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Autore: Dark Sider    20/10/2019    18 recensioni
Anno mille: Rhoslyn, una ragazza malata di peste e prossima alla morte, cerca la salvezza presso una strega che si dice viva nel cuore della foresta. La fattucchiera le insegna, dunque, un rituale da compiere a un crocevia, con il quale Rhoslyn evoca il demone Aldamoq, che le offre l'immortalità in cambio della morte di tutte le persone che la ragazza ama. Rhoslyn, credendo di aver già saldato il debito, poiché tutti coloro che ama sono morti a causa della peste, firma il contratto, ignara della terribile maledizione a cui ha dato vita e che la perseguiterà per l'eternità.
[Prima classificata parimerito al contest "This is Halloween!" indetto da MaryLondon sul Forum di EFP]
Genere: Dark, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La maledizione di Rhoslyn May

 

 

 

Una densa nebbia era scesa ad avvolgere la piana come un sudario, tingendo di un pallore spettrale una gelida notte di fine Ottobre.

La labile fiamma di una torcia tremolava tra gli sbuffi di foschia, come un tenue fuoco fatuo, incapace di rischiarare il cammino in quel candore impalpabile; sotto la debole guida di quella fiaccola camminava Rhoslyn, procedendo con passo malfermo sulla strada che, dal suo piccolo villaggio, conduceva al crocevia. La fitta boscaglia che costeggiava il sentiero le restituiva un silenzio agghiacciante, nel quale i suoi passi parevano riecheggiare assordanti, facendole dolere la testa. Rabbrividendo, si strinse maggiormente nel pesante mantello di lana, tentando inutilmente di scaldarsi: il freddo esterno non era nulla in confronto a quello che veniva da dentro e che le penetrava dolorosamente nelle ossa, come piccoli e crudeli aghi affilati.

Dinanzi ai suoi occhi, il sentiero illuminato a malapena dalla torcia ondeggiava vertiginosamente, rivoltandole lo stomaco e rendendole difficile procedere senza incespicare. Costringendo il suo macilento corpo divorato dalla malattia a continuare l’estenuante marcia, Rhoslyn non faceva che sperare di veder emergere la sua destinazione dalla coltre di nebbia, per potersi finalmente fermare e dare sollievo alle membra stanche.

I bubboni purulenti che la devastavano, i linfonodi ingrossati sotto le ascelle, la febbre alta che la spossava, le energie prosciugate dal morbo erano solo i segnali più evidenti dell’appressarsi della morte, che ben presto avrebbe reclamato la sua vita, così come aveva già fatto con tanti altri, tutti caduti sotto i devastanti colpi della peste.

Quando l’epidemia era giunta anche nel suo villaggio, Rhoslyn aveva creduto di poter scampare al contagio, forte di un’incrollabile fede e di un tenace attaccamento alla vita; né l’una né l’altro, tuttavia, le avevano impedito di contrarre il morbo, gettandola in un profondo sgomento. In un primo momento, aveva cercato in Dio la salvezza, pregando giorno e notte tra le lacrime: quando, però, i suoi cari erano morti e la malattia peggiorata, la disperazione l’aveva sopraffatta, inducendola ad abbandonare la fede per trovare altrove un aiuto.

Così, la ragazza s’era recata nel folto della foresta, là dove si diceva vivesse una vecchia strega, che nessuno aveva mai visto, ma nella cui esistenza tutti credevano. Aveva vagato per ore tra la fitta vegetazione, con un cesto di frutta e pane sottobraccio, senza sapere realmente dove stesse andando. La febbre e le lacrime di terrore le offuscavano la vista, sfocando ciò che aveva intorno in una macchia indistinta di colore.

Al tramonto, s’era finalmente imbattuta in quella che - ne fu certa - era la casa della strega, una catapecchia di legno marcito celata nel cuore della foresta; inizialmente, s’era stupita nel ritrovarsela davanti, credendola frutto di un’allucinazione, poi s’era avvicinata alla sinistra abitazione, toccandone le assi umide e annerite, e aveva dovuto constatare con una certa sorpresa che fosse reale.

La stessa disperazione, che l’aveva spinta a quella blasfema ricerca, l’aveva indotta anche a bussare alla porta senza esitazione: la paura aveva ceduto il posto alla speranza di poter in qualche modo salvare la propria vita e una calma fermezza s’era impadronita di lei.

L’uscio s’era dischiuso con un penoso cigolio, accompagnato da un’indefinita zaffata di tanfo talmente acre da superare persino quello dei suoi bubboni putrescenti. Rhoslyn era entrata cautamente, stringendo il cesto con maggior vigore.

L’interno della casa era polveroso e claustrofobico, stipato di libri, pergamene, ampolle e stranezze d’ogni genere, molte delle quali la ragazza non aveva mai visto né conosceva. Accanto a un camino spento e colmo di cenere, sedeva una donna che pareva estremamente vecchia e, contemporaneamente, senza tempo: i capelli ingrigiti e stopposi ricadevano a incorniciare un viso ingiallito e segnato da innumerevoli rughe, indice di un’età molto avanzata, eppure non quantificabile.

Rhoslyn s’era cautamente mossa verso la strega, che la guardava immobile, con gli occhi vitrei, eppure profondamente saggi, fissi su di lei.

«Siete voi la strega?» aveva domandato la ragazza, titubante, poggiando il cesto di frutta e pane a terra, in un gesto che le aveva causato una lancinante fitta di dolore.

La vecchia donna aveva stirato le labbra screpolate in un vago sorriso e non aveva risposto. Rhoslyn s’era passata una mano sulla fronte bollente, per asciugarla dal sudore che la imperlava, e aveva abbassato lo sguardo, a disagio.

«Peste» aveva poi mormorato d’improvviso l’anziana senza tempo, con voce stridula e graffiante. «Avresti davvero bisogno della streptomicina: peccato che verrà scoperta solamente tra ottocento anni. Comunque, se può consolarti, temo che nel tuo caso sarebbe inutile.»

