Film > The Avengers
Ricorda la storia  |      
Autore: _Lightning_    03/11/2019    4 recensioni
Svolta l’angolo con passo baldanzoso, stringendo con troppa forza la scatolina di plastica oblunga con entrambe le mani. Ben strette, quasi contratte, ad avvolgerla in sicurezza evitando cadute e scivoloni imprevisti. Non nella tasca della giacca, quella Armani in cui si muove con la massima delicatezza per non spiegazzarla: sarebbe troppo imprudente metterli lì, così come lasciarli nella borsa di cuoio che gli batte ritmicamente sulla schiena. No, il posto più sicuro è proprio lì, tra le sue mani, le stesse che li hanno creati.
[post-Ultron // pre-Civil War // Missing Moment]
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Last time symphony [1]
 
 




Febbraio 2016, Stark Industries, Los Angeles

 
Sono perfetti. Sono perfetti. Sono assolutamente perfetti.

Imbocca a passo di marcia il corridoio luminoso, sorpassando le vetrate di uffici e laboratori ordinatamente schierate su entrambe le pareti. Uomini in giacca e cravatta stinti o avvolti in camici candidi gli rivolgono occhiate distratte, chini sui propri esperimenti e scartoffie.

Sorride tronfio, impettito nel proprio completo nuovo, sentendosi lontano da quella dimensione racchiusa in teche di vetro come topolini da laboratorio intrappolati. Svolta l’angolo con passo baldanzoso, stringendo con troppa forza la scatolina di plastica oblunga con entrambe le mani. Ben strette, quasi contratte, ad avvolgerla in sicurezza evitando cadute e scivoloni imprevisti.

Non nella tasca della giacca – quella Armani in cui si muove con la massima delicatezza per non spiegazzarla: sarebbe troppo imprudente metterli lì, così come lasciarli nella borsa di cuoio che gli batte ritmicamente sulla schiena. No, il posto più sicuro è proprio lì, tra le sue mani, le stesse che li hanno creati.

Accelera il passo e s’infila nell’ascensore un attimo prima che si chiudano le porte, rivolgendo un sorriso all’impiegata che le ha rallentate. Non può evitare che assuma una certa sfumatura di sufficienza, un’inclinazione di poco inferiore al disprezzo mitigata solo dal suo volto pulito.

Perché lui non è certo a quel livello. È un genio, un genio che sta per ricevere la sua giusta ricompensa da un suo pari.

Stringe più forte la scatoletta e conta i piani che scorrono sul piccolo display incassato nella parete metallica. Si fermano altre tre volte prima di arrivare al cinquantesimo, caricando e scaricando gente anonima; quando finalmente si arresta a quello giusto, schizza fuori prima ancora che il trillo dell’ascensore si dissolva del tutto.

Si ferma trafelato dopo aver percorso un altro paio di corridoi, in quella che sembra una piccola saletta d’attesa. Poltroncine di pelle nera lungo le pareti, piante d’appartamento, un bancone della reception incustodito, un tavolino di vetro che offre caramelle multicolori in ciotole di Murano. Sulla parete di fondo, una semplice porta bianca priva di qualsivoglia indicazione, appena socchiusa.

Sente una voce maschile provenire dall’interno, la riconosce e quasi si scioglie per il sollievo.

È un miracolo che sia qui, considerando quanto è stato sfuggente negli ultimi mesi e quanti appuntamenti mancati abbia rifilato a destra e a manca. Ma lui si merita di essere ricevuto senza impedimenti, vista la portata di ciò che vuole presentargli.

La voce s’impenna all’improvviso, apparentemente alterata, e coglie senza volerlo le ultime parole:

«… sì, è per la Sokovia…»

La voce scivola nuovamente in un volume che rende le sue parole indistinguibili, e lui si avvicina di mezzo passo, suo malgrado incuriosito e attratto dalla porta socchiusa come di fronte a un passaggio segreto. Con una mezza idea di carpire qualche informazione utile, qualche stralcio di gossip esclusivo. Ci sono giornalisti che pagano fior di quattrini per un sussurro proferito al momento sbagliato, e lui ha l’etichetta del completo col suo prezzo inabbordabile che gli punge il retro del collo, fastidiosa.

«… no, non torno a Malibu… Come sarebbe a dire? Sì, lo so che giorno è, ma non posso, te lo sto…»

Si ferma proprio dietro la porta socchiusa, concentrandosi intentamente sul flusso di parole ora ben distinguibile, e rigira la scatoletta tra le mani, col nervosismo che gli fa fremere i piedi. Un po’ troppo, e fa stridere inavvertitamente la suola delle scarpe contro il pavimento lucido.

«… non ho voglia di discutere, Peps, sono… Bambi?[2]» dice poi, a voce più alta, e adesso è chiaramente rivolto verso la porta, attratto dal rumore.

Dall’altro lato, lui prende un respiro secco e superficiale, col discorso che si è preparato la sera che si sfalda nel nulla, e bussa alla porta con molta meno energia di quanto volesse.

