni volta.
Forse, invece, come sostiene la polizia, Nao si è comprata quel gioiello per vivere appieno la sua illusione. Anche se nessuno nei paraggi ammette di averglielo venduto e lei non si è allontanata di casa.
Tara è sicura che il lago ne conosca il segreto. Ma che voglia custodirlo.
Cammina lentamente sulla riva deserta, fissando l’acqua con il cuore in pezzi e pensa che vorrebbe solo conoscere la verità. Nient’altro.
Un fruscio attira la sua attenzione. Sobbalza, risvegliandosi dalle riflessioni. È solo una bambina che intreccia le margherite.
Poi, sgrana gli occhi e si avvicina, sbigottita, incapace di frenare le emozioni.
La piccola può avere circa quattro anni e solleva il viso niveo, mostrando due occhi neri e intensi. I lunghi capelli d’argento scintillano al sole di maggio, fermati sulla fronte da una fascia ricamata. Indossa un abito di seta azzurra.
Assomiglia in modo impressionante a…
Tara tira fuori il ritratto, convulsamente, con le mani tremanti e guarda la bimba.
A lui. È identica a lui! E ha qualcosa di Nao.
La creatura le porge il serto fiorito con un sorriso, mentre lei resta immobile e lo prende meccanicamente, sconvolta.
“La mamma dice che non devi piangere” flauta la bimba, allegra.
Tara cade in ginocchio, ruscellando le lacrime che pensava di avere esaurito. Quando riesce a riportare a fuoco il paesaggio è sola.
Ma sorride. Finalmente anche lei sorride.
   
 
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