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Autore: Naco    25/10/2019    1 recensioni
Quando la sua professoressa di tesi propone a Lucia - seria e coscienziosa laureanda in Lettere - di dare ripetizioni di francese al proprio figlio, la ragazza capisce subito che, accettando, rischia di cacciarsi in un mare di guai: Giulio Molinari è il classico figlio di papà che pensa solo alle ragazze e assolutamente disinteressato a costruirsi un futuro Insomma, il tipo di persona che lei detesta.
Ma è davvero così impossibile che due persone così diverse possano avvicinarsi? In una girandola di battibecchi, scontri e incomprensioni, tra parenti ficcanaso e fedeli amici, tesi da preparare e lezioni di francese da seguire, Lucia e Giulio si renderanno presto conto che non sempre l’altro è poi così diverso da noi e che, forse, la nostra anima nasconde un ritratto molto più bello di quello che noi preferiamo mostrare agli altri.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Agli amici che ho incontrato lungo il cammino,
ai colleghi che mi hanno supportato,
a quei luoghi che mi hanno vista crescere e maturare.
Questa storia è dedicata a voi.


Il ritratto dell’anima


I


Domenica.
Il giorno più amato da qualsiasi persona normale; il giorno del Signore, secondo i cristiani; il giorno del riposo e basta, per coloro che hanno una settimana piena di impegni e desiderano apprezzare appieno il relax di una giornata senza lavoro o senza studio.
Il giorno della mia morte, per quanto mi riguardava.
Cioè, non è che fossi una stacanovista e odiassi il fatto che, almeno di domenica, potessi starmene a casa e non essere costretta ad alzarmi presto per essere all’università per le otto e mezzo. Quando ero a Bari, anche io riuscivo ad apprezzare con pienezza le gioie di una giornata di ozio; tuttavia, questi lati positivi scomparivano nell’esatto momento in cui mettevo piede nel mio paese natio per far visita ai miei.
Da imprecisate generazioni, la mia famiglia è molto numerosa. Il mio bisnonno materno ebbe quattordici figli, tutti da una sola donna; sua figlia, per seguire il buon esempio paterno, ne ebbe dodici, di cui però solo nove sopravvissero ai primi anni di vita; anzi, ero abbastanza sicura che ne avrebbe avuti anche di più, se mio nonno non fosse morto in un tragico incidente e lei avesse deciso di restargli fedele per tutta la vita. I suoi figli, più moderni e decisi a lasciar perdere queste stupide tradizioni, avevano preferito fermarsi a massimo tre. Questo comunque voleva sempre dire che eravamo una trentina di nipoti di età varia, per ovvie ragioni.
Mia nonna era una donna alquanto energica e attiva, forse appunto perché era rimasta vedova presto, con tutti quei figli cui badare. Poco le importava che l’età avanzasse, che gli acciacchi iniziassero a farsi sentire e che il medico la implorasse di mangiare meno dolci per il diabete: ogni domenica, voleva che i suoi amati figli, cognati, nipoti e pronipoti andassero a pranzo da lei. Di solito, facendo a turno, ma capitava anche che i suoi inviti coinvolgessero tutti quanti, soprattutto durante le feste o quando le andava di provare una nuova ricetta che le aveva insegnato la vicina di casa della nipote della cognata di quindicesimo grado. Con consuoceri appresso, sia mai che potessero offendersi.
Ora, se avessi avuto dei parenti simpatici, attivi, intelligenti e che si facessero i fatti propri, sono sicura che queste riunioni avrebbero anche potuto piacermi. Se avessi avuto, appunto. Invece, ahimè, mi era toccata in sorte una famiglia che era esattamente il contrario.
Infatti, nel paese in cui ero nata – non molto grande, con una mentalità tanto antiquata che persino un uomo del Medioevo l’avrebbe giudicata obsoleta – la massima aspirazione per una donna media era quella di trovare un marito e mettere al mondo della prole in buona salute. Nella stragrande maggioranza dei casi tra i venticinque e i trent’anni, età in cui la maggior parte delle donne avevano almeno un paio di figli da crescere. Per quelle povere derelitte che non avrebbero potuto soddisfare il tanto agognato obiettivo entro quel lasso di tempo, c’erano solo occhiate di scherno e battutine.