«Signor Stark?» si annuncia, con voce che non nasconde del tutto la trepidazione. «Sono Quentin Beck, le ho chiesto appuntamento qualche giorno fa,» continua, evitando di menzionare il fatto che non ha esattamente ricevuto una sua conferma in proposito.

C’è un breve silenzio dall’altro lato, una bolla che scoppia quando Stark parla di nuovo:

«Ti richiamo dopo, ora sono occu– Pepper? Cristo,» lo sente imprecare tra i denti e posare di malagrazia qualcosa, immagina il telefono, sulla scrivania. «Prego, signor Beck, entri pure,» dice poi in fretta, e tra le linee di cortesia preconfezionata c’è una tinta d’irritazione.

Quentin spinge la porta, entrando nell’ufficio di Stark. È del tutto anonimo, privo di qualsivoglia tratto distintivo. Non sembra comunque il tipo che vi passa molto tempo. Tony Stark è lì in piedi di fronte a lui, più basso di quanto gli fosse sembrato, con un paio di occhiali da sole arancioni appuntati sul naso e… ed è tutto, meno che elegante. Ha addosso un paio di jeans neri scoloriti sulle ginocchia e una giacca casual con sotto una maglietta con… con la stampa di un Uomo Vitruviano che suona la batteria?

Quentin batte le palpebre e sente il completo Armani grigio che gli va improvvisamente stretto, l’etichetta aguzza che gli si conficca nel collo e la cravatta scura che si fa soffocante. Stark fa spallucce, realizzando al volo l’assurdità della situazione, e gli tende poi la mano con disinvoltura.

«Vengo direttamente dal laboratorio: non sono uno che tiene alle formalità,» esordisce, e Quentin ricambia il gesto in modo quasi meccanizzato.

Nonostante l’aria gioviale e amichevole, Stark sembra quasi sbrigativo. Anche la sua stretta non è salda come si era aspettato. È distratta, frettolosa, così come il gesto che lo invita ad accomodarsi nella poltroncina di fronte alla scrivania. Lui si lascia cadere un po’ scompostamente dall’altro lato, guardando di sfuggita il telefono abbandonato sul piano invaso di scartoffie. Molte sono firmate in modo frettoloso, quasi uno scarabocchio a piè di pagina, e c’è la una busta di Burger King appallottolata in un angolo in mezzo a quelli che sembrano dossier dall’aria ufficiale, a giudicare dall’aquila stampigliata sulla copertina.

Quentin realizza di essere fissato, ed evidentemente Stark si aspetta che lui parli per primo. Lui cerca di recuperare gli stralci di discorso semi preparato della sera prima, che ha più o meno recitato a se stesso senza esserne del tutto soddisfatto.

«Signor Stark, è un onore conoscerla di persona,» esordisce, gonfiando il petto e facendo affiorare un sorriso esercitato.

Stark fa un gesto vago con la mano, come a respingere quell’apprezzamento a mezz’aria prima che possa raggiungerlo.

«Saltiamo i convenevoli, purtroppo il tempo è tiranno,» dichiara, con un mezzo sorrisetto che non si completa e le dita che tamburellano ritmicamente sul bordo della scrivania. «Lei è quello del dipartimento ricerca, giusto? È stato molto… veemente nel richiedere questo incontro e mi ha di fatto incastrato: di cosa voleva parlarmi con così tanta urgenza?» lo sprona, senza attendere risposta alla prima domanda.

Quentin si affretta a poggiare davanti a lui la scatolina di plastica verde e recupera intanto la borsa di cuoio, estraendone la preziosa cartellina del medesimo colore. Stark segue i suoi armeggi mentre apre subito la custodia, rivelando all’interno il congegno oculare: due lenti rotonde semiopache, dalla montatura spessa, connesse da un raccordo d’acciaio e con altre due lenti più piccole sulle stanghette all’altezza delle tempie che coprono la visione periferica.

Gli sembra di cogliere una scintilla d’interesse sul volto di Stark, mentre li solleva per il ponte del naso, studiandoli da varie angolazioni con occhi attenti.

«Uh, questo dev’essere il famoso “progetto arenato” che lei ha “rimesso in moto” con una “brillante intuizione”,» commenta, ambiguo, ma ripetendo le esatte parole che gli ha scritto via mail… il che significa che vi ha prestato attenzione e gli sono rimaste impresse.

«Esatto. Per ora sono i Retro-IMB-Amp, in… mancanza di un acronimo migliore,» annuncia Quentin, con un tremito d’orgoglio e nervosismo assieme. «Ovvero, Retro-Inquadratura Mnemonica Binaria Ampliata,» aggiunge rapido, tirando le labbra.

«Mh,» sbuffa appena Tony, e gli si dipinge in volto un’espressione pensosa mentre sembra ponderare quel nome. «Nah, anche “RIMBA” non suona tanto meglio… dovremo lavorarci. E anche sulla parte estetica,» dice, riponendo l’astruso congegno e aprendo poi la cartella con un moto di curiosità. «Caspita: mi reputo disordinato, ma qui abbiamo un nuovo record,» commenta poi, sollevando un foglio ricolmo di formule, calcoli e schemi quasi sovrapposti tra loro che non aveva avuto modo di elaborare al computer.