Rhoslyn aveva risollevato lo sguardo su di lei, perplessa: non era riuscita a comprendere cosa quella donna le stesse dicendo, e non aveva capito se si stesse prendendo gioco di lei o se fosse la febbre a confonderla. «Siete voi la strega?» aveva dunque ripetuto, lasciando contemporaneamente vagare lo sguardo per la stanza, all’infruttuosa ricerca di una sedia sulla quale abbandonarsi.

«Perché mi fai domande di cui conosci la risposta?» aveva chiesto l’altra, con un ghigno che in qualche modo riusciva a essere rassicurante. «Desideravi con tutto il cuore trovarmi: per questo sei riuscita a giungere nella mia dimora.»

Rhoslyn era scoppiata in lacrime e si era lasciata cadere in ginocchio. «Vi prego, aiutatemi: non voglio morire» aveva singhiozzato, incurante di quanto potesse apparire patetica o di come Dio l’avrebbe punita per la sua eresia. «Ho portato questo cesto come pagamento. Farò tutto quello che sarà necessario.»

La strega s’era alzata con un fruscio di vesti logore e s’era avvicinata lentamente. Rhoslyn, che non riusciva a essere null’altro che disperata, era rimasta accasciata a terra, scossa da tremiti e singulti, e non si era sottratta alle mani ossute della donna che, accovacciatasi, l’aveva afferrata per le spalle. La ragazza l’aveva guardata da attraverso le lacrime e per un fugace istante aveva visto il volto di lei assumere un cupo colore cinereo; l’aveva guardata negli occhi e li aveva trovati alabastrini, privi di pupilla e iride. Un istante dopo, il tempo d’un battito di ciglia, la strega aveva riacquistato fattezze umane e Rhoslyn s’era convinta che la trasfigurazione a cui aveva assistito fosse frutto dei deliri dovuti al morbo.

«Ti spiegherò cosa devi fare» aveva detto la strega, con quel suo ghigno rassicurante. «E ti darò il necessario per farlo.»

Rhoslyn aveva ascoltato con attenzione le parole della donna e non aveva dubitato neppure un istante della loro veridicità, probabilmente perché aveva bisogno di crederle vere. La malattia l’avrebbe vinta in un giorno, due massimo, e non le costava nulla illudersi di avere ancora una speranza. Lei non voleva morire: era una consapevolezza che si era formata nella sua mente nell’istante in cui era comparso il primo ammorbato nel suo villaggio, e che era andata rafforzandosi di giorno in giorno, a ogni nuovo appestato e a ogni nuovo morto.

Pertanto, ora si trovava a incedere lungo quel sentiero immerso nella nebbia e nell’oscurità, con una torcia in una mano tremante e un sacco di tela nell’altra: dentro, vi erano i preziosi mezzi che le avrebbero consentito di avere salva la vita. O, per lo meno, questo era ciò che la vecchia strega le aveva assicurato.

Rhoslyn arrancava e mormorava parole sconnesse che volevano essere preghiere; troppo affaticata persino per provare paura, avanzava come sospinta da una forza invisibile che le impediva di crollare a terra, che la sosteneva con impalpabili braccia nel suo ultimo, disperato viaggio.

Il crocevia si disvelò dinanzi ai suoi occhi come un miraggio, delineandosi sempre più chiaramente man a mano che la ragazza s’avvicinava. Era un crocicchio in cui convogliavano cinque strade che si andavano perdendo in punti diversi della foresta; Rhoslyn non s’era mai spinta così lontana dal suo villaggio, e quel luogo le spandé dentro un profondo smarrimento che la disorientò e la paralizzò, arrestando bruscamente i suoi passi.

Un silenzio ovattato serpeggiava tutt’intorno, come se la nebbia avesse cancellato ogni suono, inghiottendolo.

Rhoslyn si segnò rapidamente, in una muta richiesta di protezione e perdono insieme, dopodiché s’avvicinò al centro del crocevia, con le ossa che scricchiolavano e le articolazioni che dolevano. Arrivata nel mezzo, s’inginocchiò a terra e posò accanto a sé la torcia e il sacco, che aprì con incerta lentezza: nell’estrarne poi il contenuto, tentò di scacciare il ripugnato disgusto che salì ad accentuarle la nausea.

Cercò di non pensare che si stava ritrovando a maneggiare un’ala di pipistrello, una fiala di sangue, un raggrinzito lembo di pelle e un femore di neonato. Non si dispiaceva per le sorti toccate alle creature a cui quegli oggetti erano appartenuti, piuttosto era nauseata al pensiero di star toccando la morte, di star tastando qualcosa che la vita aveva abbandonato da molto tempo.

Rhoslyn odiava la morte, la destava e la temeva: era qualcosa di disgustoso, putrido e malsano; qualcosa di distruttivo, che cancellava, spazzava via, distruggeva speranze e legami. Il suo cuore si era lacerato, logorato, irreparabilmente rovinato quando aveva visto i suoi familiari spegnersi uno a uno: aveva guardato, impotente, la vita scivolare via dai loro occhi lucidi e gonfi, dalle loro membra pallide e martoriate dai bubboni purulenti, e allora aveva capito. Aveva compreso la crudeltà dietro l’ultimo respiro, la terribilità dietro l’ultimo battito di cuore, e aveva deciso di non voler essere parte di un destino tanto orribile. Non le importavano le promesse di un radioso e pacifico Paradiso che l’attendeva altrove, non le importavano i candidi cori dei Serafini pronti ad accogliere la sua anima. Forse era un’eretica, forse era una miscredente, ma non voleva abbandonare la vita terrena. Non a vent’anni.