Com’è ovvio, i miei parenti condividevano questa mentalità così aperta dei propri compaesani. La qual cosa era anche abbastanza logica, quando si trattava della generazione cui apparteneva mia nonna; tollerabile, se passiamo a quella successiva; inconcepibile, quando arriviamo alla terza, cioè a quella di cui facevamo parte io e l’ottanta percento dei miei cugini.
Perciò penso che possiate ben immaginare cosa volesse dire trascorrere un’intera giornata con gente simile per una ragazza abituata a vivere in una grande città e che non solo non era ancora sposata e non aveva un fidanzato, ma non ne cercava neanche uno, preferendo dedicarsi a qualcosa di molto più costruttivo per il proprio futuro.
Si può quindi comprendere molto bene lo stato in cui mi trovavo quella domenica di inizio maggio, poco meno di due mesi prima del mio venticinquesimo compleanno, quando mi ritrovai a suonare il citofono dell’appartamento di mia nonna, il cervello che continuava a urlarmi di tornare indietro e inventarmi qualsiasi scusa, purché mi facesse restare il più lontano possibile da quel luogo.
Per mia sfortuna, qualcuno fu più tempestivo di me e i miei possibili piani di fuga furono bloccati sul nascere dalla porta che si apriva.
«Oh, chi si vede dopo tanto tempo! Ciao Lulù, come stai?»
Maledissi me stessa per non essere stata più lesta: perché la prima persona che dovevo trovarmi davanti era niente popò di meno che Emanuele, l’unico cugino della mia età, sposatosi l’anno prima? Sebbene da piccoli fossimo stati compagni di giochi, erano anni che i nostri rapporti non andavano oltre la tolleranza reciproca. Da quando poi, qualche anno prima, gli avevo detto chiaro e tondo che la sua ragazza di allora aveva fatto benissimo a lasciarlo perché solo un porco poteva andare a letto con due migliori amiche, erano peggiorati ancora di più: ormai tra di noi non c’era conversazione che non avesse un doppio, ma anche triplo e quadruplo significato nascosto. Per esempio, sapeva benissimo che detestavo essere chiamata così: quando ero piccola, in televisione spopolava un cartone animato intitolato Lulù, angelo tra i fiori e i miei compagni di classe iniziarono a soprannominarmi in quel modo proprio perché ero l’opposto di quella ragazzina così buona gentile e zuccherosa.
Son traumi che restano, eh.
Perciò, a un’analisi più attenta, la traduzione del suo educatissimo saluto poteva essere benissimo: guarda chi si vede, Lucia la zitellona! Ancora niente fidanzato, eh?
«Ciao Lele. Benissimo, grazie. Venerdì ho dato il mio ultimo esame, che è andato benissimo, grazie, e quindi non sono potuta scendere prima.» Che nel nostro linguaggio voleva dire più o meno: ciao stronzo (anche lui detestava quel nomignolo perché gli ricordava il protagonista di Un medico in famiglia a cui somigliava in modo impressionante, a parte che per il colore degli occhi, e che non sopportava per ragioni non molto diverse dalle mie), per tua gioia sono ancora single, ma ho preso trenta e lode all’ultimo esame prima di ottenere la laurea magistrale in filologia classica. A differenza tua, che non hai un lavoro, vivi sulle spalle dei tuoi genitori e dei tuoi suoceri e a mala pena hai preso la maturità, visto che eri troppo interessato ad andare dietro alle gonnelle delle ragazze.
«Oh, bene.» Annuì con un sorriso alquanto forzato e alla fine si scostò per lasciarmi passare.
Nei mesi in cui ero stata via, la casa di mia nonna non era cambiata di una virgola. In realtà, dacché ricordavo, lei non aveva mai apportato migliorie alla sua abitazione: come tutte le persone anziane detestava la tecnologia e aveva comprato il televisore e la lavatrice solo perché la prima, aveva ammesso, le teneva compagnia e la seconda perché l’acqua era inquinata, non poteva più lavare i panni a mano come una volta!
Quando mio zio le aveva regalato il digitale terrestre, aveva replicato che tanto lei sarebbe già stata tumulata prima che ne avesse avuto bisogno, quindi di prenderselo lui, ché era ancora giovane. Quando il digitale era diventata una realtà e lei aveva capito che doveva per forza adeguarsi se voleva sul serio continuare ad avere quella vecchia compagna così rumorosa, aveva borbottato per almeno un mese che la fine del mondo era davvero vicina se lei, che aveva cresciuto da sola nove figli e ne aveva concepiti dodici, aveva dovuto sottomettersi a un aggeggio del genere.