Quentin si agita sul suo sedile, le mani strette rigidamente sulle ginocchia.

«Sì, divento… caotico, quando sono preso da un progetto. Credo possa capirmi,» dice, umettandosi le labbra secche. «Insomma, tra geni ci si intende, quindi ho pensato che non fosse un problema presentarle parte delle schematiche nella loro… forma originaria,» dice, con naturalezza e un’alzata di spalle, accennando un sorriso un po’ complice.

Stark a quel punto lo fissa da sopra il bordo degli occhiali, con occhi improvvisamente acuti, e Quentin quasi esulta beffardamente per aver finalmente attirato l’attenzione di qualcuno che, con tutta evidenza, si è fin troppo abituato ad avere a che fare con dèi e supereroi per dar retta alla gente comune.

Solo che lui non è affatto comune; deve solo realizzarlo anche Stark.

«Già,» si limita a dire lui, piattamente.

Torna a studiare il progetto su carta, le sopracciglia contratte per l’interesse e un gomito puntato sul bracciolo mentre apre e chiude ripetutamente il pugno sinistro a mezz’aria.

«Ha ripreso la circuitazione interna delle pistole ultrasoniche che fabbricavamo… quanto, dieci anni fa? Sono andate fuori commercio nel giro di poco, grazie a Dio… troppo pericolose [3],» osserva poi, apparentemente incupito, e Beck si sorprende che le abbia riconosciute in modo così immediato.

«Sì, esatto ho… riesumato dei vecchi, vecchissimi progetti. Non tutto ciò che si scarta è davvero da buttar via e la parte relativa agli ultrasuoni è stata fondamentale per sviluppare il miglioramento degli occhiali, in quanto riescono ad agire e interagire su…»

«… sul sistema nervoso, sì, le conosco molto bene,» completa Stark, e si sfrega sovrappensiero l’orecchio, scrutando torvo gli occhiali. «Possono indurre paralisi, e questi valori non mi sembrano rientrare nei range di sicurezza,» osserva poi, spiegando un foglio tra loro con l’indice puntato fermamente su una tabella.

Quentin arriccia la fronte, corrugando appena le sopracciglia a mo’ di scusa per quel dettaglio.

«È necessaria una lieve taratura, ma a questa frequenza si ottiene la massima efficacia, e poi non è questo il pezzo forte, è solo un ostacolo che ho scavalcato nel modo più rapido possibile,» si affretta a spiegare, senza poter evitare di esaltarsi solo a parlare della propria conquista. «Il pezzo forte è il sistema olografico,» conclude, sfilando un foglio da sotto la risma accatastata nella cartella.

Stark vi concentra lo sguardo per appena pochi secondi, e sembra incamerare le informazioni che lui ha elaborato in nottate intere nel giro di quel breve lasso di tempo. Sente un pizzico d’invidia pungerlo nello stomaco: vorrebbe anche lui una memoria fotografica del genere, e Stark sembra sfruttarla a malapena per produrre fotocopie della stessa armatura.

«Scenografico, semmai,» commenta il presunto genio, lentamente, e adesso risulta un po’ contrariato.

Sembra riflettere in sordina su qualcosa, come se stesse cercando di incastrare un componente mancante in un macchinario in funzione, e Quentin si morde la lingua, sentendosi in bilico per quel suo improvviso ritrarsi.

«È un po’ sopra le righe anche per i miei standard.» continua poi, schioccando piano la lingua e stringendosi i gomiti in una posa pensosa, ancora fisso sui progetti. «Ottimo in una conferenza per impressionare gli animi sensibili, un po’ meno adatto per chi deve vedersela con brutti ricordi già troppo vividi che sarebbe meglio mettere sottochiave con un lucchetto in vibranio,» conclude, parlando svelto e storcendo appena il naso.

«Ho pensato a tutte le possibili applicazioni, non solo terapeutiche,» ribatte Quentin, raddrizzando le spalle in un moto che contiene una traccia d’irritazione: che importanza hanno quelle sottigliezze, adesso? L’importante è che funzionino. «Non bisognerebbe limitarsi a un solo campo d’applicazione, no?»

Un’altra occhiata scoccata da sopra il bordo di quegli occhiali ridicoli, fulminea.

«Mmsì, vedremo. Comunque, è fattibile,» borbotta Stark, scorrendo rapido i fogli successivi senza badarvi più di tanto, quasi impaziente.

Si sofferma solo più intentamente – un paio di secondi, non di più – su uno schizzo del giroscopio olografico a immersione [4], e tira le labbra prima di richiudere la cartellina, coi fogli riposti alla rinfusa che Quentin si impegna subito a riordinare.

«Molto fattibile. Molto ingegnoso, anche,» si esprime poi, dosando le parole e tirandosi sovrappensiero in pizzetto, e pare studiarlo dall’interno come un androide malfunzionante. «Si è guadagnato la sua fetta di credito, signor Beck.»

