Questo
raccontino-riflessione m’è venuto in mente durante
gli
interminabili cambi in metropolitana, una piccola
“pausa” creativa dall’altra
storia, giusto per distrarsi e scrivere qualcosa di più
leggero.
Vi auguro
buona lettura,
H.
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Come le
altre sue amanti la credeva facile preda, ancor più se le
dicerie su di lei corrispondevano al vero. D’altronde, chi
egli aveva voluto,
aveva ottenuto e poi rinchiuso in una gabbia dorata come gli usignoli
dalla
bella voce, troppo dilettevoli da lasciar fuggir via.
Conscio,
certo, di giocarsi l’alleanza col suo genero Ezzelino,
tuttavia vinto dalla curiosità indomabile di conoscer colei
che tra i trovatori
s’appellava la gran meretrice, colpevole d’aver con
trobar di troppo traviato dall’amor
cortese l’incauto
Sordello, scottato dalla fiamma dell’amor profano e ora
oggetto di scherno nella
corte provenzale di Raimondo Berengario, nipote della sua Costanza.
(ottima
scusa dunque la visita alla moglie Isabella e alla figlia
Selvaggia a Noventa Padovana)
Chi era
dunque costei che per amor più che per dovere verso i
fratelli si lasciava rapire dal politicamente ingombrante marito? Che sempre per voler dei fratelli dal suo
Sordello crudelmente separata, in gran fretta trovava conforto e
l’altra metà
del suo cuore nel giudice e procuratore di Treviso, il
bell’Enrico da Bonio,
sposato e con prole, vivendoci quindici anni assieme con gran scandalo
e più
moglie gli fu ella di donna Cecilia, novella Arianna abbandonata
dagli
adulteri alla corte d’Alberico da Romano, signore della
Marca?
Mai si
scrisse di donna che per libera scelta s’accompagnò
pubblicamente all’amante tra
gran sollazzi e grandi spese, incurante di ogni morale e legge se non
quella di
Amore; donna questa di carne e ossa e sangue, che d’amor vero
visse, non s’accontentò
di leggerlo.
Vedova,
ahimé, l’aveva poi lasciata Bonio il cuor suo,
spirato tra
le sue braccia una triste domenica d’assedio fratricida.
“Vivi”, le aveva
ordinato, la bocca vermiglia sua di sangue onorata da quella
altrettanto vermiglia
di lei.
“Vivi e sii contenta.”
E lei
visse, vedova per necessità scaltra, abbandonando Treviso e
il fratello Alberico per seconde nozze e ambascerie di pace e
riconciliazione
con Ezzelino il Terribile. Un marito in più, uno di meno -
tanto di lei nessun
era mai effettivo padrone.
O te che
incoronarono come Figlia di Venere, pensava tra moglie e
figliola l’Imperatore, davvero a nessuno ti neghi se te lo si
chiede con
cortesia? Quanti cuori hai mietuto tra l’Adige e il
Tagliamento, tra il Brenta
e il Po e in quella Marca come te gioiosa e amorosa?
Entrò
nella sala finalmente madonna Cunizza da Romano, alle torce
rilucente di raro splendore, perla dagli occhi di onice, incedeva a
passo di
danza a braccetto col marito Naimerio da Breganze al quale poco badava,
più
intenta a prestar orecchio alle dolci musiche dei menestrelli e alle
promesse
conniventi della notte.
Neanche
la presenza dell’Imperatore pareva scuoterla, non lo
rimirava golosa similmente alle altre dame e fanciulle: egli per lei
non
esisteva. Ovvero, si trovava lì e poteva non trovarsi
lì, nessuna differenza le
avrebbe recato.
Infastidito?
Intrigato? l’Imperatore le si avvicinò cauto,
senza
destar troppi sospetti con la scusa di favellare con il genero. A chi
pensi,
amica mia, al Sordello e ai suoi versi o al Bonio e ai suoi baci? Le
offrì lusinghiero
del vino e Cunizza
l’accettò cordiale,
bevve e con la punta della lingua si nettò le labbra tumide.
Appoggiando la
coppa sorrise all’Imperatore, il capo reclinato vezzosamente
e il suo “grazie”
una carezza ai sensi come la seta orientale e Federico l’uomo
si sentì perduto.
Ma oltre
Cunizza non gli concesse: terminato quel breve e complice
idillio, ella già si girava dalla parte opposta, annoiata o
stanca o forse
distratta; confuso e umiliato, Federico seguì il torpido
vagare del suo sguardo
(mai contemplato su volto di donna!) per appurare, con suo sommo
smacco, chi
fosse il destinatario degli intimi ardori di madonna, ossia il giovane
scudiero
di un cavaliere che quel pomeriggio l’aveva accompagnato a
caccia.
Uno
scudiero vincitore! E lui, Imperatore e tante altre cose, respinto
dopo appena un solo sguardo!
Federico
non comprendeva, basito, eppure Cunizza quel giovinetto
se lo divorava coi suoi occhi di onice, lo baciava e se lo coccolava al
seno,
le gote porporine e le labbra dischiuse, fremente e palpitante
d’amore.