Ed eccola lì, piccola come la ricordavo, intenta a innaffiare e a chiacchierare con il suo amato rosmarino, il motivo per cui, benché ogni volta ripromettessi a me stessa che non mi sarei mai più presentata a quelle riunioni di famiglia neanche per tutto l’oro del mondo, capitolavo ogni volta.
«Ciao, nonna. Ciao, signor Rosmarino!» la salutai prendendola in giro.
«Lulù, cara!» Mia nonna si alzò con più fatica di quel che ricordassi, spolverandosi in tutta fretta la terra di dosso e mi baciò raggiante. «Come stai? Sei dimagrita, cara. Ma ti danno da mangiare lì?»
Risi: mia nonna era l’unica persona cui permettessi di chiamarmi Lulù. La prima volta che le avevo raccontato il perché odiassi quel soprannome, lei mi aveva preso in braccio e «Ma tu sei un angelo. Il mio» mi aveva detto e da allora aveva usato sempre quel nome.
«Non ti preoccupare nonna: mangio benissimo e sempre alimenti sani. Nell’ultimo periodo ho solo avuto tanto da fare con lo studio.»
«Brava ragazza. Ma non stancarti troppo!»
Della nonna non portavo soltanto il nome, ma le somigliavo anche: gli stessi occhi nocciola, gli stessi crespissimi capelli scuri, che ormai le erano diventati del tutto bianchi, le stesse dita affusolate, la stessa testardaggine. Forse era questo il motivo per cui ci volevamo così bene, anche se spesso non concordava con le mie scelte; tuttavia, proprio perché avevamo lo stesso carattere, lei si rendeva conto che era inutile cercare di farmi cambiare idea su qualcosa: io l’avrei fatta in ogni caso. Era anche l’unica a non fare strane battute sul fatto che non avessi un ragazzo: nonostante anche lei avrebbe voluto vedermi arrivare con la lieta novella, era anche conscia del fatto che la vita era mia e dovevo viverla come preferivo.
Questo, però, non voleva dire che non sperasse che un giorno le portassi la bella notizia. E infatti: «E per il resto, come va?» s’informò.
Anche il suo quesito aveva una precisa traduzione, ed era la stessa di quella di Emanuele. Solo con tanto affetto, preoccupazione e interesse in più.
«Bene, nonna.» Anche la mia traduzione era la stessa, senza ironia e cattiveria.
Mia nonna tornò al suo rosmarino dandomi le spalle e sospirando. «Proprio non ce la farò a vederti sistemata prima di morire, eh?»
Mi chinai ad aiutarla. «Nonna, io sono felice così, lo sai. E comunque, non dire sciocchezze: tu sotterrerai un sacco di gente qui!»
Lei sorrise triste. «Spero tanto di no, cara. Io ho vissuto anche troppo ed è ora che il Signore mi faccia tornare con tuo nonno. Prima, però, volevo vedervi tutti accasati.»
«Nonna, dimmi una cosa. Tu la vedresti una come me a fare la casalinga, a preparare la cena per un marito che torna tardi dal lavoro… e soprattutto, la vedresti una come me con un marito?»
I suoi occhi nocciola mi scrutarono con attenzione.
«Devo essere sincera? No.»
«Visto?» risposi ridendo.
«Anche io da giovane dicevo le stesse cose a mia madre, sai?»
Ero sorpresa: mia nonna non me l’aveva mai detto. «E come mai scegliesti di sposarti con il nonno?»
«Come sarebbe? Perché mi innamorai di lui, ovvio!»
Rimasi interdetta. «Non fu un matrimonio combinato, il vostro?»
Mia nonna mi fissò quasi scandalizzata: «Certo che no! Non avrei mai permesso ai miei genitori di rovinarmi la vita in quel modo. Verso i sedici anni avevo persino pensato di scappare di casa, prima che i miei genitori pensassero di potermi far sposare con qualche tizio mai visto prima. E poi…»
«Poi?» incalzai sempre più curiosa: era la prima volta che mia nonna si lasciava andare a quelle confidenze. Ero sempre stata convinta che anche il suo matrimonio fosse stato voluto dai suoi genitori per accaparrarsi un buon partito, come quello dei miei prozii.
«Poi conobbi tuo nonno. E capii che da lui non sarei mai fuggita.»
«E come mai?»
«Semplice: era l’unico capace di tenermi testa.» Sorrise e i suoi occhi si illuminarono di una nuova, bellissima luce.