Quentin blocca di colpo i suoi traffici coi documenti, assicurando l’elastico della cartellina. Quelle parole lo mettono in allarme. Fetta di credito. Implicava una spartizione. Lui non aveva nulla a che spartire con gli imbecilli del dipartimento ricerca: aveva fatto tutto da solo, coi propri mezzi e con le proprie forze, sacrificando ore di sonno e di svago. Boccheggia per un istante, per poi riprendersi:

«Ha intenzione di utilizzarli? Di… metterli in commercio; produrli, insomma?» chiede, perdendo un poco della propria sicurezza, lo sguardo un po’ vitreo.

Stark lo fissa indecifrabile e sembra farsi teso, con la linea della mandibola che si irrigidisce.

«Mi sembra prematuro parlarne. Avevo una mezza idea di usarli per una presentazione… roba della September Foundation ancora tutta da organizzare, ma ci serve sicuramente qualche trucchetto di magia che faccia colpo per raccogliere più donazioni possibili,» continua svelto, additando la custodia del congegno. «Questa, nella sua versione scenografica, potrebbe essere una carta vincente, tra le altre proposte.»

Quentin rilassa le spalle, assumendo una postura spavalda.

«Quindi… potremmo iniziare a discutere di un brevetto,» butta lì, con studiata noncuranza e un sorrisetto che gli preme agli angoli delle labbra.

«Brevetto?» Stark adesso sembra sinceramente sorpreso, e porta una mano a sorreggersi il mento, scrutandolo di sbieco. «Non ci saranno brevetti per il momento, signor Beck,» afferma, in tono irremovibile, e Quentin sente quel sorrisetto che si allenta, quasi avessero reciso i fili che lo tenevano in tensione. «Questo è… poco più di un prototipo, oltre che un derivato della nostra ex-tecnologia bellica preesistente. Servono dei permessi e, mi creda, ora non sono nella posizione per marciare a suon di piffero nel Dipartimento della Difesa per un paio di occhiali,» spiega con un mezzo sorrisetto amaro e un fare svogliato, come se la loro importanza fosse allo stesso livello di un temperamatite un po’ bizzarro.

«Sono… appunto, degli occhiali,» si costringe a dire Quentin, fumando internamente per dover sminuire così la propria sudata creazione solo perché il grande Tony Stark l’ha mal giudicata. «Non ordigni, né armi, né–»

«Sono potenzialmente dannosi,» lo tronca Stark, e la sua voce si fa dura mentre si poggia di nuovo contro lo schienale.

«Ma servono allo scopo, solo uno dei tanti, e–»

«Lo scopo primario è facilitare a veterani di guerra e a persone vittime di trauma un completo recupero psicofisico… con questi, ce li ritroviamo in coma vegetativo al terzo utilizzo. Sono una buona base di partenza, sebbene imperfetti…»

No. No, no, non sono imperfetti, non può essere. Li ha studiati giorno e notte, li ha…

«… ma sono sicuro che sarete in grado di smussarne le carenze,» conclude Stark, e adesso sembra spazientito; fa un gesto insolito, tamburellando le dita sullo sterno, per poi interrompersi repentinamente.

Quentin sente il fiele che gli impregna la voce nel sentire quel plurale: è un suo progetto, è il suo lavoro e non è disposto a spartirlo né tanto meno a collaborare con nessuno. Schiude appena la bocca per parlare, ma si interrompe.

Il cellulare di Stark trilla infatti in quel momento, diffondendo le note assordanti di una canzone rock nell’ufficio. Il proprietario alza le pupille al cielo e inclina appena lo schermo, già pronto ad attaccare, poi sgrana appena gli occhi.

«Un momento, a questa devo rispondere. Happy?» chiede poi, girandosi di tre quarti sulla sedia per voltargli parzialmente le spalle. «Uh-huh. Okay. Okay, e… Dove? Uh-huh… zia? E i suoi… oh. Quanti, scusa? Quatt- è assurdo. No, assolutamente no... Per il momento… sì, tienimi aggiornato. Ti richiamo io dopo. Ben fatto, Haps.»

Chiude la chiamata con un gesto secco e un’espressione apparentemente soddisfatta che si palesa in un sorriso sornione, e non riporta subito lo sguardo su di lui. Quentin serra la mascella.

«Diceva?» chiede poi Stark, con fare quasi svogliato, ed è chiaro che la sua attenzione sia adesso più rivolta al telefono che a lui.

«Che a prescindere dai loro difetti, quegli occhiali sono una mia invenzione, e non c’è alcuna ragione per spartirne i diritti,» ribatte lui pronto, quasi tra i denti, senza esitare un istante.

Stark sembra riscuotersi dai suoi pensieri e poi congelarsi sul posto. Lo scruta da dietro il bordo delle lenti arancioni. Poi schiocca la lingua e rimuove quegli schermi colorati, rivelando le iridi scure e le ombre che gli cerchiano gli occhi.

«Signor Beck, è mia abitudine dare a Cesare quel che è di Cesare,» esordisce, prendendo a gesticolare misuratamente con gli occhiali tenuti per una stanghetta. «Ma in questo caso, lei è molto lontano dall’essere Cesare, e io non sono certo il tipo che paga l’ingresso al proprio tempio,» continua, con un tono di voce che oscilla tra il disincantato e il beffardo.