Con una smorfia di disgusto, poggiò il femore annerito e sbeccato a terra, dopodiché cominciò a scavare una piccola buca con le dita contratte e congestionate. Un’unghia si spezzò e cominciò a sanguinare, ma Rhoslyn non ci fece neppure caso.

Quando la cavità fu abbastanza ampia da poter contenere tutti gli oggetti che aveva estratto dalla sacca, la ragazza ve li dispose ordinatamente dentro, per poi ricoprirli di terra. In seguito, s’alzò in piedi e cominciò a recitare l’antica formula che la strega le aveva insegnato, in una lingua sconosciuta: le parole erano complesse e difficili da pronunciare, tanto che la vecchia aveva dovuto fargliele ripetere più volte prima che riuscisse a memorizzarle correttamente, e Rhoslyn sperò che la febbre non la facesse cadere in errore.

Dopo aver scandito la formula per tre volte, come da indicazioni, la ragazza tacque e l’irreale silenzio di quella gelida notte calò subitaneamente sul crocevia e sulla foresta intorno. Per lunghi istanti, non accadde nulla e Rhoslyn cominciò stancamente a porsi domande che, fino a quel momento, aveva preferito non far affiorare nella mente: perché la strega l’aveva aiutata in cambio di solo un misero cesto di frutta e pane? Cosa ci guadagnava? Forse si era presa solamente gioco di lei e della sua disperazione.

Chinando il capo, sconfitta, la giovane si sistemò l’ampio mantello di lana incapace di scaldarla, e s’apprestò a raccogliere la torcia, pronta ad andarsene, ammesso che avesse le forze per farlo. Fu uno stridio ad attrarre la sua attenzione, facendole risollevare la testa nella direzione da cui sembrava provenire il suono: Rhoslyn batté le palpebre, frastornata, e si disse che dovevano essere i deliri a ingannarle la mente, poiché aveva creduto che il rumore arrivasse dal centro esatto del crocevia, dove invece non vi era nulla.

Si chinò per raccogliere la torcia e, di nuovo, quello stridio la fece bloccare.

«C’è qualcuno?» domandò la ragazza, con un filo di voce e labbra tremanti; l’oscurità le restituì solamente un attonito silenzio. Poi, d’improvviso, dal centro del crocevia, un pipistrello comparve come dal nulla, proprio sopra alla buca che aveva scavato poc’anzi, e le volò contro, costringendola a ripararsi il viso con le braccia per non venire ferita; il piccolo mammifero le sfiorò la pelle gelida e i capelli annodati, per poi scomparire nelle tenebre rapido come era comparso.

Rhoslyn lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e fissò attonita il cumulo di terra smossa al centro del crocevia; un terrore sottile e glaciale si stava instillando nella sua anima come un veleno, pietrificandola. I deliri della febbre non potevano giustificare quanto aveva appena visto, né l’elettricità con cui pareva essersi caricata l’aria attorno a lei, fattasi improvvisamente pesante, quasi irrespirabile.

Con il fiatone e le membra tremanti, ora più per paura che per freddo, Rhoslyn s’impose di cominciare a indietreggiare per andarsene, ma il suo corpo si rifiutò d’obbedire, come se fosse stato trattenuto da legacci invisibili.

La ragazza cominciò a gridare nell’esatto istante in cui un intero stormo di pipistrelli si materializzò al centro del crocevia; piccole e chiassose, le nottole presero a volare in cerchio, in un vortice di ali nere, occhi brillanti e sinistri, e stridii acuti. Unendosi sempre più strettamente, andarono a formare una figura umanoide, scura quanto le loro pellicce. Si amalgamarono, si fusero, finché non scomparvero, inghiottite dall’imponente sagoma che esse stesse avevano creato.

La luce della torcia abbandonata a terra lambiva i contorni della creatura portata dallo stormo di pipistrelli; essa se ne stava immobile al centro del crocevia, alta e snella, con lunghe corna a ornare un volto dai tratti sfuggenti, dove lampeggiavano maligni due occhi lattiginosi, che estinsero le grida Rhoslyn quando si posarono su di lei, poiché la ragazza li riconobbe come quelli che aveva visto sul volto trasfigurato della strega e quell’intuizione la paralizzò nell’orrore.

«Creature adorabili, i pipistrelli: non trovi?» domandò la bestia, affabile, scoprendo una chiostra di denti appuntiti: la sua voce, contro ogni aspettativa, era calda e dolce, ammaliante quasi.

Rhoslyn, che voleva fuggire via ma non ci riusciva, deglutì a vuoto e rimase in silenzio.

La creatura assottigliò lo sguardo, dopodiché si profuse in un inchino quasi beffeggiatorio. «Non mi sono presentato: perdona la scortesia. Il mio nome è Aldamoq e sono il Demone dei Patti di questa zona di mondo.»

«D-Demone dei Patti?!» riuscì a biascicare Rhoslyn, in preda a panico e confusione.

Aldamoq liquidò la domanda con un gesto noncurante della mano artigliata, come se stesse scacciando una mosca fastidiosa, dopodiché s’avvicinò lentamente alla ragazza.

«Vedo che la tua vita sta giungendo al termine» osservò il demone, fermandosi a pochi passi dalla sua terrorizzata interlocutrice. «Suppongo che tu mi abbia evocato per chiedermi di farti sfuggire alla morte: ho indovinato?» soffiò, ghignando compiaciuto, come se già conoscesse la risposta alla sua domanda e l’avesse posta per diletto.

Rhoslyn inspirò profondamente, cercando di trovare le forze necessarie per formulare una risposta e per non impazzire dinanzi a quell’assurda situazione. la strega non era entrata nei dettagli quando le aveva spiegato come compiere il rituale e, invero, lei non li aveva chiesti: la garanzia di poter continuare a rimanere in vita l’aveva fatta desistere dal porre qualsiasi domanda. Mai avrebbe immaginato che la sua salvezza si sarebbe potuta trovare in un patto con un demone. Una parte di lei era terrorizzata, disgustata e desiderava allontanarsi il prima possibile da quella creatura sacrilega, ma un’altra parte, la stessa che l’aveva spinta ad addentrarsi nella foresta, desiderava che quell’abominevole creatura la traesse in salvo, qualunque fosse il prezzo da pagare.