Nelle riunioni al gran completo a casa di mia nonna, come si può ben immaginare, eravamo più o meno una cinquantina di persone, appartenenti a tre, ma anche quattro generazioni differenti.
Quando ero piccola, gli uomini si mettevano nel salone, a parlare di “cose da grandi”; le donne restavano in cucina, a spettegolare sul figlio del nipote del cognato della cugina di terzo grado che aveva sposato la figlia del cugino dello zio del medico dell’amica della zia, ma che avrebbe potuto scegliere benissimo la sorella della nipote del macellaio se la ragazza non avesse preferito il figlio del commesso del supermercato (notizia che la zia aveva saputo dalla cognata dello zio del collega del famoso commesso, quindi una fonte più che attendibile); i bambini, invece, si divertivano a rincorrersi intorno al tavolo o in giardino, quando le temperature lo permettevano.
Con il passare degli anni, quella tradizione non era mai cambiata, ma solo evoluta: i piccoli di tanti anni fa si erano uniti ai grandi e i nuovi pargoli avevano abbandonato i vecchi giochi per dedicarsi alla nuova tecnologia.
Quanto a me, visto che dei pettegolezzi di paese non mi era mai importato granché, men che meno adesso che vivevo a Bari, tirai fuori il mio libro dalla borsa e mi posizionai sul dondolo in giardino per godermi quel bellissimo pomeriggio di sole.
Ero immersa nella lettura quando, all’improvviso, qualcosa mi fece ombra e fui costretta ad alzare la testa per vedere chi fosse. Fissai perplessa Emanuele che guardava con uno strano interesse il libro che avevo in mano.
«Cosa leggi di bello, cugina?»
Quando Emanuele si rivolgeva a me con quel tono così gentile, significava che voleva che gli facessi un favore. E che la richiesta non mi sarebbe affatto piaciuta.
«Da quando sei interessato ai libri?» lo rimbeccai invece io con un tono volutamente acido; Emanuele, però, non parve per nulla impressionato dalla mia reazione.
«Posso sedermi?» mi chiese invece e, senza aspettare la risposta, si accomodò accanto a me. D’istinto mi scostai da lui guardinga: si trattava di una cosa lunga, quindi.
Chiusi il libro con un tonfo nel quale speravo si avvertisse tutta la mia disapprovazione, ma lui fece finta di non accorgersene.
«A cosa devo tanto interesse nella mia persona da parte tua, cugino?»
«A niente in particolare, se devo essere sincero. Pensavo solo che la vita in città ti ha resa più… indipendente, ecco. E più bella.»
Ora sì che stavo cominciando ad agitarmi: Emanuele che elargiva a me dei complimenti a cui era chiaro non credeva neanche lui? C’era sotto qualcosa di davvero importante.
«Se questo complimento provenisse da qualcun altro, ne sarei lusingata. Ma siccome me l’hai fatto tu, sono sicura che nasconde qualcosa: hai intenzione di dirmelo subito o vuoi proseguire ancora per molto con questa pagliacciata?» tagliai corto.
Contro qualsiasi previsione, Emanuele rise, compiaciuto dalla mia reazione. «Esattamente quello che mi aspettavo da te, cugina. E io che sono venuto in pace!»
Lo guadai torva: «Dimmi che diavolo vuoi e lasciami leggere in pace!»
Per tutta risposta, Emanuele si stiracchiò e si sistemò meglio sul dondolo, per nulla intimorito dal mio tono acido. «Durante il nostro breve saluto, se non ricordo male, mi hai detto di aver finito gli esami, giusto?»
Annuii con circospezione.
«Quindi, presumo che ti fermerai per qualche giorno in più, adesso che sei più libera…»
«A dire il vero no, riparto stasera: sto lavorando alla tesi e in biblioteca ho tutto il materiale che mi serve».
«Oh, certo. Non ci avevo pensato!» alzò le mani in segno di resa. «Però sicuramente sarai più libera rispetto a quando, oltre a scrivere la tesi, preparavi anche gli esami…»
Assentii ancora una volta, cercando di intuire dove volesse andare a parare.
«… e inoltre, da quanto ho capito, le sedute di laurea non sono così impellenti, quindi non hai tutta questa urgenza, adesso…»
Feci cenno di sì ancora una volta, aspettando al varco la fregatura. Com’era possibile che un idiota come lui, che non azzeccava un congiuntivo neanche per sbaglio e che a mala pena sapeva cosa fosse un’università, fosse addirittura a conoscenza di quando si sarebbero tenute le successive sedute di laurea? E, soprattutto, cosa gliene importava?