Quentin si sente sprofondare in un misto di rabbia e confusione. Una voragine che gli si apre sotto la sedia, famelica. Batte ritmicamente le palpebre, confuso, poi si riaggiusta la giacca sulle spalle e quella dannata etichetta gli si pianta nella carne.

«Non capisco, signor Stark: ho risolto il problema e gli occhiali funzionano grazie a una mia modifica, non vedo perché…»

«Mi stia a sentire,» lo interrompe Stark, e ha perso ogni traccia di giovialità, adesso. «Mi ritengo un tipo paziente, ma non voglio un bis del conflitto Tesla-Edison, se permette, anche perché non ci sarebbero gli estremi… o meglio, ne mancherebbe almeno il cinquanta percento,» si corregge, sollevando allusivo le sopracciglia nella sua direzione.

Quentin ingoia una risposta affilata che gli incide la gola. Stark riprende a parlare, approfittando del suo silenzio:

«Lei può prendersi la sua percentuale di credito per aver contribuito al progetto in modo brillante; può contribuire al perfezionamento dello stesso assieme al team di ricerca scelto che verrà costituito a breve, seguendo i miei progetti e utilizzando la mia tecnologia; può incassare il suo assegno e continuare la sua carriera qui…» sciorina, quasi senza alcuna inflessione, distrattamente, ma con uno sguardo aguzzo che non si schioda dai suoi occhi. «Oppure, può riprendersi il suo giocattolino e tornarsene nell’ufficio da dov’è sbucato, lasciando a noi il compito di ideare un progetto migliore. Cosa che non sarebbe troppo difficile, se solo avessi il tempo per dedicarmici,» conclude, assottigliando poi gli occhi con un lieve cenno condiscendente del capo. «Come sa, sono piuttosto impegnato

Quentin comprime le labbra, e si sente scuotere di rabbia e umiliazione.

Perfetto, era perfetto, razza di imbecille! vorrebbe gridargli in faccia, ma irrigidisce il collo per trattenersi, rischiando collateralmente di farsi scoppiare un’arteria. Il sorriso che sfodera è denso di crampi.

«Sarei… disposto a partecipare al progetto, ma…» esita, ogni parola rovente nella sua bocca, e fa passare un istante di troppo con quell’esitazione.

Stark si scioglie infatti in un’espressione benevola per nulla naturale, non più calda dei suoi occhi adesso ostili.

«Molto bene, allora, la assegno al team. Direi che la questione è risolta,» conclude perentorio, troncandolo di netto e chiudendo la custodia ancora tra loro con uno schiocco secco che lo fa sobbalzare. «Non si abbatta troppo: se c’è qualcosa che devo al mio vecchio, è un certo fiuto per queste situazioni. Se lo guadagni, quel nome sugli occhiali,» conclude Stark in punta di fioretto, con un ultimo sorrisino glaciale.

Quentin si ritrova la scatoletta colorata in mano e apre e chiude la bocca un paio di volte, spiazzato da quel brusco congedo. Stark recupera il telefono dalla scrivania e si alza senza degnarlo di un ulteriore sguardo, se non uno molto esplicativo verso la porta. Lui si mette in piedi, con gesti un po’ rallentati, robotici e non è affatto così che doveva andare.

Doveva uscire da là dentro in trionfo, con una corona d’alloro in testa e gli omaggi di Stark su un piatto d’argento, e invece si trova declassato a semplice collaboratore, a una delle tante formichine sottovetro che portano avanti le industrie Stark una mollica alla volta.

Si dirige bruscamente verso l’uscita e Stark gli scocca un’occhiata che sembra d’avvertimento, cupa e quasi specchio della sua patetica maschera metallica, prima di inforcare di nuovo gli occhiali da sole. Quentin medita se dirgli qualcosa, se insultarlo, ma sarebbe molto più appagante ferirlo in altro modo, ritorcergli contro quella sua boriosa sufficienza e altezzosità marchio di fabbrica Stark da decenni.

«Grazie del suo tempo, signor Stark,» mastica tra i denti, livido, e tutto ciò che ottiene è una scrollata di dita nella sua direzione, poi l’uomo gli volta le spalle, già impegnato con la mente altrove.

Quentin apre la porta cercando di non sradicare la maniglia, e non può evitare di sentirlo già parlare dietro di sé, apparentemente su di giri e dimentico del loro colloquio.

«Sì, bene, Happy. Ora sono tutt’orecchi.»

Esce dall’ufficio con più lentezza del dovuto, totalmente invisibile, e accosta la porta esitando a chiuderla, le orecchie tese.

«Spider-Man?» lo sente ridacchiare dall’altro lato, e Quentin digrigna i denti a quello sprazzo d’ilarità così fuori luogo, dopo aver sbattuto la porta in faccia a lui. «Che razza di nome, dovrebbe proprio–»

Chiude a sua volta la porta con uno scatto secco, senza curarsi di accompagnarla. Al diavolo Stark e tutti i pagliacci mascherati di cui si circonda. Una smorfia a metà tra un ghigno rabbioso e un sorrisetto colmo d’aspettativa gli deforma il volto. Si strappa quella dannata etichetta dalla giacca, scagliandola a terra e calpestandola.