«La strega mi ha mandato qui, da voi» mormorò, quindi, Rhoslyn, abbassando lo sguardo per non incontrare quello alabastrino del demone.

«Certo» fece Aldamoq, affettato. «Ha fatto più che bene: posso darti ciò che cerchi.»

La giovane non poté fare a meno di sollevare la testa di scatto per fissare i suoi occhi imploranti in quelli ultraterreni del proprio interlocutore, trovandoli vitrei, ma profondamente saggi e astuti. Si perse in quello sguardo senza tempo, che pareva vederla e non vederla al contempo, che pareva fissare tutto e niente. Si perse, calamitata e ipnotizzata, prigioniera in quel bianco perfetto, in quel lucente candore.

«Voi potete davvero salvare la mia vita e la mia anima?»

Aldamoq si lasciò andare a una risata divertita, sottile e crudele. «Posso senz’altro salvare la tua vita; quanto all’anima, non garantisco» cantilenò, con ancora un ghigno sinistro a sfregiargli il volto sfuggente.

Da qualche parte dentro l’anima di Rhoslyn, qualcosa gridò disperatamente, s’oppose a quell’orrore e suggerì di correre via, accettando e abbracciando la morte; qualcos’altro, invece, sussurrò che oramai era troppo tardi, che dai demoni non si può fuggire, e quindi tanto valeva trarre profitto da quella condanna.

E fu proprio ciò che Rhoslyn fece. Guardò Aldamoq, s’incantò nel fissare i suoi occhi lattei, e provò per lui attrazione, più che repulsione. Avrebbe fatto qualsiasi cosa le avesse chiesto. Guardò Aldamoq e attese che lui le salvasse la vita.

«Definiamo i termini del contratto» cinguettò il demone: la giovane s’accorse solo in quel momento che stava stringendo una pergamena in una mano artigliata. «Io ti donerò una vita lunga, così lunga da renderti immortale: nulla potrà mai ucciderti davvero. La morte, per te, sarà solamente un sonno momentaneo, l’inizio di una nuova esistenza. In cambio, tutti coloro che ami moriranno.»

Rhoslyn batté le palpebre, confusa. Aldamoq le aveva appena offerto l’immortalità in cambio di un prezzo che le sembrava esiguo: aveva già perso tutti coloro che amava, strappati brutalmente via dalla peste.

Allora, vicina alla morte e con una promessa di salvezza a pochi passi da lei, la ragazza aveva creduto che non fosse nel potere di un demone conoscere ogni cosa, e che lo si potesse ingannare. Aveva così accettato, credendo di dover pagare ad Aldamoq un costo che già aveva saldato.

La creatura le aveva afferrato il polso e le aveva ferito con un artiglio la pelle candida, che si macchiò subitaneamente del rosso del sangue.

«Firma» ordinò Aldamoq, leccando via il liquido cremisi che imbrattava il suo artiglio.

Dopo qualche istante di costernazione, Rhoslyn comprese e si bagnò l’indice con il suo sangue, ponendo la firma in calce alla pergamena che il demone le teneva dispiegata davanti e dove erano vergati elegantemente i termini del patto stipulato. Sotto alla scrittura stentata e tremolante della ragazza, Aldamoq scrisse il suo nome con il proprio sangue: anche quello era nero, come tutto il resto della creatura.

«È stato un piacere, mia cara» ghignò il demone, arrotolando la pergamena.

Prima che Rhoslyn potesse aggiungere qualcosa, la figura della creatura iniziò a tremolare e oscillare e, un istante dopo, era tornata a essere il vorticante stormo di pipistrelli che l’aveva formata in origine. Quelli, riempendo il silenzio con acuti stridii, interruppero la loro danza al centro del crocevia e volarono contro la giovane in una compatta macchia nera, che la investì con una forza tale da scaraventarla a terra.

Rhoslyn si rannicchiò su se stessa, coprendosi la testa con le braccia, per proteggersi da quel feroce attacco. Non seppe quantificare quanto rimase in quella posizione, ma le parve un tempo molto lungo, un tempo infinito in cui credette di morire. Poi tutto cessò e il silenzio tornò a dominare la foresta.

La ragazza si mise seduta lentamente, come se temesse che le nottole potessero tornare ad avventarsi su di lei, ma nessuna creatura si aggirava per il crocevia e nessun suono squarciava le tenebre.

Guardandosi intorno, Rhoslyn si accorse di un importante particolare: stava bene. La febbre era scomparsa, così come i dolori, i tremori e gli orrendi bubboni che la deturpavano e la facevano soffrire; il respiro era tornato regolare e le forze s’erano di nuovo impadronite delle sue membra. Sul polso che il demone aveva ferito, la lesione era guarita, lasciando solamente una sottile cicatrice.

Per alcuni minuti, la giovane rimase a bocca aperta, tastandosi il corpo, toccandosi il volto, camminando e sedendosi a intervalli irregolari, incapace di credere vero quanto stava vivendo. Poi, dopo essersi convinta di non trovarsi immersa in un sogno, si distese supina, con lo sguardo rivolto al cielo e avvolta nella nebbia.

Una risata le salì nella gola e proruppe dalle sue labbra non più secche e screpolate.

Rhoslyn rise, di una risata folle e liberatoria. Vittoriosa. Rise senza riuscire a fermarsi. Rise perché aveva ingannato Aldamoq e ottenuto l’immortalità.

