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Autore: StellaMarina5500    23/10/2019    1 recensioni
«La goccia di sangue cadde imbrattando il foglio. Si era punta il dito. Stava aspettando un sonno lungo cent’anni come Aurora, che tardava ad arrivare.[…]»
N.B: questa storia è puramente di fantasia, non ci sono riferimenti né a persone né a cose né a fatti esistiti e accaduti realmente.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La goccia di sangue cadde imbrattando il foglio. Si era punta il dito. Stava aspettando un sonno lungo cent’anni come Aurora, che tardava ad arrivare. La bella addormentata era la sua favola preferita, perché la protagonista stava sempre zitta. In tutto il film Disney avrà detto sì e no sedici parole. Però era una principessa, e quindi vissero tutti felici e contenti. Lei invece avrebbe dovuto pulire il tavolo macchiato, buttare il foglio, e parlare con il resto del mondo quando richiesto, altro che sonno e silenzio perenne. Che odio le parole. Quei suoni che assemblati in un certo modo potevano ucciderti l’anima. Che odio, ecco cosa pensava mentre cercava la spugnetta per pulire. La sua Malefica personale l’aveva fatta pungere con delle parole, invece che con un fuso. E le aveva donato l’insonnia eterna. Forse era colpa della legge del contrappasso di Dante. Magari l’attendeva un girone dell’inferno dove avrebbe dovuto parlare e stare sveglia. Che sarebbe finita all’inferno era scontato, forse per il suo cinismo, forse per il suo odio dichiarato verso qualsiasi forma di essere vivente che non fosse la piantina della sua camera, che comunque stava morendo, per cui tanto bene non doveva volere neppure a lei. 
« Come hai fatto a farti male? Hai anche sporcato, pulisci» puntualizzò sua madre, entrando all’improvviso nella stanza e scannerizzando con lo sguardo tutta la situazione: lei accovacciata davanti al mobiletto mentre cercava la spugnetta, imprecando in qualche lingua strana, il sangue sul foglio e il tavolo, la finestra spalancata con la tenda che svolazzava proiettando dei mostri d’ombra sul muro. Lei sbuffò alzando gli occhi: «Mamma, lo so di aver sporcato, secondo te mi accovaccio davanti ai mobili per fare le uova?» 
«Sicuramente saresti più simpatica se fossi una gallina.», e così dicendo la madre scomparve così come si era palesata. 
Avrebbe voluto dire che un tempo non era così scostante con i genitori e con il mondo intero, ma la verità era che dentro di sé lo era sempre stata. Solo, aveva quella fiducia incondizionata nella vita un tempo. Ora, da brava donna vissuta, che neppure aveva sfiorato il secondo decennio di vita, aveva capito che la sua era una stupidità congenita che andava ben oltre l’ingenuità, pertanto era necessario diventare la sfrontata che era dentro, per evitare ogni sorta di botta nei denti, per non dire in altri luoghi. Alla fine era solo una ragazza con crisi adolescenziali, brufoli e drammi intimi grossi come un baobab. Questo amava ripeterselo: non sapeva neppure lei se amasse di più definirsi una crisi con le gambe o se pronunciare baobab ad alta voce. BAOBAB. Che bella parola. Erano le labiali a rendere tutto morbido e avvolgente. Forse baobab si poteva salvare come parola, fra le tante invece incluse nella lista nera. Mentre rifletteva sulla fonetica italiana, osservava con cura il taglietto microscopico che aveva rischiato di farla morire dissanguata e di spedirla dritta dritta davanti a Caronte. Punta con le parole, era il suo modo poetico per dire che si era tagliata con la carta. Prese il foglio, lo rilesse e lo accartocciò, sapendo che in tutta la sua vita non sarebbe mai riuscita a mettere per iscritto certe parole. Era più brava a scrivere i silenzi. 