Farà le cose a modo suo.

 
***

 
Maggio 2016, M.I.T., Massachusetts

 
«Signor Stark!»

Tony ignora la voce e scende rapido le scale, con quel pezzo di carta ancora stretto in mano. Ha le palpitazioni, le sente sotto la camicia ed è sicuro che tre anni fa il chirurgo gli abbia lasciato qualche microframmento di bomba nel petto, perché sente dei solchi brucianti che si irradiano dal proprio cuore.

«Signor Stark!» la voce riecheggia più forte per la tromba delle scale, distorta, e le onde sonore rimbalzano anche nella sua testa scossa dall’emicrania.

Maledetti occhiali, impreca tra sé, sentendone ancora la pressione sopra le orecchie e dietro la nuca. Si massaggia la testa dolorante, individua Happy vicino all’uscita sul retro e la sola idea di chiudersi in un abitacolo gli fa venire la nausea.

«Signor Stark!»

«Non adesso!» sbotta Tony senza voltarsi, cacciandosi nella tasca interna della giacca la foto di Charles Spencer. «Happy, lascia perdere l’auto: torno in armatura,» continua, ancora con voce contratta, le dita che tremano, e scorge l’autista che si defila rapido una volta sbucati nel parcheggio.

La foto sembra fatta di piombo, sente gli angoli che premono nella tasca interna della giacca con insistenza, il peso di una vita spezzata.

«Stark, aspetti un momento!» la voce sconosciuta si fa più alta, ed è il fremito di rabbia che la scuote a convincere Tony a voltarsi di scatto, sul chi vive.

Non possono essere tutti impiegati del governo o padri e madri furiosi; sa che prima o poi gli capiterà un lunatico che gli punterà una pistola in mezzo agli occhi facendogli saltare le cervella, e questo sembra un ottimo candidato: occhi strabuzzati, capelli sconvolti e falcate aggressive che pestano i gradini dirette proprio verso di lui, coi pugni serrati e il volto rosso che richiamano una caricatura disneyana.

«Ehi, ehi, ehi,» lo ferma Tony, un dito già sullo Stark-watch assicurato al polso e Dio, non può avere un attacco di panico adesso. «Distanza di sicurezza, Paperino, non vado d’accordo con i…»

«RIMBA?!» quasi grida l’altro, fermandosi a una distanza che non è decisamente di sicurezza, con sua estrema irritazione. «Li ha davvero chiamati RIMBA?!»
Tony registra in ritardo cosa ha detto oltre il velo d’allarme e tachicardia e sudore freddo. Lo guarda meglio in volto, che a parte l’espressione irrigidita dalla furia e gli occhi che mandano lampi gli è familiare, sotto la folta barba biondiccia che lo ricopre.

«Cos– io la conosco, lei è… è Bark, Byrd…» tentenna, schioccando più volte le dita di fronte tra di loro nel tentativo di mettere a fuoco il nome, oltre che di tenerlo lontano da sé mentre si impegna a respirare in modo umano.

«Beck!» lo corregge l’altro, quasi in un latrato. «Quentin Beck, e , ci conosciamo, anche se dubito che lei si ricordi di me,» aggiunge, con un gesto esageratamente teatrale e ironico verso se stesso, quasi fosse su un palcoscenico nel mezzo di un Amleto.

Tony serra la mandibola, imponendosi un aplomb inattaccabile mentre fa scattare lo sguardo a perlustrare i dintorni, ma il parcheggio su cui si affaccia l’uscita sul retro è deserto. Bestemmia tra i denti, e il suo cuore non sta rallentando, sembra alimentato da quella foto posta troppo vicina ad esso.

Gli mancava questo, per coronare la giornata… non ha tempo da perdere con i mitomani, tanto meno ora. Ha un vago ricordo di quell’uomo fuori di sé: nel suo ufficio alle Industries, qualche mese fa, e sa che probabilmente ha qualcosa da recriminargli – come d’altronde mezzo mondo, tra Vendicatori poco collaborativi, fratture di coppia che è troppo incapace per riparare e madri che perdono figli per colpa sua, Cristo, per colpa sua e delle sue idee del cazzo.

Sente una stilettata di dolore che lo trapassa dalla nuca alla fronte per poi chiudersi a tenaglia sul suo cranio. E finalmente ricollega i pezzi: gli occhiali, il nuovo prototipo difettoso, quello su cui alla fine aveva dovuto mettere le mani di persona e che ha migliorato solo in parte, perché aveva troppa fretta e troppo poco tempo per renderlo davvero sicuro; e dopotutto era abituato a fare da cavia da laboratorio per tecnologie poco ortodosse.

«Sì, Beck!» esclama quindi di rimando, con un sorriso gelido e il perfetto bersaglio su cui sfogarsi improvvisamente di fronte a lui. «Certo che mi ricordo: sei il motivo per cui in questo momento ho un concerto di Whiplash in testa. Immagino che proseguire sulla strada degli ultrasuoni non abbia dato i suoi frutti, genio,» sbotta caustico, additandolo e mandando all’aria qualsiasi tentativo di discussione civile perché, quando lo coglie l’emicrania, smette di comportarsi da essere umano e diventa un fascio di nervi suscettibili tenuto insieme da un sarcasmo da asilo nido.