 

 

 

 

***

 

 

 

All’inizio, Rhoslyn era stata inebriata dalla sua esistenza, dalla consapevolezza di non poter morire, di avere dinanzi a sé un tempo indefinito; poi, la realtà si era rivelata davanti ai suoi occhi in tutta la sua terribilità, portando con sé la verità che, in un primo momento, era rimasta celata dietro la gioia del trionfo: Rhoslyn non aveva ingannato Aldamoq, né lui era stato clemente con la richiesta del pagamento. Il prezzo dell’immortalità era alto, più alto di quanto lei avesse mai potuto immaginare, e aveva il sapore amaro di una maledizione.

La prima volta le era sembrata una terribile tragedia; la seconda una beffarda casualità; la terza una macabra coincidenza. Poi, quando per la quarta volta, nella quarta vita, le persone che amava erano morte in circostanze tutt’altro che naturali, aveva compreso che qualcosa non andava. Fino a quando non le aveva viste morire, quelle anime a cui s’era affezionata, non era riuscita a ricordare che fosse accaduto anche in precedenza: rimembrava solamente di aver vissuto altre volte, ma non era in grado di rammentare chiaramente le sue vite precedenti, né tantomeno quel terribile dettaglio che le accomunava.

Solamente quando si era trovata al cospetto della morte, aveva ricordato ogni cosa: aveva ricordato nei minimi particolari le esistenze che precedevano quella attuale, aveva ricordato come, ogni volta, aveva perso coloro che amava e come, in quella circostanza, aveva avuto fine anche la sua stessa vita, aveva ricordato la strega e il patto. Aveva ricordato Aldamoq.

Così, era tornata nella stessa foresta in cui tutto era cominciato, e che dopo ottant’anni non era cambiata poi molto. Aveva vagato tra gli alberi in cerca della strega. “Desideravi con tutto il cuore trovarmi: per questo sei riuscita a giungere nella mia dimora” le aveva detto la vecchia durante il loro primo incontro, così Rhoslyn s’era lasciata guidare dal desiderio d’imbattersi di nuovo nella malconcia catapecchia piena di oggetti sinistri e strabilianti, per poter parlamentare ancora con quella donna e domandarle come potesse rompere il patto stilato con il demone.

Era davvero riuscita a ritrovare la casa della strega e, senza indugi, era entrata nella vecchia stanza, riscoprendola esattamente come la ricordava, se non per un particolare: sulla sedia accanto al camino spento e colmo di cenere, non riposava una vecchia senza tempo, ma Aldamoq.

Rhoslyn s’era irrigidita a quella vista e aveva fatto istintivamente un passo indietro. «Dov’è la strega? Cosa le hai fatto?» aveva domandato, furibonda e spaventata al contempo.

Aldamoq aveva scoperto i denti in un ghigno che in qualche modo riusciva a essere rassicurante e Rhoslyn aveva compreso. Aveva compreso ancor prima che lui parlasse.

«Non c’è mai stata nessuna strega» aveva cantilenato il demone, assottigliando gli occhi alabastrini in uno sguardo beffardo. «Ero io la donna che hai incontrato in questa capanna. Per rendere valido un patto stipulato con me, occorre che venga eseguito il rituale che tu stessa hai compiuto, tuttavia nulla m’impedisce di assumere una forma per voi umani familiare e spingere i disperati come te al crocevia, inducendoli a siglare l’accordo. Non avercela con me: eseguo solamente il mio compito. Porto più anime possibili agli Inferi e, in compenso, posso nutrirmi della sofferenza che causo loro attraverso i patti. Avrai capito, mia cara, che tu sei il mio cibo eterno.»

Rhoslyn aveva stretto i pugni: nella sua prima vita aveva avuto paura di quella creatura, ma ora le muoveva dentro solo disgusto e ira. La consapevolezza di non poter mai morire davvero, la realizzazione che Aldamoq avesse in qualche modo bisogno di lei la rendevano più audace.

Aveva avuto paura, un tempo, ma in quel momento si era resa conto che si trattava di un sentimento che stava diventando sempre più estraneo.

«Perché non riesco a ricordare nulla finché coloro che amo non muoiono?» aveva domandato la ragazza, a denti stretti: avrebbe voluto aggredire Aldamoq, cercare di ucciderlo in qualche modo, ma il bisogno di avere risposte era più forte di qualsiasi altra cosa. Lui lo sapeva e se ne compiaceva.

«Sarebbe un po’ scomodo, per me, se tu conservassi le memorie delle implicazioni del patto, non trovi? Tuttavia non avresti abbastanza sofferenza da darmi, se a un certo punto non facessi piombare su di te il peso di tutte le morti che hai sulla coscienza. Tu non ricordi nulla fino al momento in cui non ti leghi profondamente a qualcuno e finché io non lo uccido, dopodiché ti restituisco la memoria il tempo necessario per nutrirmi, infine la tua vita termina e ne comincia una nuova. È una sorta di compromesso, capisci? L’esistenza è tutta una questione di compromessi.»

«Io non ho nessuna vita sulla coscienza» aveva strepitato Rhoslyn, prendendo ad avanzare. «Sei tu il viscido, crudele, orribile essere che causa tutte queste morti e che mi tormenta!»

Aldamoq aveva mimato la sua bocca che parlava muovendo gli artigli. «Ti ricordo che sei tu ad aver accettato il patto: avresti potuto andartene, se avessi voluto, e invece hai firmato tutta baldanzosa, convinta di avermi ingannato. Voi esseri umani siete così ingenui: non mi sorprende affatto che abbiate causato due guerre mondiali e abbiate distrutto, infine, il vostro pianeta, portandovi quasi all’estinzione; puoi immaginare quanto poco abbia da mangiare, in quell’epoca» aveva mormorato nostalgico.

«Ma cosa stai dicendo?!» aveva gridato Rhoslyn, arrestandosi: di nuovo, lui stava parlando di cose che lei non riusciva a capire, probabilmente inventate per confonderla.