Il silenzio, nella sua vita, era sempre stato vita e morte. Per il semplice fatto che aveva la meravigliosa capacità di rimanere in silenzio quando invece avrebbe dovuto parlare, e di dare aria ai denti quando avrebbe dovuto tacere. Se avesse detto di no più volte forse non avrebbe desiderato un sonno lungo e, soprattutto, senza sogni. Inutile incolpare il silenzio, sapeva benissimo di amare i casini, quelli enormi, quelli in cui si infilava ogni due femtosecondi. Se lei aveva parlato a volte, era perché era talmente attirata dal guaio in cui si stava cacciando da non poterne fare a meno. Interruppe il flusso di pensieri il rumore sordo che fece la porta richiudendosi. Era il momento dell’autocommiserazione, si disse. Poi rimase in silenzio anche con se stessa. Avrebbe voluto un bell’acquazzone, così se avesse avuto da piangere nessuno avrebbe visto nulla. No, non era vero, sapeva che queste cose accadevano solo nei film. E se la sua vita fosse stata un film, sarebbe stata la brutta copia di un cinepanettone italiano, di quelli che fanno più piangere che ridere per l’obbrobrio che si sta guardando. Sicuramente non sarebbe stato Titanic, anche perché uno come Di Caprio ancora non l’aveva trovato. Passò davanti alla sua gelateria preferita- quella dove aveva preso 6 kg per riempire vuoti incolmabili, soprattutto per via della velocità digestiva del suo apparato digerente- e vide fuori una coppia litigare. Che carini, si amavano. Magari discutevano del colore della tovaglia da comprare nel negozio vicino. Ad un certo punto lui prese il polso della ragazza e lo strattonò. Ora erano meno carini. Si chiese se quello fosse amore. Si chiese se fosse stata la prima volta, se la ragazza fosse consapevole che amore non è violenza. Si ripeteva nella testa tutti gli slogan, femministi e non, contro la violenza sulle donne. Bisogna denunciare. Bisogna andarsene. Amore è rispetto. Se alza le mani non ti ama davvero. Ma qual è la soglia, quand’è che l’amore non è più amore? Lei per fortuna non aveva di questi problemi. Le dispiaceva per quell’altra ragazza. Ma tanto era single, e soprattutto sapeva che lei non sarebbe caduta in una storia così. Era pronta a scappare, nel caso. Lo era sempre stata, pronta, nella vita.
Passò davanti al negozio di musica, da cui fuoriuscivano delle canzoni lontane nel tempo. Le ricordavano la sua infanzia, e la sua stupidità. No, quella era inutile ricordarsela: stupida lo era ancora. Si sedette sulla panchina davanti al fiume. Affacciandosi dal belvedere, si potevano osservare le acque del fiume che scorrevano veloci travolgendo ogni cosa, cinque metri più in basso rispetto alla strada. È un fiume a carattere torrentizio, disse la sua vocina enciclopedica interiore. Forse sapere tutte quelle cose non le era servito a niente. Nessun autore, nessun filosofo, l’aveva messa in guardia da certe parole. E lei c’era cascata, convita della condizione effimera di esse. Invece le parole rimanevano, pungevano, ferivano. Uccidevano. Per avere il suo sonno senza sogni, avrebbe dovuto uccidere quelle parole che navigavano nella sua anima corrotta. Tanto, all’inferno ci sarebbe andata a prescindere, probabilmente tra i lussuriosi, o tra gli ignavi. O tra i suicidi.  
Aveva giocato con il fuoco, e si era scottata. Aveva giocato con le parole, e si era punta. Per lei le parole non erano violente un tempo. Per lei erano solo un gioco, un prendere e un lasciarsi, una lacrima e una carezza. Solo dopo aveva capito che le parole erano coltelli. Lo aveva capito una volta dissanguatasi. Per lei le parole erano solo violenza ormai. Per lei erano mani indesiderate, baci rubati, graffi sul collo, il dolore di un intruso tra le pieghe dell’anima, erano la paura del vicolo buio e il soffocare nella notte, erano il sorriso smorzato e il gelo dei sentimenti. Ma erano solo parole. 
Respirò a pieni polmoni quell’aria frizzante. Era questa la vita? Non poter dormire mai, per aver perso al gioco dell’esistenza? Avrebbe dovuto lasciarsi tutto alle spalle, e portarsi con sé solo la sua antipatia che ben allontanava tutti, la sua fissa per le regole, perché aveva capito che a non rispettarle ci si fa male, la sua saccenteria, che forse l’avrebbe difesa dalle impreparazioni della vita. 
Che stupida quella ragazza affacciata alla balaustra del belvedere, che aveva permesso che le venisse violata l’anima. Che stupida, pensava, mentre si sporgeva con il corpo verso quelle acque riottose. Avrebbe dormito, senza sogni.
Una farfalla le volò davanti al viso. Sorrise. Scavalcò il parapetto e tornò sui suoi passi, diretta verso la gelateria. In fondo, la vita ci ferisce, ma qualcuno ha inventato il gelato per guarirci. 
   
 
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