Vede i suoi occhi chiari che tremolano e si irrigidisce d’istinto: c’è un qualcosa di inquietante, di sbagliato, nel modo in cui lo guarda. Quel tipo d’espressione che a volte era stampata in faccia a Stane e che era manifesta su quella di Killian; gli occhi di chi, potendo, vorrebbe cancellare dall’esistenza chi ha davanti.

«Gli occhiali funzionano, ed è tutto ciò che conta! E lei li ha usati, e li ha chiamati RIMBA!» s’infervora Beck, con le sopracciglia rigidamente inarcate, e quando fa per compiere un altro passo Tony tende di scatto un braccio, piantandogli seccamente un palmo sul petto a respingerlo.

«Ho detto: distanza di sicurezza,» sibila, con qualche colpo mancato al cuore e un dolore sordo all’orecchio. «Non mi piace che mi si porgano le cose, e non mi piace avere tra i piedi persone agitate, chiaro?» scandisce poi, ed è a un passo dall’attivare il guanto dell’armatura nascosto nell’orologio.

Dove diavolo è Happy, quando serve? O meglio, perché lo manda sempre via quando serve?

«Voglio i miei diritti, Stark! Quelli,» e Beck addita gli occhiali che sporgono dal taschino, sbattendo nevroticamente le palpebre al colmo dell’ira, «sono una mia–»

«Questi,» lo corregge Tony, premendo una mano su di essi, «sono un brodo primordiale di tue idee applicate a un mio progetto; idee montate su materiali Stark, difettose e tenute insieme con lo sputo, se non fossi intervenuto io in ultima battuta a prendere le redini del progetto, rimediandomi comunque un’emicrania da incubo, grazie tante,» scandisce, alterandosi con ogni parola che pronuncia e sfregandosi di riflesso la nuca indolenzita per la combo tra ultrasuoni e impulsi elettrici. «E non mi sono scordato che hai ripescato dei progetti dalla notte dei tempi, cestinati perché potenzialmente pericolosi…»

«Ma io, al contrario di te, ne ho fatto buon–»

«… e non pensare che non abbia notato la tua boccia per pesci rossi che ricalca le interfacce della Mark,» conclude, parlandogli sopra a volume decisamente troppo alto rispetto ai suoi standard pacati, e sottolinea il concetto tagliando seccamente l’aria con la mano.

A Quentin tremano le guance e il suo volto si deforma in un lampo di puro odio.

«Erano mie idee ed erano perfette, Stark!» erompe, gesticolando coi palmi tesi. «Ma tu vuoi sempre prenderti tutto il merito solo perché ogni tanto hai un’armatura addosso!» inveisce poi, con un tono che, non lo nasconde, gli mette i brividi e sembra sottolineare il fatto che al momento non abbia cinque centimetri di titanio a fargli da scudo.

Gli fa venir voglia di avere suddetta armatura a portata di mano, ora, ma temporeggia, col cuore che non la smette di palpitare fuori tempo contro la foto.

«Ti ho già spiegato come funziona, bimbo prodigio, l’ho ripetuto anche sul palco: lavorare insieme è il concetto chiave [5]. E se non ti sta bene, sei libero di creare la tua allegra industria tecnologica personale lontano da me,» gli intima, senza arretrare, e si decide a premere il tasto per richiamare la Mark, perché Beck è troppo, troppo su di giri, è paonazzo, gli pulsa una vena sulla tempia e sembra a un passo dal saltargli al collo – e ne ha abbastanza di gente che cerca di strozzarlo.

«Mi hai preso in giro, Stark!» continua a ripetere Beck, a loop, una litania perforante. «Ti sei appropriato della mia–»

«Frena, McQueen [6], hai ragione: colpa mia che non sono stato abbastanza chiaro,» scatta Tony, e adesso la soglia della sua pazienza si decomprime pericolosamente, unita a un pizzico di smania al pensiero di dover passare alle maniere forti. «Mi spiego meglio: non mi sembra che qua sopra ci sia scritto “Beck”,» conclude, additando il badge sul suo petto col marchio delle Industries che stampa il proprio cognome a chiare lettere.

Il volto di Beck si contorce come fumo e vira su una tinta verdastra.

«Tu lavori per me. Ma, in effetti, tu non sei affar mio: se devi sporgere reclamo, fallo con l’amministratrice delegata. Sarà entusiasta di mettere alla porta uno squilibrato come te,» inveisce d’un fiato, e sente il rombo rassicurante dei propulsori in avvicinamento che fendono l’aria.

Beck si guarda attorno allarmato da quel suono, poi il suo volto passa dall’ira allo sbigottimento, come se fosse d’un tratto tornato in sé. Sbarra gli occhi, che si fanno vitrei, spaesati.

«Cosa? Mettere alla– che diavolo vuol dire?»

Tony non si degna di rispondere, e quando percepisce la Mark sospesa alle proprie spalle fa un passo all’indietro come per salire un gradino, entrando nel suo abbraccio metallico.