Aldamoq si era piegato in avanti, avvicinando il suo viso indefinito a quello della propria interlocutrice. «È inutile che te lo spieghi: non potresti capire.»

La ragazza, in un moto istintivo e rabbioso, aveva tirato un pugno al viso del demone: non aveva sentito l’impatto con una superficie solida, come s’era aspettata, ma aveva avvertito - e visto - la sua mano affondare in quella massa oscura, che pareva impalpabile, come fatta di nulla. Poi Aldamoq s’era tramutato nello stormo di pipistrelli che Rhoslyn ben conosceva e che l’aveva travolta, uscendo dalla porta spalancata della catapecchia.

«Il tuo tempo è scaduto» aveva sussurrato la voce del demone, che pareva avvolgerla come se venisse da ogni parte della casa contemporaneamente. «Ci vediamo nella prossima vita. E ti consiglio di trovarti un cognome: comincia ad andare di moda.»

 

 

 

 

Quella era la sua vita numero ottocentocinquanta.

Il mondo era cambiato così tanto, in quei secoli, e per Rhoslyn, con la sua mentalità da anno mille e ricordi confusi e sfumati di molte vite, era stato difficile abituarsi: aveva dovuto davvero trovarsi un cognome - ricordava bene che le fosse stato dato quel consiglio, in una delle sue prime vite, ma non rammentava da chi -, aveva dovuto affrontare due guerre mondiali, adattarsi alla tecnologia, imparare a guidare una macchina, a usare il cellulare, il computer.

Inizialmente, era stata spaventata dalla sensazione di dover sempre ricominciare, di dover ripartire di nuovo da capo, poi s’era abituata. Cristallizzata nei suoi vent’anni, si risvegliava in un’epoca a cui era sempre certa d’appartenere, spesso in un appartamento in affitto dotato di tutte le comodità possibili, in possesso di documenti e con un cospicuo conto in banca. Sapeva di poter vivere per sempre e le sue nuove vite non le potevano sembrare più belle, all’inizio. Finché non ricordava, sempre troppo tardi.

Quella era la sua vita numero ottocentocinquanta e lei neppure se ne rendeva conto. Non del tutto, almeno. Non ancora.

Tre anni prima, aveva iniziato a lavorare come domestica per una famiglia benestante. Forse domestica non era il termine più appropriato da utilizzare negli anni duemila, ma non gliene veniva in mente uno migliore per descrivere le sue mansioni: tenere ordinata la casa, pulire, svolgere qualche commissione e occuparsi del piccolo Thomas.

Rhoslyn non aveva potuto fare a meno di affezionarsi a quel vivace bambino di cinque anni: sin dal primo momento in cui l’aveva visto, aveva capito che l’avrebbe amato sopra ogni cosa, e così era stato. Forse Thomas rappresentava il mezzo per colmare un desiderio di maternità mai realizzato, ma stava di fatto che la ragazza teneva a lui tanto quanto - immaginava - avrebbe tenuto a un proprio figlio.

Di certo, lei non poteva sapere di aver condannato a morte Thomas nel momento in cui aveva iniziato ad affezionarsi a lui. Non poteva saperlo, mentre lo aiutava a indossare il cappotto prima di uscire di casa per andare al parco.

Era una giornata di fine Ottobre, la stessa in cui Rhoslyn aveva stretto il patto con Aldamoq: il demone sceglieva sempre quella data per portare a compimento la maledizione, più per diletto personale che per una vera e propria esigenza. Lui era un essere di pura malvagità, e compiacersi di sofferenza e devastazione era naturale come respirare per gli umani.

Rhoslyn avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto rammentarlo, ma i suoi ricordi delle vite precedenti giacevano in un oblio congelato, addormentati, immobili, come se non fossero mai esistiti.

Così, sorrideva mentre scendeva in strada con il piccolo Thomas, carezzata dai raggi di un sole particolarmente caldo per la stagione, ignara di quanto crudele poteva essere l’esistenza. Soprattutto quella che non ha una fine.

«Mi accompagnerai domani a fare “dolcetto o scherzetto”, vero?» chiese Thomas, guardando in su verso la propria accompagnatrice con i grandi occhi animati da una fanciullesca speranza.

Rhoslyn gli scompigliò bonariamente i capelli. «Ma certo.»

Thomas rise. «Io mi vestirò da vampiro e tu da strega» osservò, entusiasta.

«Sono troppo grande per travestirmi» gli fece notare l’altra e, quando Thomas arricciò le labbra in un broncio mortificato, lei gli sorrise con più calore. La verità era che, per qualche strano motivo che non riusciva a comprendere, il giorno di Halloween l’aveva sempre inquietata, spandendole dentro un cupo malessere che la spingeva a chiudersi in casa finché quella malsana festa non finiva. Inspiegabilmente, odiava l’ultimo giorno di Ottobre, lo odiava e lo temeva, ma non era riuscita a rifiutare la richiesta di Thomas di accompagnarlo a chiedere dolcetti, quando lui glielo aveva domandato.

«E le streghe ballano la danza per i maghi, fanno il filtro magico per spaventare i draghi. Gira, gira il mestolo, tira su il coperchio. Fuoco, fuoco notte e dì, le streghe fan così» cominciò a canticchiare Thomas, trotterellando sul marciapiede.

«E questa dove l’hai sentita?» chiese Rhoslyn, con una punta di teso divertimento: in realtà, sentir parlare di streghe e filtri la terrorizzava.

«È una filastrocca famosa. Ce l’hanno insegnata a scuola» rispose Thomas, stringendosi nelle spalle e fissando Rhoslyn come se non riuscisse a capacitarsi del perché non conoscesse anche lei quella canzoncina. Poi riprese: «Tre code di topo e una di serpente, quattro pipistrelli e un ragno senza un dente: e questo è il filtro magico, e questo è il filtro magico. Gira, gira il mestolo, tira su il coperchio. Fuoco, fuoco notte e dì, le streghe fan così».