“Il
vostro primo suocero”, diss’ella infine, senza
perder di vista
la preda e i falchi Federico li conosceva bene, “a quindici
anni venne sfidato ad
un partimen da Giraut de Bornelh, in cui gli venne chiesto se un
sovrano può amare
onestamente e ricevere amore disinteressato, poiché a lui nessuna donna può
rifiutare i propri favori. Il
Re Alfonso d’Aragona rispose invece di sì,
che tal amor puro può e deve esistere se
la natura dimora cortese e sincera nell’animo amante e
amato.”
Altro non
v’era da aggiungere.
Se
l’Imperatore le avesse domandato con garbo e senza insistere
di
giacere con lui, madonna Cunizza da Romano quella notte
l’avrebbe anche accontentato
e forse addirittura per qualche istante amato. Però egli non
tramutò quel
pensiero in azione e non volle chiederle alcunché, non per
timore di un rifiuto
bensì per orgoglio ferito: anima arguta,
l’Imperatore aveva compreso come lui e
lo scudiero stessero di pari merito nel cuore immenso e magnanimo di
Cunizza ed
era quel raffronto (o assenza di esso) a confonderlo e infastidirlo, non avvezzo alla donna che sceglie e rifiuta liberamente.
Si
alzò l’Imperatore, ritornando per il momento dalla
sua più
docile moglie. Altrove avrebbe cercato soddisfazione.
Sì
alzò Cunizza e dimentica del marito si diresse flessuosa
verso
le sue stanze, ben accorta che il tragitto la conducesse presso il suo
scudiero. Gli scoccò una sola occhiata ed egli divenne suo
grato prigioniero,
ricambiando con estatica devozione. Quella notte, di sicuro avrebbe
servito coscienziosamente
quella sua cavaliera di ben altra possanza e valore.
Ecco la
natura di Venere ciprigna, Venere capricciosa, Venere generosa
che ama tanto, ama tutti con gioia disinteressata per il gusto di amare, purché fosse
con animo puro e
sincero. Come poteva dunque lei, Cunizza sua degna figlia, essere da
meno?
I da
Romano si nutrivano di sangue; perché biasimarla se lei
voleva nutrirsi d’amore?
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Questo
è un racconto di pura speculazione e fantasia,
chissà se
mai Cunizza da Romano e Federico II di Svevia ebbero mai modo
d’incontrarsi;
forse durante le visite che l’Imperatore faceva
all’alleato Ezzelino III da
Romano o in occasione delle nozze di questi con la figlia naturale
Selvaggia
(sempre se partecipò alle nozze) o alle visite a Noventa
Padovana alla terza
moglie Isabella d’Inghilterra. Chissà.
Cunizza da Romano era la sorella
dei signori di Treviso Ezzelino III da Romano e Alberico da Romano e da
essi
venne usata spesso e volentieri come pedina nella scacchiera politica:
celebre
infatti fu il rapimento col beneplacito dei fratelli da parte di
Sordello da
Goito per darla sui corni al marito Rizzardo da San Bonifacio signore
di
Verona da cui ebbe un figlio, Leoisio; poi di Sordello ella s’invaghì realmente e
i fratelli, non accettando
la relazione, lo cacciarono via e Sordello si beccò pure gli
sfottò dei
trovatori suoi colleghi. Nel 1227 Cunizza incontrò
l’amore della sua vita, il
giudice e procuratore di Comune Enrico da Bonio, con cui convisse fin
quasi al
1239-1242 circa, anno in cui Ezzelino cinse d’assedio
Treviso, non contento
della politica filo-guelfa del fratello Alberico, suocero per di
più di Rinaldo
d’Este che si era rifiutato di cedere come ostaggio a
Federico assieme alla
figlia Adelaide. In questo assedio, purtroppo, morì Enrico
da Bonio e Cunizza
pensò bene di riavvicinarsi ad Ezzelino (forse anche per vegliare da lontano sul figlio Leoisio che stranamente suo zio risparmiò) e suo fratello le
trovò un secondo marito,
Naimerio da Breganze. Nel 1259-60 la Lega Guelfa capitanata da Azzo VII
d’Este
sconfisse prima Ezzelino e Alberico, ritornato ghibellino, venne
trucidato
assieme alla sua famiglia a Treviso per ordine del podestà
Marco Badoer.
Cunizza soltanto si salvò, riparando a Firenze, ospite di
Cavalcante de’
Cavalcanti , dove si diede alle opere pie.
Da alcuni
additata come sgualdrina, da altri come magnanima e generosa
nel suo amore, sicuramente Cunizza era un’anima amante che
visse la sua vita
come meglio poté e senza rimpianti, conobbe il vero amore
anche se poco casto,
sublimò le sue passioni terrene per quelle spirituali e per
questo,
contrariamente alla “sognatrice”, vittimista e passiva Francesca da
Rimini, Dante assegnò a questa santa
scandalosa il Paradiso,
collocandola nel
cielo di Venere.