Di colpo, però, Emanuele cambiò discorso. «Non so se lo sai, ma… io e Laura aspettiamo un bambino!»
Oh. No, nessuno me l’aveva detto. Non che la cosa m’interessasse, devo ammetterlo. Voglio dire, Laura era una ragazza simpatica, molto dolce e gentile, l’unica persona che potesse anche solo sopportare un idiota sbruffone come mio cugino insomma, e conversare con lei era piacevole, ma… non è che ci sentissimo tutti i giorni e ci raccontassimo i nostri segreti. Cos’è, voleva farmi sentire inferiore perché lui ormai era quasi padre e io ancora una zitella? O voleva prenotarmi come madrina del bambino, magari nella speranza che facessi un cospicuo regalo al pargolo? Trattandosi di lui, non ne sarei stata affatto stupita.
«Non ne ero al corrente. Beh, congratulazioni!»
«Grazie, grazie. Devo dire che questa storia di diventare padre mi ha spinto a mettermi in gioco. È ora che prenda in mano la mia vita, mi sono detto, che mi trovi un lavoro, anche per il bene di mio figlio.»
Cominciai sul serio a pensare che la paternità lo avesse reso più maturo, ma lo conoscevo troppo bene per abbassare la guardia.
«Complimenti. La cosa ti fa onore.» Anche se avresti dovuto iniziare a pensarci prima di sposarti!
«Quindi! Ho iniziato a inviare il mio curriculum in giro…»
«Aha. E hai ricevuto risposte?»
«Beh…» si sistemò la frangia che gli ricadeva sull’occhio e io ebbi la certezza che fosse arrivato al nocciolo della questione. «Devo ammettere che ho preferito allargare i miei orizzonti e mandare la domanda ad aziende diverse da quelle della zona. E ho fatto bene: un’azienda mi ha chiamato giusto venerdì per un colloquio!»
«Oh, bene! Sono molto contenta per te e per Laura. E per quale azienda, se non sono indiscreta?»
«Non so se la conosci. È una ditta di trasporti di Bari, si chiama…»
Un campanellino d’allarme iniziò a suonare con forza.
«A Bari?»
«Certo. Mi sono detto “Perché non inviare il curriculum in una città in cui conosco qualcuno? Così, se vengo assunto e io e Laura decidiamo di trasferirci, lei non si sentirebbe sola, ma avrebbe accanto qualcuno che conosce! E la mia cara cugina sarebbe di sicuro felice di avere vicino qualcuno del suo paese!” Ho spiegato la mia idea a Laura e lei ne è stata subito entusiasta.»
«Non lo metto in dubbio. Quindi, ti trasferirai a Bari?»
«Oh, sono stato chiamato solo per il colloquio, non è detto che vengo assunto!»
“E conoscendoti, penso che non lo sarai mai!” pensai, ma mi guardai bene dal dirglielo. Tuttavia, non riuscivo a comprendere che cosa volesse da me: non pensava certo che li avrei fatti vivere a scrocco a casa mia, vero?
«E io cosa posso fare per te?» preferii essere diretta.
«Ecco, mi chiedevo… dato che risolvere tutto in giornata sarebbe molto faticoso, puoi ospitarmi a casa tua almeno per una notte?»



Note dell’autrice
Ciao a tutti! *_* Come state? È da una vita che non pubblico in questa sezione - negli ultimi anni mi sono dedicata per lo più alle fanfiction - ma poi un giorno i protagonisti di questa storia mi sono apparsi e non se ne sono andati dalla mia testa finché non ho messo nero su bianco le loro avventure. E così, eccomi qua.
In realtà, questo racconto ha già un paio d’anni e ammetto di averci pensato molto prima di pubblicarlo: anche se narra una vicenda inventata e parla di personaggi che non esistono, si tratta comunque di una parte importante di me, perché racconta di luoghi a me cari e di anni che mi sono rimasti nel cuore. Ma alla fine mi sono detta che non aveva senso tenerla nel mio hard disk, quando potevo condividerla anche con altre persone. Ammetto però che renderla pubblica mi rende più nervosa del solito, perciò mi auguro davvero che questa storia vi piaccia almeno la metà di quanto io ho amato scriverla.
   
 
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