La ragazza sobbalzò nel sentir nominare i pipistrelli: non ne aveva mai visti, ma li trovava creature disgustose e pericolose. Non credeva a chi diceva che fossero innocui e perfino utili. Sapeva per certo, anche se non capiva il perché, che fossero quanto di più pericoloso esistesse al mondo.

«E i barili svuotano, bevendo a più non posso. Quando si ubriacano, finiscono nel fosso. Gira, gira il mestolo, tira su il coperchio. Fuoco, fuoco notte e dì, le streghe fan così.»

«Thomas, basta!» quasi gridò, Rhoslyn, mentre pronunciava quelle parole con voce stentorea e stringeva con maggior vigore la mano del bambino.

Il piccolo si voltò verso di lei con aria contrita. «Non ti piace?» chiese, serio e dispiaciuto.

«A dire la verità, per niente» rispose la ragazza, cercando di addolcire il tono di voce, senza però riuscirci. Non aveva mai avuto a che fare con streghe, pozioni e magia nera, ma non aveva mai tollerato sentirne parlare. Si teneva ben lontana da film e libri dell’orrore, soprattutto quelli in cui c’erano demoni e fattucchieri.

Thomas s’imbronciò e continuò a camminare in silenzio.

Quando giunsero al parco, il piccolo corse subito a giocare, unendosi ad altri bambini che schiamazzavano intorno a scivoli e altalene: la sua capacità di socializzare era straordinaria e ne rivelava l’animo gentile e il temperamento docile.

Rhoslyn si sedette su una panchina ed estrasse un romanzo, aprendolo dove sbucava il segnalibro: iniziò a leggere, gettando di tanto in tanto qualche occhiata a Thomas, per controllarlo.

Tra una pagina e l’altra, osservò il piccolo avvicinarsi a un bambino pallido, che se ne stava in disparte a osservare gli altri coetanei giocare; lo vide salutarlo calorosamente e dirgli qualcosa, porgendogli la mano: l’altro lo guardò con sufficienza, poi sorrise biecamente a sua volta, ma rimase immobile e non parlò. Thomas sembrò confuso e disorientato da quell’insolita reazione e, ritraendo la mano, si fece indietro.

Rhoslyn tornò a leggere il suo libro, ma, quando rialzò lo sguardo, la sua attenzione fu catturata dal cereo bambino con cui Thomas aveva tentato di fare inutilmente amicizia poco prima: la stava fissando con i grandi occhi neri spalancati, con una malcelata punta di divertimento ad animarli; sorrideva lievemente, in un ghigno che riusciva in qualche modo a essere rassicurante.

La ragazza s’irrigidì e il libro le sfuggì di mano, cadendo sull’erba con un tonfo sordo. Un brivido gelido le corse lungo la spina dorsale, facendola rabbrividire: un terrore soverchiante s’impadronì di lei, un terrore inspiegabile e così intenso da mozzarle il respiro.

Rhoslyn si voltò verso Thomas, e lo vide giocare a palla con altri due bambini: correva e rideva, il viso illuminato da una lieta felicità; la giovane s’alzò in fretta: improvvisamente, sentiva la strana urgenza di raggiungere Thomas e riportarlo a casa, al sicuro. In salvo.

Fece per muoversi, ma una voce alle sue spalle, melliflua e ironica, profonda e in qualche modo familiare, la pietrificò. «E le streghe danzano, la danza con gli uomini, con un rito magico per richiamare i demoni. Scava, scava e recita, firma il contratto. Sangue, sangue notte e dì, i dannati fan così.»

Rhoslyn si voltò di scatto e si ritrovò davanti lo strano bambino pallido; non credeva possibile che la voce appena sentita potesse essere la sua, ma guardandosi intorno non vide nessun’altro.

Lui arricciò le labbra in un sorriso beffardo e i suoi occhi divennero vitrei e completamente bianchi. Un nome si formò nella mente della ragazza, un nome terribile come la maledizione che portava con sé: Aldamoq.

Rhoslyn ricordò, in un subitaneo lampo di consapevolezza, il patto che aveva stretto e il terribile prezzo da pagare per esso. Ricordò le sue vite precedenti, che le affiorarono alla mente repentine, portando con sé la consapevolezza di tutte le morti che le avevano accompagnate e ne avevano sancito la fine. D’improvviso fu perfettamente consapevole che la sua vita ottocentocinquanta stava per giungere al termine, ma soprattutto che stava per giungere al termine l’unica, breve vita di Thomas.

«No, ti prego» implorò Rhoslyn al demone camuffato da bambino.

«Di neonato un femore e di pipistrello un’ala, di pelle raggrinzita un lembo e di sangue una fiala: e questo è il rituale magico, e questo è il rituale magico. Scava, scava e recita, firma il contratto. Sangue, sangue notte e dì, i dannati fan così» canticchiò Aldamoq, dopodiché si scompose in uno stormo di pipistrelli, che s’andò ad aggregare qualche metro più avanti. Così vicino a Thomas.

Rhoslyn cominciò a correre, gridando il nome del bambino, che non sembrava udirla. Nessuno sembra sentirla.

«Aldamoq, non fargli del male: è solo un bambino!» urlò Rhoslyn, accelerando la corsa: non riusciva a coprire i pochi metri che la separavano da lui.

Il demone si voltò a guardarla: aveva riacquistato il suo consueto aspetto e in volto aveva dipinta un’espressione sorniona e appagata, come se stesse godendo profondamente di qualcosa. «E i patti accettano, firmando a più non posso. Quando il prezzo pagano, finiscono nel fosso. Scava, scava e recita, firma il contratto. Sangue, sangue notte e dì, i dannati fan così» cantilenò, dopodiché tornò a essere un indistinto stormo di pipistrelli e volò via, accompagnato da una bieca risata.