«Vuol dire,» dice, mentre l’armatura gli si salda addosso, «che sei licenziato,» conclude, con l’elmo a distorcere la sua voce.

«Stark!» lo richiama ancora Beck, ma lui è già decollato e il suo urlo alterato vira sullo stridulo e si perde nel grido dei propulsori.

Riprende a respirare, con la Mark che gli fornisce ossigeno aggiuntivo e un battito cardiaco fuori norma. La voce compassata di FRIDAY risuona nel suo orecchio:

“Capo, vuole che contatti la signorina Potts per–”

«Usa la chiave per il database delle Industries ed elimina direttamente Quentin Beck dalla lista dipendenti,» la anticipa secco Tony, aumentando la velocità nel cielo nuvoloso che gli ricopre di goccioline l’armatura. «Rimuovi il suo nome da qualunque progetto a cui abbia partecipato. Damnatio memoriae sia, caro “Cesare”,» borbotta poi tra sé, con malcelato e maligno compiacimento.

“Subito, Capo.”

Sfonda il muro del suono con uno schianto secco e si libra sopra lo strato di nuvole, nel cielo terso e accecante del tutto in contrasto col suo umore e con la tempesta che intravede all’orizzonte.

Ha un milione di faccende decisamente urgenti da affrontare, e Quentin Beck non è tra queste.

 


 
*
 
 


Note:

[1] Il titolo è un rimando ironico all’annosa diatriba tra due gruppi musicali: i Verve, autori di Bitter Sweet Symphony e i Rolling Stones, autori di The Last Time. Vi fu un’accusa dei Rolling Stones rivolta ai Verve per aver plagiato il riarrangiamento del loro brano ad opera della Andrew Oldham Orchestra. I Verve persero la causa e dovettero pagare il risarcimento a Mick Jagger&co, oltre che cedere i diritti di Bitter Sweet Symphony e citare i Rolling Stones come autori. Ad oggi, l’obbligo è decaduto e i Verve si sono riappropriati dei diritti, pur dovendo sempre citare i legittimi autori. Pare che i Rolling Stones stessi avessero tratto ispirazione da un gospel preesistente per la loro canzone e l’ironia della sorte volle che né gli autori del suddetto gospel, né Andrew Oldham (il famosissimo ritornello di Bitter Sweet Symphony è una sua ideazione per il riarrangiamento) videro mai lo straccio di un diritto per il loro lavoro. Ain’t that just the way.
[2] Teresa “Bambi” Arbogast, segretaria del CEO delle Stark Industries.
[3] È un riferimento al congegno che Obadiah Stane utilizza nel primo Iron man per paralizzare Tony. È stato davvero ritirato dal mercato poiché ritenuto troppo pericoloso, a detta di Obadiah. Da qui derivano anche le reazioni successive di Tony.
[4] Nome del tutto inventato per la boccia per pesci rossi che Beck ha in testa.
[5] Tony sta citando uno stralcio del motto del MIT, precedentemente enunciato durante la sua presentazione.
[6] Steve McQueen era noto per il suo carattere molto irruento e assertivo, oltre che per essere spericolato nei suoi stunt automobilistici.



Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
questa storia è nata in un momento di meditazione su Far From Home ed è stata guidata dall'aver letto di recente un articolo sulla citata disputa riguardante Bitter Sweet Symphony, conclusasi definitivamente proprio quest'anno, oltre che da altri eventi riguardanti temi simili e capitati alla sottoscritta, ad oggi risolti per il meglio e pacificamente.
Tornando a noi, ho odiato le insinuazioni irrisolte nei confronti di Tony in FFH rispetto ai RIMBA, e mi sentivo in dovere di fornire a una spiegazione a una scelta di trama a mio avviso odiosa, che getta ombre sull'immagine di un uomo che ha già commesso abbastanza errori senza doverne insinuare altri anche nell’ambito dell'etica professionale, oltre che della sua inventiva. Opinione personale: Tony, da orgoglioso ed egocentrico qual è, si farebbe impiccare piuttosto che rubare idee altrui per spacciarle come proprie.

Ho cercato di rendere validi entrambi i punti di vista, e spero che la mia resa di Beck possa risultare credibile (le sue difficoltà economiche sono in tutto e per tutto un mio headcanon). Qui è molto più giovane rispetto a Far From Home, quindi la sua parte psicotica è ancora più o meno sotto controllo. Il suo scoppio d'ira deriva dal fatto che racconta di essere stato licenziato da Stark in persona, che l'ha definito "squilibrato/instabile". Visto che Tony è solitamente una persona abbastanza pacata, almeno in contesti "formali", ho dedotto che dovesse essere accaduto qualcosa di eclatante per spingerlo a tanto.

Chiudo il papiro ringraziando
_Atlas_ e Miryel, che hanno avuto la pazienza di sorbirsi la bozza raffazzonata di questa... creatura che non so ben definire nemmeno io :')
E grazie a chiunque leggerà, sappiate che ogni commento è gradito <3

-Light-

P.S. Per un altro missing moment che cerca di dar senso i guazzabugli del MCU, mi permetto di indrizzarvi a a
Compromessi :)


 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: _Lightning_