Rhoslyn non smise di correre, ma continuò a dirigersi verso Thomas: sapeva che il suo tentativo di salvargli la vita sarebbe stato probabilmente inutile, perché lei era solamente un’insulsa creatura e nulla poteva contro un demone, ma l’idea di perdere quel bambino che tanto amava era straziante e le annebbiava la mente con una sofferenza e, al contempo, una rabbia che laceravano la sua anima immortale.

«Thomas!» gridò la ragazza, ma ancora il bambino non pareva udirla. Rideva e correva dietro alla sua palla colorata.

Continuò a ridere anche mentre la palla cominciava a rotolare lontano da lui, pigra e mossa da una forza invisibile. Continuò a ridere e a inseguirla, mentre rimbalzava quasi stizzita sul manto erboso, diretta fuori dal parco, verso la strada.

Rhoslyn continuava a correre, con l’aria nei polmoni che cominciava a mancare e le gambe doloranti, ma nonostante ciò non riusciva ancora a raggiungere il bambino, anzi: per qualche assurda ragione, lui pareva allontanarsi sempre di più.

Il cuore le batteva talmente forte che credeva le sarebbe esploso nel petto, e l’avrebbe davvero preferito, piuttosto che dover assistere a un’altra, terribile morte di qualcuno che amava. In quel momento, come tutte le volte in cui ricordava, desiderava non aver mai firmato l’accordo. Desiderava poter essere morta di peste mille anni prima.

Si trovava intrappolata in una terribile maledizione che non sarebbe mai stata in grado di spezzare e che non poteva evitare, poiché non ricordava nulla fino al momento di pagarne il prezzo.

Era impotente, impotente e spezzata, e continuava a correre sapendo che sarebbe stato inutile, sapendo che non sarebbe mai stata in grado di raggiungere Thomas e che lui era già morto, ancor prima di morire davvero.

Il bambino seguiva la palla come ipnotizzato, ignaro di dove stesse andando, del perché o del come: era solamente attratto in maniera ossessiva da quell’oggetto, dalla sua forma, dal suo colore, e bramava poterlo toccare, afferrare e stringere.

Rideva e continuò a ridere, anche quando raggiunse la strada, anche quando la palla si fermò al centro esatto della carreggiata e lui poté finalmente raggiungerla e chinarsi per afferrarla con le piccole manine paffute. Continuò a ridere anche quando un’auto sopraggiunse a velocità sostenuta e non rallentò, non tentò di frenare né di schivare il bambino che si stava drizzando, la palla stretta tra le braccia.

Thomas fu investito in pieno e l’urto lo schizzò qualche metro più avanti, dove ricadde inerte sull’asfalto, mentre una macchia di sangue prendeva ad allargarsi sotto di lui. La palla rotolò pigramente verso il ciglio della strada.

Della macchina che aveva investito il bambino non v’era più traccia, come se non ci fosse mai stata.

Rhoslyn s’immobilizzò a quella vista: non aveva bisogno di avvicinarsi per constatare che Thomas fosse morto. Lo sapeva per certo. Cominciò a urlare, gridò talmente forte da farsi dolore la gola e la testa. Urlò mentre i passanti cominciavano ad accalcarsi intorno al corpo senza vita del bambino, inorriditi.

Urlò e pianse, sapendo che nessuno poteva vederla o udirla: già aveva cessato di far parte di quella vita.

«Ti è piaciuto il mio riadattamento della filastrocca?» le soffiò qualcuno all’orecchio, cordiale.

Rhoslyn smise di gridare e si volse rapidamente: il demone la fissava con il suo sguardo profondo e saggio, e un sorriso sardonico a scoprirgli i denti. Furibonda, tentò di colpirlo con pugni e calci, ma ogni volta che entrava in contatto col corpo del demone, lo sentiva impalpabile e inconsistente e lui non pareva accusare i colpi.

«Non essere arrabbiata» mormorò Aldamoq, una piatta calma a distendergli la voce. «Rendi insipido il sapore della tua sofferenza.»

Rhoslyn ricominciò a gridare e prese a menare colpi con maggiore foga. «Io ti ucciderò» urlò, gli occhi sbarrati e arrossati dal pianto. «Giuro che ti ucciderò!»

Aldamoq ghignò di quel suo ghigno in qualche modo rassicurante e rimase a guardarla mentre lei lo colpiva, consapevole di non potergli far nulla, ma accecata da una rabbia talmente profonda, da un dolore talmente intenso, da renderla pazza.

Si gustò la sua sofferenza lentamente, come gli piaceva fare, prosciugandole l’anima. Le reazioni di lei non lo interessavano, le sue vuote minacce lo divertivano. Le aveva chiesto di non arrabbiarsi, per non rovinare il sapore dolciastro del dolore, ma non poteva biasimarla e lui, d’altronde, non era sdegnoso. Non lo era mai stato.

Bevve fino all’ultima goccia di disperazione, assorbì fino all’ultima traccia di sofferenza. E, quando non ebbe più nulla da prendere, disse ciò che le diceva sempre, prima di condurla in un nuovo ciclo: «Il tuo tempo è scaduto. Ci vediamo nella prossima vita.»

Per Rhoslyn fu il buio e l’oblio.

 

 

 

 

Rhoslyn apre gli occhi nella sua vita numero ottocentocinquantuno e non se ne rende conto. Non del tutto, almeno. Non ancora. Sa di aver vissuto altre vite, prima di quella, ma non ne ha del tutto memoria.

Sa solo di poter vivere per sempre e la sua esistenza non le può sembrare più bella di così.

Al contempo, da qualche parte, in una foresta nel cuore della Scozia, intorno all’anno mille, una strega senza tempo attende nella sua capanna, seduta accanto a un camino spento e colmo di cenere. Attende che qualcuno che desidera trovarla varchi la soglia, per fargli un’offerta che non potrà rifiutare.

  
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